rivista anarchica
anno 32 n. 281
maggio 2002


Sciopero e dintorni

 

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a cura di Carlo E. Menga

Discolparsi è molto più difficile che accusare. Ed è per questo che nei paesi civili in tribunale un imputato viene considerato innocente fino a che non se ne dimostri la colpevolezza. Nei paesi perfetti, invece, non ci sono né tribunali né reati (i paesi perfetti esistevano un tempo su Marte, finché è durata l’acqua). L’Italia di oggi sta cercando di diventare un paese perfetto, cominciando con l’eliminare i tribunali e trasferire i giudici ad altra amministrazione. Quando non rimarrà più nemmeno l’acqua, la perfezione raggiunta sarà assoluta.
Ma a parte questo, e a parte le sorprendenti risorse nascoste della mobilità, mi ha dato molto fastidio ascoltare una mattina su Radio Montecarlo (a proposito: prima di far sparire i tribunali, si potrebbero condannare all’impalamento tutti quelli che alla radio fingono di essere anglòfoni o francòfoni, col deprimente risultato di somigliare a una canzone di Rocky Roberts o di Antoine?) la notizia che durante la notte precedente, gli inquirenti avevano sciolte le riserve e disposto l’arresto dell’“assassino del piccolo Samuele”, nella fattispecie la madre del medesimo. La quale, essendo stata solo accusata (mentre scrivo la stanno ancora interrogando) potrebbe ovviamente anche risultare essere del tutto innocente. Anzi, siccome in Italia i casi delittuosi non si risolvono mai (ce ne sono molti, antichi, ancora senza soluzione), è abbastanza probabile che quando leggerete queste righe si sarà ancora ben lontani dall’aver individuato un qualsivoglia “assassino”, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Avrà già invece avuto esito lo sciopero generale. E, in un senso o nell’altro, a meno che con carambola e sponda tipicamente italiane non si riesca a rinviare a giudizio anche quell’esito, potrebbero essere già decise le sorti dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, o – si spera – dell’arroganza spocchiosa e becera del governo e dei suoi più alti (sic!) rappresentanti, il cui recentemente espresso disprezzo per “la piazza e i referendum” riecheggia le parole del Duce dopo il discorso di Matteotti, quando disse che se costui si fosse un giorno ritrovato con la testa rotta avrebbe dovuto ringraziare soltanto sé stesso. Anche se, tra la perdita della memoria storica tipica delle nuove generazioni e l’inefficacia colpevolmente generalizzata di tutta l’informazione ufficiale, io personalmente dispero che l’articolo in questione sarà fra non molto ricordato diversamente che come il nome di un gruppo di “rappers”.
Notavo con immotivato stupore che poco tempo addietro, in occasione di uno sciopero dei trasporti, per qualche giorno i telegiornali di tutte le reti nel dare le notizie relative allo sciopero stesso ne ricalcavano accuratamente i frastagliati confini orari di inizio, di fine, e di limiti interni, per far sapere all’utenza ahimè disagiata quali fossero i momenti più opportuni per mettersi in viaggio. Ma nemmeno uno, nemmeno una volta sola, si è degnato di farci conoscere i motivi per i quali quei lavoratori probabilmente altrettanto disagiati scioperassero. Io, per esempio, continuo a non saperlo. E pavento la stessa disinformazione qualora a scioperare per una qualsivoglia causa dovesse essere la categoria a cui appartengo.
Fortunatamente, in mezzo a tutti questi scioperi, quali già dati e andati, e quali solo promessi, l’opera di Pennywise continua indefessa. Come conclude il nuovo spot della pubblicità BARILLA, dopo che il mietitore (palesemente prossimo all’età pensionabile) si riprende in mezzo ai campi di grano dalle proprie allucinazioni per il caldo e la fatica dissetandosi attingendo a una bottiglia blu come il pacco di pasta e il grattacielo che lo imita: “Il lavoro continua”. Questo slogan ha, al mio palato, lo stesso sapore dell’augurio di “buon lavoro” che ha sostituito, in questa sciagurata seconda repubblica delle banane, il saluto “arrivederci”. Si tratta di un sintagma nauseabondo e infame come “lo spettacolo della merce umana” con cui s’identifica (e che fa il degno paio con le blandizie sdilinquite cui è fatto pubblicamente segno post mortem in questi giorni Carmelo Bene da parte di gentaglia che ha passato metà della propria vita a seguire “telenovelas” e mariadefilippiche).
D’altronde, che grado di raffinatezza vi sareste aspettati da un paese in cui un’associazione finalizzata all’assistenza dei malati di tumore al fegato in attesa di trapianto si chiama “Prometeo”, ovvero ha il nome di un poveretto condannato (senza processo) dagli dei a rimanere incatenato ai fianchi di una montagna con un uccello rapace a divorargli il fegato per l’eternità?

Carlo E. Menga