rivista anarchica
anno 32 n. 282
giugno 2002


Argentina

La creatività sociale e i burocrati dell’ordine
di Raúl Zibechi

Ancora sull’esperienza delle assemblee di quartiere, in questi mesi di crisi economico-sociale gravissima.

Dopo tre mesi di intensa attività, la presenza pubblica del movimento delle assemblee comincia a declinare, sebbene continuino a sorgerne nuove, in mezzo alla repressione e ai tentativi di cooptazione da parte della sinistra.
Un’inchiesta diffusa due settimane fa (l’articolo porta la data del 23-3-2002, N.d.R.) rivela la profondità della mobilitazione sociale a partire dal 20 di dicembre: nel Gran Buenos Aires e nella Capitale Federale (1), una percentuale pari al 33% delle persone intervistate, una ogni tre dunque, afferma di aver partecipato a cacerolazos (2) o ad assemblee di quartiere. Dall’inchiesta eseguita da Hugo Haime y Asociados si deduce che due milioni e mezzo di persone hanno partecipato in qualche modo alle proteste. La dimensione del coinvolgimento offre un’idea appena approssimativa dell’attuale estensione del movimento che, pur attraversando ora una fase di declino, ha modificato radicalmente la scena sociale argentina.
Un movimento di simili dimensioni, che supera ampiamente la militanza tradizionale, può essere tutto fuorché qualcosa di ordinato e prevedibile. Forse proprio per questo il presidente Eduardo Duhalde ha affermato che “con le assemblee non si può governare”. La presa di posizione di Duhalde ha costituito un chiaro segnale, tanto più che – da quasi un mese – i membri delle assemblee sono stati fatti oggetto di continue e crescenti aggressioni.
Il progressivo diffondersi delle aggressioni nei confronti delle assemblee è cominciata a Merlo, una località all’interno del Gran Buenos Aires, quando, il 22 di febbraio, una banda di provocatori del Partito Giustizialista ha attaccato i caceroleros riuniti in assemblea. Lo schieramento giustizialista mantiene ancora parte del suo potere nell’hinterland, dove il partito ha la maggioranza una gran quantità di amministrazioni comunali e questo gli permette di mantenere in vita il sistema clientelare attraverso molteplici “favori”. I cosiddetti punteros – piccoli e medi capibanda di quartiere, che a loro volta rispondono a intendenti o “capi” di zona – suppliscono così al vecchio e sconquassato apparato sindacale nei diversi compiti di controllo sociale.
Nella capitale, senza dubbio, il controllo sulla popolazione si è sempre esercitato in una forma meno vistosa ma non per questo meno efficace; infatti l’accesso della popolazione a una parte dei benefici del sistema – ovvero, il consumismo – assicurava al sistema la neutralità, se non l’adesione attiva della popolazione stessa. Senonché il crescente impoverimento della società ha reso esplosiva questa variabile, poiché nella Capitale Federale non esiste lo stesso sistema clientelare della provincia. Tale differenza permette alle assemblee di proliferare senza possibilità di controllo sociale, a parte quello che sta esercitando da due settimane un altro tipo di “provocatori”, evidentemente appartenenti della polizia, che si dedicano a intimorire i vicini che si auto-convocano in assemblee, con sparatorie, aggressioni o semplicemente filmando le riunioni.

Molteplicità

“L’assemblea deve costituire un fattore attivo nell’organizzazione sociale delle nostre vite”, così si può leggere nel bollettino dell’Assemblea Popolare di Boedo e San Cristóbal. Si tratta di una nuova cultura politica che emerge tra gli interstizi della normale vita quotidiana, e che si esprime, più che in ideologie ben definite, all’interno di un “sano senso comune”. Per questo nelle assemblee è soddisfatta sia l’esigenza di rispondere a esigenze di tipo “globale” (cancellazione del debito estero, richiesta di lavoro, annullamento delle leggi sull’impunità, eccetera), sia la necessità di svolgere attività più pratiche, come l’organizzazione di acquisti in comune, l’apertura di mense per disoccupati, oppure occuparsi di questioni che riguardano l’istruzione e la salute, attività affrontate capillarmente in ciascuno dei quartieri dove le assemblee sono presenti.
Ciò che però più sorprende e che si può constatare soltanto partecipando a un’assemblea, è la forma in cui queste funzionano. Tranne che nei giorni di pioggia, si svolgono tutte all’aria aperta, nelle piazze, nei parchi o per la strada. All’inizio di ogni assemblea, si eleggono due persone che la coordinino e, a volte, altre due che fungano da segretari; tali nomine possono essere revocate durante la stessa assemblea, come in alcuni casi è accaduto, se gli eletti non rispettano le norme democratiche di regolamento. I coordinatori devono solamente occuparsi di coordinare, si limitano cioè a fare in modo che ogni oratore non oltrepassi il tempo a lui concesso, in genere di tre minuti; prendono nota delle proposte e attirano l’attenzione sui limiti di tempo. Perché le assemblee, in genere, una volta definiti gli argomenti da affrontare, fissano un orario da non superare, onde evitare che i dibattiti si protraggano troppo e che, quindi, si trattengano solo i militanti dei partiti.
Molte assemblee, e ciò è dovuto al fatto che non esiste un modello comune cui far riferimento, dividono le tre ore di riunione, per esempio, tra tre differenti temi da affrontare: problemi del quartiere, questioni generali del paese e proposte concrete che vengono votate alla fine. Si fa in modo che i coordinatori, così come i due o tre delegati nominati ad ogni riunione per partecipare all’assemblea tra quartieri convocata ogni domenica, siano eletti con un sistema a rotazione. L’idea centrale, “Que se vayan todos” (3), ha dimostrato in questi tre mesi di costituire più di un semplice principio ideologico: si tratta di una forma di intendere le relazioni umane per l’amministrazione della sfera pubblica, ciò che, in mancanza di un vocabolo migliore, abitualmente chiamiamo politica.
Poiché al principio i vicini per lo più non si conoscevano tra loro, ogni volta che uno cominciava a parlare, si presentava: nome, attività e altri dati. Quest’abitudine ancora persiste in alcune assemblee. Il fatto è che proprio il contatto faccia a faccia tra i vicini auto-convocati costituisce il punto di forza. Partono dall’orgoglio di essere stati loro, senza nessuna mediazione di alcun tipo, i protagonisti delle giornate del 19 e 20 dicembre, a far cadere due governi e che tengono ora in scacco il potere.
Col passare delle settimane e con l’acquietarsi dell’impetuoso attivismo iniziale, le assemblee proseguono nella definizione dei propri compiti. Ognuna si avvale di commissioni di lavoro – in alcuni casi superano la decina – che si riuniscono settimanalmente. Vi sono quelle che preferiscono lavorare con l’ospedale di quartiere, in attività collaborative o di confronto con le strutture sanitarie, e altre che si impegnano nei luoghi impervi del dibattito politico-ideologico più tradizionale. Ma i vicini hanno acquisito autostima e si può ora assistere a commissioni che trattano da pari a pari con il direttore di un ospedale, su come organizzare i ricoveri o discutendo sulla mancanza o sulla distribuzione delle risorse economiche.
Non poche assemblee hanno organizzato festival per raccogliere fondi per asili, scuole o per gruppi di pensionati. Alcune assemblee della zona del Once si sono distinte per l’appoggio offerto alle operaie della fabbrica Brukman, autogestita da dicembre, da quando i proprietari l’hanno abbandonata. La settimana scorsa, di fronte all’incombente sgombero da parte della polizia, centinaia di vicini sono accorsi in aiuto delle operaie fino a obbligare le forze dell’ordine a desistere dal loro proposito.

Interferenze

Le assemblee hanno dimostrato di costituire uno spazio d’incontro trasversale, dove la partecipazione di donne e di giovani è molto elevata, forse per queste stesse sue caratteristiche e per la diffusa libertà esistente. Sorgono spesso problemi con i partiti. Inizialmente si era chiesto che partecipassero senza bandiere né manifesti. Ma siccome i megafoni e i microfoni utilizzati provengono normalmente dai gruppi di sinistra, questo sembra conferire loro un qualche “diritto” per imporre le proprie proposte o parlare più del dovuto. In non pochi casi, sono sorti conflitti. In altri, i vicini hanno “votato” con le proprie gambe, abbandonando le assemblee che in questi casi si trasformano in tribune di dibattito tra partiti.
Un capitolo a parte lo meritano le riunioni che si tengono ogni domenica pomeriggio nel Parco Centenario. Lì vi confluiscono le cento e più assemblee della capitale. Domenica 17 si è tenuta la prima riunione tra quartieri a livello nazionale, con delegati provenienti dall’hinterland e dalle province. In questo spazio, e da quasi due mesi, si stanno riunendo delegati delle assemblee della capitale (porteñas) insieme con i vicini. È interessante la reazione della folla, costituita abitualmente da tre o quattro mila persone, quando emerge una proposta o un atteggiamento che si considera problematico o negativo o che semplicemente tradisce lo spirito dei presenti.
Qualcosa di simile è successo un paio di settimane fa, sulla scelta di votare o meno una determinata proposta in un momento considerato non opportuno dall’assemblea. Mentre l’oratore continuava a parlare, l’assemblea si è divisa in decine di capannelli e di crocchi in cui la gente discuteva sul da farsi. Dopo alcuni minuti passati tra mormorii vari e in una situazione molto caotica, mentre l’oratore continuava imperterrito a parlare col microfono in mano, diversi vicini si sono alzati in piedi e hanno cominciato a gridare. Ognuno di loro rivendicava le decisioni prese dai rispettivi gruppetti informali, fino a che l’oratore ha capito che evidentemente non raccoglieva l’approvazione della maggior parte dei presenti. Ci sono voluti ancora alcuni minuti perché tornasse la calma, ma in poco tempo l’assemblea ha ripreso a funzionare normalmente.
Di certo, per molti la logica con cui funzionano le assemblee è difficile da comprendere, in particolare per i militanti e per gli analisti universitari. Il disordine e, a volte, l’eccessiva lentezza sono esasperanti. Le assemblee riferiscono le loro proposte nel contesto più ampio dell’assemblea domenicale tra quartieri, dove si elaborano linee di azione che devono poi essere riportate a ognuna delle assemblee per essere approvate definitivamente. Dopotutto, non c’è motivo di sorprendersi: le comunità indigene, nel Chiapas o in Ecuador, o in qualsiasi altro luogo, funzionano esattamente alla stessa maniera.
In un’occasione, i dissensi con i partiti (tutti piccoli partiti di sinistra, come il Partido Obrero, il MST, Izquierda Unida e altri) hanno spinto un membro dell’assemblea a presentare una mozione che bene interpreta il pensiero generale riguardo a dove deve risiedere l’effettiva supremazia: “Presento una mozione affinché i militanti dei partiti non vengano alle assemblee per imporre la linea dei loro rispettivi schieramenti, ma piuttosto riportino ai loro partiti le posizioni assunte dalle assemblee. ”
La militanza di sinistra si preoccupa di dare coerenza e organizzazione a questo vasto e disordinato magma. E, nel bel mezzo della mobilitazione, cerca di fare adepti per aumentare le sue esili fila. Ma, nonostante l’organizzazione caotica e il disordine regnante, il movimento ha dimostrato un enorme attivismo e una capacità creativa di molto superiori a quello che la sinistra ha saputo mostrare in vari decenni. E non soltanto in Argentina.

Arrangiarsi nell’incertezza

Luis Mattini, ultimo segretario generale dell’Ejercito Revolucionario del Pueblo (ERP) prima del suo scioglimento avvenuto nel 1980, è diventato uno dei critici più acuti delle pratiche della sinistra tradizionale. Egli sostiene che la società si trova ora di fronte a una crisi del concetto stesso di rappresentatività, nel senso che non si tratta di un problema riguardante questo o quell’altro rappresentante: “L’ipotesi in discussione è che vi sia qualcosa di inerente alla stessa rappresentatività che produce seduzione, incompetenza o corruzione dei rappresentati. Ciò è dovuto alla crisi della ragione nella società industriale”, scrive in un recente articolo.
Si domanda se siano mai esistite società carenti di un sistema di rappresentazione, ma, prima di rispondere negativamente, Mattini ribadisce la necessità di studiare “quella parte della storia della quale non si è occupato Hegel, la componente non civilizzata dei cosiddetti popoli senza storia”. Assicura che la militanza di sinistra è quasi impermeabile alla nuova forma di razionalità che si va sviluppando attraverso i nuovi soggetti sociali e, per questo motivo, essa diventa un vero e proprio ostacolo.
Per esempio: i militanti credono che organizzare significhi “mettere ordine”, con ciò annichilendo la freschezza, la creatività e finanche la partecipazione dei vicini.
Posizioni come quella di Mattini si diffondono sempre di più, seppur molto lentamente e a forza di fatti concreti, tra i settori giovanili attivi. Forse poiché sono sempre di più quelli che percepiscono la profondità della crisi, una crisi che coinvolge l’intero sistema civile mettendo in discussione i paradigmi tradizionali, che da sempre si sono appoggiati sul controllo e sul dominio sociale. Gli uomini di scienza lo hanno capito molto prima dei politici. Il premio Nobel per la chimica, Ilya Prigogine, segnala che “la scienza classica, nel privilegiare l’ordine e la stabilità”, incontra di conseguenza grandi difficoltà nell’analisi delle fluttuazioni e dell’instabilità. Qualcosa di simile accade alle scienze sociali e alla sinistra, che tendono ad espellere dalle loro analisi tutto ciò che concerne il caos, il disordine e l’incertezza. O, ancor peggio, pretendono di “ordinarlo”.
Le assemblee e i veri movimenti sociali sono come quelle “macchine viventi”, descritte da Edgar Morin, che “tollerano una quantità considerevole di disordine”. Al contrario, una “macchina artificiale” (per esempio, i partiti o i gruppi gerarchizzati) “appena appare un elemento di disordine, si blocca”.
Si potrà obiettare che il mondo sociale e quello naturale non ammettono questo genere di confronti. Ma molti scienziati, come la stessa Prigogine, sostengono il contrario. Difendono l’idea secondo la quale “il modo appropriato di avvicinarsi alla natura, per comprendere la sua complessità e bellezza, non avviene mediante il dominio e il controllo, ma attraverso il rispetto, la cooperazione e il dialogo”. Un atteggiamento che potrebbe essere utile ai militanti di partito perché non ripetano i peggiori errori del passato.

Raúl Zibechi
(traduzione dal castigliano di Susanna Fresko)

Note a cura della traduttrice
1. Il cosiddetto “Gran Buenos Aires” comprende la città di Buenos Aires con il suo hinterland, mentre la “Capitale Federale” si riferisce alla sola città di Buenos Aires.
2. Termine derivante da “cacerolada”, ovvero protesta politica o sociale che si fa colpendo pentole (più precisamente casseruole, da cui il termine) e coperchi per le strade. “Partecipare a cacerolazos” significa quindi, per estensione, manifestare in questa forma; così come “caceroleros”, termine utilizzato più avanti nell’articolo, si riferisce ai “partecipanti a una cacerolada”.
3. Quest’espressione, che letteralmente significa “che tutti se ne vadano”, riferita chiaramente alla classe politica vigente, è da intendersi come una sorta di principio ideologico, alla stessa stregua del più famoso “No pasarán”. Per questo motivo, è meglio conservarla nell’originale spagnolo.

Chi è Zibechi

Raúl Zibechi è nato nel 1952 a Montevideo. Ha iniziato la carriera giornalistica nel 1985 in Spagna. Poi, tra il 1987 e il 1991, ha percorso il Perù, l’Ecuador e la Colombia, dove ha avuto lunghi rapporti con le comunità indigene locali. Dal 1992 vive di nuovo a Montevideo, dove collabora a diversi periodici. Nel 1997 ha pubblicato, sempre con Nordan/Comunidad, il volume La revuelta juvenil de los ’90: las redes sociales en la gestación de una cultura alternativa. Elèuthera ha pubblicato Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista in Chiapas, pag. 184, euro 11,88. Zero in Condotta ha pubblicato Zapatisti e senza terra. Movimenti sociali ed insorgenza indigena, pag. 96, euro 6,20.