rivista anarchica
anno 32 n. 282
giugno 2002


Medio Oriente

Le voci
di Nadia Augustoni

 

Ci sono voci, spesso flebili, che meritano di essere colte ed ascoltate. Perché ci parlano di una realtà diversa...

“… Madre nostra, regina dell’amore, guerriera della luce.”

Gianna Nannini, Un dio che cade.

Un racconto collettivo, da una terra crocevia di popoli, ha infinite voci e toni. I racconti di Palestinesi e Israeliani dalla durissima realtà di sempre, oggi ancor più dura, hanno un peso di coro con le sue molte umanità – diverse, plurali – ma alla fine una sola umanità, ricondotta al singolare dall’esacerbarsi del dolore, della paura, dell’isolamento.
Ognuna di queste parole è doppiamente pesante perché tocca due popoli, due universi, due mortalità, due ragioni, due culture che non si comprendono o forse due culture che potrebbero comprendersi solo al disopra dei fanatismi religiosi reciproci. Negli anni – ormai tanti – delle mie militanze, ho dovuto guardare molto dolore e ne ho dovuto constatare l’inutilità quando non porta più agli abissi dell’interrogarsi – su di sé e sugli altri, su chi siamo e dove andiamo e sulle possibilità e sui varchi che come specie abbiamo comprese le responsabilità –, ma rimane dolore dolore, un rincorrersi di serpente che si morde la coda e non trova più inizio né fine nel dibattersi. Su Le Monde Diplomatique di aprile, c’è un intervento di Yasser Ased Rabbo, palestinese, e di Yossi Beilin, israeliano, entrambi figure di una certo peso nei rispettivi apparati e entrambi consapevoli della necessità di una pace giusta, del riconoscimento delle sofferenze di entrambi i popoli, della necessità di nuovi negoziati a partire dall’ abbandono di tutte le condizioni preliminari che li impediscono e che nel passato ne hanno decretato il fallimento anche quando la pace sembrava ormai cosa fatta.
In quel connubio sempre meno inusuale e che qualcuno ha già chiamato new global, connubio di alleanze trasversali e internazionali, Rabbo e Beilin si sono incontrati in Sudafrica con rispettive delegazioni per continuare il dialogo iniziato a Oslo e per dire forte che vivere insieme è possibile, che lo fanno già molti in Israele e Palestina e molti di più lo vorrebbero se non temessero il discredito fondamentalista. Nel Sudafrica del postapartheid le due delegazioni si sono incontrate per fare tesoro dell’esperienza che ha portato questo paese a scavalcare – sebbene con un processo tutt’altro che indolore – decenni e decenni di odio, portando bianchi e neri (e devo dire molto più i neri che i bianchi) a un riconoscimento della necessità che il passato smetta di pesare sul futuro, non per vederlo dimenticato o rimosso ma piuttosto per integrarlo, farne esperienza concreta per ogni vita, ogni vivere e non solo memoria, non solo ricordo di una perdita, non solo ricordo di un dolore. Scriveva su Diario n. 13 Marina Morpugno in un articolo dal titolo Il pessottimista, che pur nel disastro di queste settimane il dialogo e le trattative nella Coalition for Peace vanno avanti con le due parti che lavorano fianco a fianco e non hanno mai smesso di cercare e proporre soluzioni possibili che aiutino anche a discernere il limite che gli uni e gli altri non dovrebbero mai sorpassare: uccisioni, distruzioni, attentati, disconoscimento.

Difficoltà estrema

Sempre Marina Morpugno in una lettera ai manifestanti propalestinesi uscita anche su Repubblica indicava con semplicità la sua difficoltà in quanto di origine ebraica ad aderire a manifestazioni in cui alcuni personaggi si vestono da kamikaze e sfilano inneggiando alla distruzione di Israele e bruciando le bandiere con la stella di Davide. Capirei, aggiungeva, se si bruciasse al limite la foto di Sharon. Questo per evitare di vedere solo le ragioni degli uni e non anche quelle degli altri. In questi giorni, i giorni di Jenin, i giorni della difficoltà estrema per i pacifisti israeliani, per i renitenti alla leva, per genitori che girano l’Europa portando con sé la speranza che la spirale del terrore finisca – da qualunque direzione provenga – perché in loro vivido è il ricordo di una figlia o un figlio uccisi da un kamikaze, un ragazzo o una ragazza a cui non è stato insegnato a distinguere tra resistenza, anche dura, e atti di violenza pura, senza senso e insensata come chi in una madrasa o moschea ha distrutto i loro cuori e le loro menti.
Come ogni stato del mondo anche Israele non è innocente, ma appunto come ogni altro stato. Come è giusto condannare la violenza militare che non si ferma davanti a nessuno, così non possiamo non pensare agli orrori ben nascosti e prontamente rimossi che i nostri italianissimi soldati hanno commesso in Somalia – ricordate le foto e la copertina di Panorama, gli stupri con foto ricordo delle donne somale… – e questo per dire che non sono in sintonia con chi guida una campagna che nutre dei non troppo nascosti sentimenti antisemiti o se preferite rinverdisce lo stereotipo dell’ebreo che è o solo buono e rivoluzionario o solo cattivo e sionista. In Israele, e ce ne giunge molte volte testimonianza, si muovono molte persone con uno spirito di giustizia e equilibrio che vorrei tanto trovare in altri luoghi del mondo.
Alcuni esempi trovo doveroso menzionarli affinché non siano solo i nomi dei carnefici o dei kamikaze a tenere banco e anche perché sono memore che nel retaggio culturale della migliore Europa la presenza e il pensiero ebraici sono stati importanti, sono stati elemento di vitalità, innovazione, scambio e alterità in quanto, critici e oppositori di regimi, in quanto artisti e pensatori fuori dai canoni e in quanto socialisti, anarchici, populisti, migranti.
Loro erano di fatto cosmopoliti e proprio per questo invisi ai vari sovrani: e poi anche a Stalin e accoliti. Molti scoprirono di essere ebrei solo con le leggi razziali, fino a quel momento si pensavano come europei e come tali li ho sentiti incontrandoli negli scritti, nelle testimonianze di vita e di resistenza. Quindi aggiungo il mio disagio a quello di Marina Morpugno per dire che i distinguo sono importanti e che non si può chiedere la distruzione di nessuno, né si può passar sopra a tante testimonianze che sono da parte di gente che vive in Israele non tanto e non solo parole, ma la loro stessa vita, sospesa come è in sospeso quella dei loro vicini palestinesi e come la loro solcata di ferite profonde. Tra le testimonianze, una delle più dure e belle è quella di una donna, Nurit Peled-Elhahan che ha perso la figlia in un attentato di Hamas. Nurit Peled-Elhahan lungi da odiare si è rimboccata le maniche portando avanti una attività incessante a favore dei diritti umani, dei diritti dei palestinesi e della pace. La sua condanna della guerra e dell’occupazione dei territori palestinesi è totale, e lucida è la sua presa di coscienza che i politici giocano con questo conflitto sulla pelle di entrambi i popoli. La cito testualmente da il manifesto: “Venerdì è stato riportato che dei politici di entrambe le parti avevano raggiunto un accordo a Gerusalemme per permettere la riapertura dei casinò, da cui dipende la loro sussistenza. Lo hanno fatto senza l’intervento americano, senza commissioni ad alto livello, solo con l’assistenza di legali e uomini d’affari che hanno promesso alle parti ciò che serviva. Questo dimostra che il conflitto non è tra i leader: quando una questione li riguarda direttamente (a differenza della morte dei bambini) sono veloci a trovare la soluzione. Questo rafforza la mia convinzione che tutti noi, israeliani e palestinesi, siamo vittime dei politici che giocano d’azzardo con la vita dei nostri figli sul tavolo dell’onore e del prestigio. Per loro, i bambini valgono meno che le fiches della roulette… Ora sappiamo che i nostri leader sono capaci di pace quando c’è un motivo economico, dobbiamo chiedere che facciano la pace quando sono in gioco cose di minore importanza, come la vita dei nostri figli. Finché tutti i genitori di Israele e della Palestina, non si solleveranno contro i politici e non gli chiederanno di tenere a freno le loro voglie di conquista e di spargimenti di sangue, il reame sotterraneo dei bambini sepolti continuerà.”
A ogni costo voglio ricordare in queste pagine altre voci che si sono alzate con sgomento e coraggio perché il riconoscimento di tutte le sofferenze porti al ristabilirsi dell’equilibrio tra gente che ha capito che nessuno può vincere annientando l’altro. Tra queste voci c’è quella di un’altra donna, Ruth Hiller – israeliana. Ruth è una delle fondatrici di New Profile, un movimento in pratica di femministe a cui partecipano anche giovani e soprattutto obiettori. Lavorano in modo non gerarchico e puntano su un cambiamento profondo, a una rimozione della mentalità di guerra, di esercito. Sognano la convivenza, lo stesso sogno che portò un ex soldato della guerra dei sei giorni a offrire un fiore giallo a uno dei primi votanti Palestinesi in un ufficio postale di Gerusalemme est quando questo si presentò: aggiunse solo che lo sognava questo gesto, da anni. Fortunatamente anche a Jenin, a Betlemme e in altri villaggi sono attivi in questi giorni individui e organizzazioni che aiutano concretamente e denunciano le violazioni cui assistono. Anche loro sono israeliani, sono ebrei e lo ripeto perché sia chiara la distinzione tra chi vuole la guerra in nome di uno stato e di propri interessi e di chi vuole sicurezza e benessere per tutti e a tutti porta solidarietà e aiuto.

Nulla, se non la morte

Un altro fattore nefasto ha giocato contro la pace in Medio Oriente e fa parte degli interessi oscuri (ma non tanto) che intercorrono tra potenze occidentali e in primis gli USA e paesi come l’Arabia Saudita, la Siria e non ultimo l’Egitto. Non hanno mai dato nulla ai palestinesi se non la morte (ricordate settembre nero, cioè i palestinesi massacrati nell’ordine di 30.000 dall’allora re di Giordania?); hanno sempre cercato questi paesi fratelli di allungare i loro tentacoli sulla Palestina e di allargarsi e quando avrebbero dovuto dare assistenza e casa e lavoro ai profughi se ne sono guardati bene. Molte sono le ragioni e probabilmente vista l’antidemocraticità storica dei regimi arabi aveva le sue buone ragioni Jean Genet nel dire che i palestinesi erano la vera spina nel fianco di queste autocrazie perché portatori comunque di una certa democrazia, perché in buona parte studiosi e professionisti in mestieri all’avanguardia come l’ingegneria, la medicina, l’insegnamento (laico) eccetera. Il partito comunista palestinese e il partito comunista israeliano erano su posizioni di apertura e avanguardia già decenni fa chiedendo non solo un serio processo di pace ma una terra per uno e per l’altro popolo. In Israele è attivo anche un movimento di gay e lesbiche che si occupa di assistere anche i Palestinesi gay e non gay e tra i giovani rapper israeliani la lingua per le canzoni è un miscuglio di ebraico arabo e a volte inglese e i testi delle canzoni sono espliciti nel mostrare quel qualcosa che sta cambiando nella società civile israeliana: “tutti parlano di pace, ma nessuno parla di giustizia”.
E ancora: “Vivo giorno per giorno/ in un paese senza pace/ tutti affondano dentro il sogno/ precipitano senza vedere la fine del baratro”.
Penso che anche questo serva a sbloccare certi meccanismi psicologici che perpetuano l’immagine di un nemico quando nella realtà quotidiana si scorgono diversi segnali di fumo che raccontano di altre voci, anche flebili, anche ingenue ma meno omologate, meno legate allo status quo anche se non sempre alte – nel senso migliore com’è per le voci che si interrogano e interrogano sulla rivista di cultura e vita ebraica Keshet – o arcobaleno. Devo ancora una volta a Diario questo incontro e prima di continuare in questo mio migrarmi tra popoli che amo egualmente e cerco di capire pur con tutti i miei limiti, strappo via una frase dalla presentazione che Bruno Segre fa proprio sulla rivista Diario: “ripugna al nostro approccio l’ammettere l’esistenza di conflitti – muro contro muro – tra le civiltà, quasi che esistano civiltà superiori in grado di trasferire i propri valori urbi et orbi, e che si sentano perciò autorizzate a impartire lezioni di vita a tutti coloro che si riconoscono in retaggi culturali diversi”. Quando leggo queste cose ho sempre in mente un ebreo, Max Brod, che oltre a essere stato il migliore amico di Kafka era l’anima del circolo di Praga a cui la cultura europea deve tanto e a cui personalmente devo la conoscenza di figure femminili precorritrici del movimento per la pace e di quello che accadeva in Europa prima di Hitler.
Il morbo del nazismo ha creato i campi di sterminio e la più grande operazione – pianificata scientificamente – contro un popolo. Non dimentico gli zingari, gli omosessuali, i malati mentali, i comunisti e gli altri, ma mi rendo conto da sempre che l’odio antiebraico non aveva e spero non avrà mai più paragoni. Purtroppo mi trovo anche nella situazione di ricordare che nel dopoguerra fu un piccolo editore di sinistra parigino a dare modo a un antisemita viscerale di pubblicare un libretto dove si negava lo sterminio degli ebrei e l’esistenza dei campi di concentramento e sterminio.
Allora mi sembrò quasi surreale tutto questo, ma il tempo mi portò a conoscere quanto radicato fosse in Francia l’antisemitismo e da molto prima di Hitler e quanto non ne fossero immuni uomini e donne di sinistra.
Non ho mai capito il perché di questo e quel che ho capito non è in questo spazio e in questa sede che racconterò, non fosse altro che per ragioni di lunghezza. Quello che segnalo è invece il crescere di violenza in Europa contro sinagoghe e cimiteri ebraici. A questa violenza aggiungo quella nascosta o poco raccontata contro le donne e i bambini palestinesi ad opera dei loro mariti e padri. Secondo lo psichiatra Eyal Sarraj a Gaza c’è una media di abusi sulle donne decisamente più elevata che nel resto del mondo arabo e lo stesso più o meno sui bambini. Aggiungendo che la situazione di abuso è doppia perché devono assistere e subire alle prevaricazioni perpetrate dai soldati israeliani, ecco come si comprende che poi molte menti di ragazzi o ragazze trovino come via di fuga il farsi saltare in aria cercando di uccidere quante più persone possibile.

Così mi domando...

L’anno scorso ho vissuto diversi mesi in Africa in un ambiente sociale musulmano. Ho toccato con mano alcune realtà come la povertà, le discriminazioni (nascoste ma vive) di casta o meglio etnia e quelle sulle donne. Da lì un interrogarmi più a fondo anche sulle ragioni di tanti e tante amici/amiche la cui attenzione alle discriminazioni pare non lì porti mai a domandarsi quale sia il grado di sopportazione dell’inimmaginabile violenza che donne e bambini subiscono in società tribali a forte se non unica impronta religiosa. Pochi immaginano che si arriva addirittura al punto di non lasciare entrare le donne in una moschea dallo stesso ingresso degli uomini; infatti entrano solo dal retro e un muro le separa da mariti e figli e devono inoltre pregare completamente coperte (si vedono solo gli occhi) e non possono entrare in una moschea se hanno le mestruazioni perché impure. Non continuo, ma devo aggiungere che ne ho viste un po’ troppe di queste cose e peggio. Parlando con una conoscente, dopo aver raccontato di una scrittrice turca rapita, torturata e annegata da, un gruppo fondamentalista ottenni in risposta che non potevamo sapere cos’era veramente successo e perché; risposta più o meno invariabile dei convertiti.
Così mi domando che fine faremmo se ci trovassimo a far fronte a uno stato fondamentalista religioso, e se le lezioni che l’Iran e l’Afghanistan e l’Algeria nonché il Sudan dove i musulmani usano ancora praticare la tratta degli schiavi, se queste lezioni dicevo non ci serviranno mai e non porteranno mai tanti ragazzi e ragazze libertari e sinceramente democratici a un livello di compassione più profondo che lo sfilare vestiti da kamikaze, che sbandierare le kefiah ma invariabilmente non avere una parola o un gesto per i meno difesi sulla terra, per le più offese sulla terra e offese sempre in un nome di dio che nessuno pare conoscere.
“Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze”. Questa frase di Max Horkheimer e Theodor Adorno coglie un dato importante. Quello che si è voluto realizzare muore se si fossilizza perché può vivere solo ciò che non smette mai di cercarsi e realizzarsi e quindi a maggior ragione vale per le società, per quell’umanità sperduta che siamo. Non trovo scusanti a nessuna violenza e pur cercando sempre una maggiore comprensione non posso non notare che si fanno troppi sconti in tema di rispetto dei diritti di tutti alla vita e all’inviolabilità e tanto più sono gli sconti tanto più è la confusione anche interiore che si crea.
Quando la prossima volta qualcuno guiderà una manifestazione di emigranti in occasione della fine del Ramadan e le file degli uomini si inginocchieranno a pregare, provate a mettervi vicino a loro se siete donne e vedrete subito come la tolleranza diventa intolleranza e i diritti, diritti di una parte sola. Lo dico con tranquillità – la tranquillità di chi ha vissuto questo perché ama porre e porsi sfide che facciano cadere le maschere e le pie illusioni. Non vorrei venisse preso come un rimprovero, ma come un invito ad andare oltre la falsità di apparenze.
Torno ai palestinesi e agli ebrei con una lettera aperta pubblicata dal quotidiano Liberazione: “lettera aperta di un ebreo marrano” a firma di Pier Francesco Negrotto che con un punto di vista molto umano e partecipato e prendendo le difese dei palestinesi cita un passo del Talmud che dice: “ Dio prende sempre la parte del perseguitato. Se un giusto perseguita un altro giusto, Dio si mette dalla parte del perseguitato; se un cattivo perseguita un giusto, Dio si pone dalla parte del perseguitato; se un cattivo perseguita un altro cattivo, Dio si mette dalla parte del perseguitato; e persino se un giusto perseguita un cattivo, Dio si mette dalla parte del perseguitato”.

L’odio, cioè l’impotenza

Se al posto della parola Dio mettiamo la parola coscienza o cuore o quel che volete si potrebbe provare ad applicare in ogni occasione queste parole fino a che diventino vita su questa terra, la vita possibile per tutti, tutte. Quindi se a Jenin sono palestinese, se nella diaspora sono ebrea, se in Algeria sono una ribelle, se nel Pakistan sono una bambina-bambino schiavi della mafia dei tappeti, dei palloni di calcio, delle varie Nike, Adidas, Reebok, a Beit Jalla e a Betlemme sono anche tutti gli ammazzati dalle bande mafiose che riscuotono i tributi a nome dei movimenti palestinesi e sono anche le ragazze che hanno violentato e quelli che – vero o falso ma senza processo e senza difesa alcuna – trascinano attaccati a un fuoristrada di lusso perché considerati collaborazionisti; sono anche loro e rammento la lezione di Antigone che, contro la città e il re seppellisce i morti – perché a tutti la pietas è dovuta – e nessuno andrebbe lasciato marcire per strada e neanche sepolto con le ruspe dai soldati; sia chiaro che è la lezione più dura che dovremo imparare quella di saper essere ovunque gli altri; ovunque e non solo da qualche parte o per qualcuno. Non credo nell’odio perché non è che impotenza; l’odio ha sempre bisogno di micce e di scuse per sopravvivere mentre la libertà e la giustizia non sono state uccise in 5000 anni nemmeno da tutti gli eserciti del mondo e lo stesso è per l’amore – che forse non sappiamo dire cosa sia – perché forse è come respirare: troppo semplice per spiegarlo. Chiudo questo intervento con la voce di un uomo, Martin Buber, che nel ’58 chiese a Ben Gurion quello che la gente di senno chiede oggi a Sharon e cioè il riconoscimento a tutti gli effetti della nazione palestinese e di tutti i loro diritti. In Il cammino dell’uomo Buber racconta di un comandante che interpella un prigioniero e intuendone le qualità umane chiede: “Come bisogna interpretare che Dio onnisciente dica ad Abramo: dove sei?” Risponde il prigioniero “...in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono gia trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo? Dio dice per esempio: ecco sono già 46 anni che sei in vita. Dove ti trovi?” Mi fermo qui; è un racconto troppo bello per interpretarlo e ognuno deve farlo solo per sé ponendosi le stesse domande e se trova la risposta me la manda.

Nadia Augustoni

Note:
L’epigrafe all’inizio è da una canzone di Gianna Nannini. Al posto di un Dio maschio troppo debole per porre fine agli scempi ecco entrare in scena la madre nostra. Per i fondamentalisti di ogni fede forse non c’è peggior provocazione. E più bella aggiungo.
Le fonti che ho usato per il testo sono tratte da: Diario, Liberazione, il manifesto, Le Monde diplomatique, e da una serie di libri tra cui L’ulivo e le pietre di Ugo Tramballi; Il circolo di Praga di Max Brod; Il cammino dell’uomo di Martin Buber e inoltre altri libri che mi hanno accompagnato nel percorso degli anni.