rivista anarchica
anno 32 n. 281
maggio 2002


repressione

Senza panchine
di Franco La Cecla

Vietato fermarsi. Vietato sostare. Vietato riposarsi. Vietatissimo stendersi o peggio ancora dormirci sopra. Ecco perché (e come) il potere elimina le panchine. In tutto il mondo.

So che dirlo così può sembrare ridicolo, ma a costo di esserlo vorrei affermare una regola per misurare il livello di tolleranza e democrazia di una società.
Ci sono, credo, dei sintomi dai quali si può evincere se una democrazia è in crisi o no. Dei segni forti di questa sintomatologia sono la vita di strada e i diritti di tutti i cittadini all’uso della strada. Le società che cominciano ad aver paura della propria democrazia cancellano gradualmente gli spazi “casuali” della strada, quei luoghi dove ci si può incontrare tra estranei.
Una storica della vita di strada negli Stati Uniti, Rebecca Solnit, ha affermato in un suo libro sulla storia del camminare (Wanderlust, di prossima pubblicazione in Italia per Bruno Mondadori) che democrazia è la possibilità di camminare in città in mezzo a estranei. Sicuramente “lo straniero” è una misura della democrazia e l’estraneità, cioè il diritto a una vita pubblica senza bisogno di appartenenze a clan, tribù o mafie, è una delle conquiste della democrazia moderna.
Da questo punto di vista l’argomento che vorrei sostenere, e cioè che “le panchine” siano una cartina di tornasole della democrazia di un Paese, può sembrare meno originale di quanto suoni.
In aiuto mi viene, ahinoi, proprio la tendenza delle grandi città americane ed europee a “estinguere” le panchine.

A Parigi come a Hong Kong

A Parigi come in America le panchine sono viste come luoghi sospetti dove clochard, barboni, immigrati, gente senza fissa dimora e di malappartenenza possono trovare rifugio. Nel metrò parigino è stata sperimentata una panchina “anticlochard” che non consente un appoggio stabile. Non vi ci potete sdraiare ma nemmeno sedere perché è concepita come una superficie in pendenza. Si può sostare per poco su di essa, ma sono le vostre gambe a continuare a sostenere il vostro peso. A Hong Kong precisi regolamenti di polizia proibiscono a chi passeggia per gli enormi shopping center posti tra un grattacielo e l’altro di sedersi, perfino di sostare per poco. La panchina risulta insomma un’infrazione a una delle regole delle nuove città autoritarie del Terzo millennio. Ci si può sedere per terra solo se è la polizia a obbligarvici. Le scene del G8 a Genova raccontano situazioni di repressione di questo tipo. I manifestanti vengono obbligati a distendersi per terra per essere esposti alla minaccia dei manganelli. O se chiusi in caserma vengono obbligati ad appoggiarsi al muro con le mani fin quando non crollano per la stanchezza e vengono puniti. C’è nella guerra alla posizione di sosta in posti pubblici il principio di qualunque repressione del diritto di assembramento e di manifestazione. L’unico fruitore cui viene concesso il diritto allo spazio pubblico è un fruitore di passaggio o che “lecchi” (come dicono i francesi) le vetrine dei negozi. Il cittadino delle città del Terzo millennio è qualcuno che la polizia deve far circolare. L’unica sosta consentitagli è un luogo in cui deve consumare, sia esso luogo di acquisto o di spettacolo o un luogo come l’automobile che è già dentro la logica della circolazione forzata.
Giorgio Agamben qualche giorno dopo i fatti di Genova ha descritto in maniera agghiacciante quegli avvenimenti come prova generale di una gestione nuova delle città in quanto spazi di repressione. Il governo Berlusconi vi ha sperimentato uno spazio di polizia che occorre da ora in poi allargare a più territori possibili. La città diventa luogo del controllo e della sorveglianza mutuando una logica che ha avuto origine nell’invenzione degli spazi speciali di concentramento (che i nazisti avevano imitato dai campi inglesi in Sudafrica dove internare i Boeri) e poi via via fino ai campi di pulizia etnica in Bosnia, ai campi dove chiudere gli immigrati clandestini in Europa.
È una logica che si sta infiltrando nelle nostre città – in questi tempi di pace/guerra con la scusa della sicurezza e del controllo. Già oggi in America le organizzazioni di quartiere possono ricevere finanziamenti per l’arredo urbano solo se li chiedono in funzione di una maggiore sicurezza (è uno studio operato sulla zona di Hollywood, a Los Angeles, dall’antropologo John Katz).

I Kafiri, per esempio

La logica della sicurezza non vede di buon occhio tutto ciò che nella città è spazio offerto alla casualità della sosta. Una panchina diventa un luogo pericoloso perché non richiede nessuna tessera magnetica per essere usata.
Se questi sono i sintomi preoccupanti, vediamo come le panchine sono diventate quello che sono “pericolosamente”. Le panchine sono un’invenzione della grande città “borghese”. Sono nate con i boulevard, con le passeggiate nei giardini e nei viali che hanno ridisegnato il volto della città post-gotica. Nelle città medievali non c’erano panchine, ma piuttosto sagrati, campi in città, e sedersi significava stravaccarsi, distendersi, mettersi a ginocchioni e tutta la più vasta gamma delle posizioni dello stare. Se viaggiate in Oriente vi accorgete che ancor oggi cinesi, vietnamiti, laotiani assumono posizioni dello stare che a noi sembrano impraticabili. I loro corpi si adattano al luogo e qualunque esso sia – marciapiede, muretto, tavolo, albero, scala – lo trasformano in luogo di vita e di socialità. La posizione può essere sui talloni, o l’accucciarsi può trovare altre parti del corpo come appoggio, ma la varietà dell’ubi consistam è enorme. Intere culture si distinguono per la loro maniera di “distendersi”. Ad esempio i Kafiri, che sono un popolo non islamizzato, sulle montagne afgane dell’Hindu-Kush, non sono capaci di sedersi per terra “alla maniera araba” e quando lo debbono fare una gamba viene distesa sul terreno in tutta la sua lunghezza (si dice che questo dipenda dal fatto che loro sono i discendenti delle truppe di Alessandro Magno e quindi degli stranieri anche nel modo di sedere).

Le panchine “minimaliste”

Le panchine nascono nelle città europee e americane e sono un corollario ai giardini e ai viali. Sono la risposta “urbana” al bisogno di sedersi per strada. Ne sono la civilizzazione, nel senso della “civiltà delle buone maniere” di cui parla Norbert Elias. Le grandi città del diciannovesimo secolo devono disciplinare grandi masse urbane e inventano un modo di fruire la città il cui modello rimanda ai comportamenti della nuova borghesia urbana. La panchina nasce con gli ombrellini che difendono mesmadames et mesdemoiselles dal sole, le crinoline, la redingote e tutto l’armamentario di cui i romanzi dell’Ottocento sono la migliore documentazione.
Se volete trovarne una versione simpatica, aggiornata, andate a Barcellona lungo les Rambles che conduce al mare e vedrete come le panchine sono ancora il segno signorile di uno stare che non ha alcuna connotazione né da vegliardo né da clochard. È solo nei primi decenni del Novecento che le città diventano luoghi in cui il passeggio perde la presa e lo status. Le automobili prendono piede e condannano lo stare a una situazione che è marginale, decadente, riservata a chi non è “al centro” della vita sociale. Le panchine diventano nella Roma umbertina e poi nella Roma repubblicana il luogo degli anziani o degli innamorati “poveri”, cioè degli innamorati che non hanno altro luogo per incontrarsi perché sono troppo giovani o non posseggono luoghi privati per corteggiarsi. L’immaginario della panchina cambia. Cambiano anche le forme. Dal tripudio di varietà del diciannovesimo secolo si passa alle panchine “minimaliste” del ventesimo.
È allora che la panchina diventa sempre più un luogo di sosta di chi è espulso dai processi sociali. I senza fissa dimora ci vivono, a volte ci muoiono (è successo all’inizio dell’inverno di quest’anno a Milano per il freddo). Se sfogliate la Settimana Enigmistica dagli anni Cinquanta a oggi vi accorgete che le vignette che ritraggono barboni e mendicanti hanno spesso come ambientazione le panchine.
“Stare in panchina” diventa nel linguaggio comune un sinonimo di essere tagliati fuori dall’azione. La panchina è il luogo in cui finiscono, al momento del pensionamento, coloro che non sono più utili al processo produttivo. O coloro che per disgrazia o per scelta non vogliono essere utili allo stesso processo. Paul Auster, in vari suoi libri e racconti, spiega bene come si diventa barboni e come la panchina diventi un luogo di vita. E in una straordinaria cronaca, King, John Berger descrive la vita ai margini di un gruppo di homeless. Questa deriva della panchina colpisce tutto l’uso che altre fasce sociali possono farne. Già negli anni Settanta del Novecento a Parigi era proibito distendersi su una panchina. Arrivava un flic e vi diceva subito di mettervi seduti. Come se la panchina descrivesse il crinale pericolosissimo tra il sedersi ammesso e dignitoso e il lasciarsi andare “giù verso la china”. Nella panchina alligna una specie di morbo che vi può condurre giù verso la degradazione sociale e morale.

Regole non scritte

Nel nuovo galateo urbano della città di fine Novecento in pubblico non ci si può lasciare andare. Se è concessa qualche effusione tra innamorati, è la solitudine stanca a essere proscritta. Chi è stanco se ne torni a casa. Questo nuovo comandamento altera completamente l’uso della città. La città zonizzata non consente un riposo e una ricreazione nel suo centro vitale. Chi vi dorme è considerato un soggetto pericoloso o in pericolo.
Dormire in pubblico è considerato non solo una pratica oscena, ma soprattutto a rischio dell’incolumità di chi dorme. Nonostante secoli di siesta, di stravaccamenti e di riposo in pubblico. In altre culture e in altre città, specie in quelle asiatiche, ciò sarebbe inconcepibile. Nelle città europee e americane il “riposo” diventa, se esercitato in pubblico, altrettanto osceno di un atto sessuale. In Giappone è previsto ancor oggi che nei luoghi pubblici vi siano stanze, zone, all’aperto o al chiuso, negli uffici, nelle scuole, nei parchi, destinate al sonno ristoratore pomeridiano. Per un popolo costretto a pendolarismi sfibranti è l’unico modo di “farcela”. Lo stesso non avviene in Occidente. Da noi la connotazione del corpo disteso in pubblico ha una oscenità che è intollerabile. La panchina è una seduta ambigua perché, se consente il sedersi, suggerisce allo stesso tempo lo scivolare lungo distesi. Certamente forma e materiale consentono un riposo provvisorio, scomodo e non accogliente come un prato o un materasso, ma al contempo garantiscono una igiene e una posizione rialzata che il terreno non offre allo stesso modo. La cosa interessante è che le panchine portano raramente “istruzioni per l’uso”. Ciò che su di esse viene interdetto non c’è bisogno di scriverlo perché è la società nell’elaborazione continua dei suoi procedimenti disciplinari a “dirlo”. In questo non scritto c’è per i meccanismi repressivi un esercizio interessante. Le regole non scritte dello spazio sociale consentono una fluttuazione utile ai meccanismi disciplinari. È a giudizio della guardia o della polizia urbana che un atteggiamento viene considerato più o meno tollerabile.
Le panchine sono per lo stesso motivo un luogo importante di “resistenza”. Se non lo erano fino a poco tempo fa, dove sembrava che fossero un rifugio della marginalità, oggi la loro esistenza e il loro uso sono altamente rappresentativi del rapporto tra cittadini e poteri di controllo polizieschi. Le panchine offrono nello spazio urbano luoghi di frammentazione della soggettività, luoghi di riproposizione di una non funzionalità. In questi luoghi si possono esercitare attività non retribuite né retribuenti, in esse il cittadino è “nudo” cioè inutile al potere e per questo capace di un contropotere sociale. Tutto ciò viene concesso solo agli anziani o ai bambini, ma non è quasi concepibile per altre fasce, a meno che non si tratti di marginali che possono essere repressi facilmente. Una popolazione nuova delle panchine sono gli immigrati che le hanno scelte come luogo di riposo da una sfibrante ricerca di sopravvivenza, ma anche come luogo dove ricostituire una socialità tra immigrati. Le panchine diventano luogo dove si mangia, ci si riposa. A Hong Kong, città che per altro odia le panchine e le elimina appena può, sono il teatro della aggregazione domenicale delle donne filippine che vi fanno pic-nic, si truccano l’un l’altra, si acconciano, si tagliano i capelli. Ovviamente sono luoghi che danno fastidio perché nessuno vi paga l’affitto e sono offerti “gratuitamente” all’uso. È su questo punto che la repressione si scatena e si scatenerà. Luoghi del genere, gratuiti, sono sempre meno consentiti e possibili. Le città sono state trasformate in un teatro di ombre private e in una lugubre sfilata di shopping situations. Difficile che luoghi gratuiti possano sfuggire a questa pianificazione. Occorre dire che raramente architetti, designer e planner si sono posti questo problema. La città esiste fin quando al suo interno sono consentite attività “indefinite”, multifunzioni che mescolano soggetti, generazioni, generi, attività e movimenti diversi. In una città “autoritaria” come quella prefigurata durante il G8 o come le città della safety americana è proprio l’indefinitezza dell’utenza la cosa che ispira più terrore. Le panchine offrono una varietà di usi e di situazioni non gradite a chi voglia invece dare una disciplina nuova alle città.

Anche i marciapiedi

Non vorrei sembrare adesso esagerato, ma certamente è lo spazio pubblico di cui le panchine sono il simbolo che è in pericolo nei prossimi anni. Siamo tutti molto meno liberi ora che l’America ha lanciato la sua angoscia sul mondo (aveva cominciato ben prima dell’11 di settembre a farlo, essendo la civiltà che più ha negato nella sua storia i valori urbani e dello spazio pubblico).
Insieme alle panchine l’altro oggetto di preoccupazione e di repressione saranno e sono già i marciapiedi, questo resto archeologico del passato per chi concepisce la città solo come luogo della circolazione delle auto e pensa che lo shopping sia molto più efficace dentro gli shopping center. I marciapiedi insieme alle panchine sono il luogo di una resistenza tutta italiana, tutta europea per molti versi, all’americanizzazione delle città. Fino a poco tempo fa questo tipo di considerazioni potevano suonare assurde. Oggi sappiamo che nella spirale di caduta della civiltà americana l’Europa è minacciata fortemente nella sua storia e nei suoi valori urbani. Nei prossimi anni si giocherà una partita fondamentale per la democrazia dello spazio. La panchina sarà una delle bandiere più rappresentative di uno schieramento che “non ci sta” all’omologazione del mondo dentro lo spazio del panico.

Franco La Cecla

Questo scritto di La Cecla è tratto dal volume edito da Elèuthera segnalato nella scheda qui sotto.

elèuthera

Stefano Maffei
(a cura di)

Panchina/Bench
160 pp. illustrate in quadricromia

IL CURATORE

Stefano Maffei, architetto e designer, è docente incaricato di Disegno Industriale presso il Politecnico di Milano. Membro dell'Agenzia Sistema Design, coordina le attività espositive ed editoriali di Opos, istituzione culturale milanese che si occupa di ricerca e promozione nel campo del design.

L'OPERA

Il libro è un testo a più voci composto da diverse parti tematiche che hanno come oggetto di osservazione un artefatto spesso presente nell'esperienza delle persona: le panchine. Nella prima parte del volume il tema è affrontato da alcuni saggi redatti da antropologi, studiosi di design, storici della "contemporaneità", che tentano di costruire un orizzonte di riflessione approfondito e originale sul rapporto tra uomo, spazio pubblico, attività, persone. L’'indagine culturale è integrata da altre due visioni: la presentazione di una serie di oggetti di design selezionati tra giovani progettisti italiani ed europei, documentato attraverso il materiale fotografico e iconografico prodotto dai designer stessi, e la presentazione di una serie di immagini riguardanti progetti di ricerca fotografica sul tema della panchina affidati a giovani e affermati fotografi italiani. L’opera ci offre un’'indagine a tutto campo su un oggetto archetipico della nostra vita quotidiana attraverso un percorso fatto di riflessioni, immagini, progetti che ci fanno comprendere le mille dimensioni culturali toccate da quest’artefatto.
Contributi di Piero Brunello, Franco La Cecla, Raimonda Riccini, Claudia Zanfi e altri.