rivista anarchica
anno 32 n. 283
estate 2002


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Forme del pensiero minoritario

 

1. Se qualcuno cercasse oggi di sapere chi è stato l’inventore della fotocopiatrice, molto probabilmente, si imbatterebbe nel fisico americano Chester Carlson. Nel 1938, a quanto pare, Carlson riesce ad imprimere gli elementi scuri di un originale da riprodurre su una lastra di zinco caricata elettrostaticamente e ricoperta di zolfo su cui aveva cosparso polvere nera. Facendo aderire, poi, questa matrice ad un foglio di carta a contatto con una fonte di calore, otteneva la fissazione della polvere e la xerografia (dal greco «xeros», che stava per «secco») era fatta. Almeno un paio di dizionari delle invenzioni (cfr. K. Desmond, Dizionario delle invenzioni, Sperling & Kupfer, Milano 1993 e G. Rivieccio, Dizionario delle scoperte scientifiche e delle invenzioni, Rizzoli, Milano 2001), in proposito, la pensano così.
E invece le cose sono andate diversamente. Nel 1762, Wilcke – anticipando di poco Volta – costruì un elettroforo. La cosa non passò inosservata a Georg Christoph Lichtenberg, fisico di Gottinga, che, sviluppandolo per proprio conto, lo utilizzò nel 1777 per un suo esperimento. Fece in modo che una carica elettrica si distribuisse uniformemente su una lastra, che veniva successivamente esposta, attraverso un’immagine da riprodurre, ad una sorgente di luce. La carica variava, allora, a seconda del maggiore o minor grado di trasparenza dell’originale. Sulla lastra, quindi, Lichtenberg spargeva una polvere caricata elettricamente che si sarebbe andata a fissare soltanto nelle zone dove erano rimaste le cariche elettriche originarie. Così ottenne la prima rudimentale foto o xero copia che dir si voglia (cfr. Dragoni, Bergia e Gottardi, Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici, Zanichelli, Bologna 1999).
Parrebbe, dunque, legittimo chiedersi perché Lichtenberg sia stato così liquidato in malo modo dalla storia. Me lo sono chiesto e nel dare la mia risposta ho dovuto sbattere il naso nei massimi sistemi.

2. Lichtenberg (1742 - 1799) ha insegnato fisica, ha scritto acutamente di matematica, di teoria della probabilità, di astronomia, di chimica e di biologia, di arti e di filosofia, ha guardato con occhio critico e privo di pregiudizi la società del suo tempo ed è stato sempre animato da una curiosità inesauribile. Si è professato ateo, ha disdegnato le convenienze e neppure ha mai nascosto le proprie pulsioni sessuali. Però – dico «però» – non ha mai rotto l’anima a nessuno con i suoi trattati. Non ne ha scritti. Non ha mai messo in forma sistematica una propria «visione del mondo» e si è accontentato di buttar giù alla rinfusa tutto il bello che gli passava per la testa. Nemico dell’accademia e amico della vita, detestava chi scriveva libri sui libri altrui e lo diceva apertamente.
Ci è stato espropriato, dunque, anche per ragioni di forma. Perché non ha mai scelto la forma «giusta», quella ratificata dal consorzio degli intellettuali per ottenere il lasciapassare per la Storia. Non ha citato il Tale e il Tal’Altro per farseli complici, non ha messo in piedi conventicole, non ha fondato «movimenti», non ha inventato apparati terminologici con cui rendere nebulosa la comunicazione del proprio pensiero.

3. Stando così le cose – aggiungendovi, poi, che i suoi contenuti non erano comodi per nessuno perché denunciava tutta la pochezza e la contraddittorietà della filosofia –, è comprensibile come, soltanto qua e là, raramente, nei giorni che l’hanno seguito, qualcuno si sia ricordato di lui. Qualcuno che ragionasse con la propria testa. Come Tolstoj che diceva come al suo confronto Nietzsche fosse un «feuilletoniste civettuolo». O come Josef Dietzgen, un altro dimenticato, che lo ricorda ne L’essenza del lavoro mentale umano (Feltrinelli, Milano 1953). O come Karl Kraus, che, nella Terza notte di Valpurga (Editori Riuniti, Roma 1996) lo ricorda per una sua ironica offerta laddove dice che sarebbe disposto a pagare «qualcosa» per «sapere con esattezza per chi sono state in effetti compiute le azioni che si dice siano fatte per il bene della patria».

4. Il destino di Lichtenberg, allora, ignorato nella sua totalità, è stato quello di venir macellato lentamente e proposto nei pezzi e nei bocconi dell’aforisma. Il mio primo contatto con il suo pensiero avvenne grazie a due libri piuttosto esigui: Osservazioni e pensieri (a cura di Nello Sàito, Einaudi, Torino 1966) e Libretto di consolazione (a cura di Anacleto Verrecchia, Rizzoli, Milano 1981). Mi furono comunque sufficienti per rendermi conto dell’entità di una ricchezza che, con minor fortuna, mi sarei perso. Oggi, finalmente, è in libreria Lo scandaglio dell’anima, curato con passione e competenza da Verrecchia. Si tratta della più ampia scelta, dagli «scartafacci» e dalle lettere di Lichtenberg, mai pubblicata in italiano. Si tratta di un’occasione d’oro, se non di risarcimento, di ricostruire la storia di un pensiero oppositivo che, da un momento all’altro, può tornarci utile – considerando anche il fatto che Lichtenberg stesso sosteneva che i suoi «piccoli pensieri e abbozzi» aspettassero «non tanto l’ultima mano quanto piuttosto alcuni raggi di sole» che li facessero «germogliare».

Felice Accame

P.s.: A proposito di risarcimenti. Oggi a Gottinga c’è una statua dedicata a Lichtenberg da un privato cittadino. È di bronzo riciclato. Dalla statua di dodici metri eretta in Tirana al comunista Enver Hoxha. Nei casi di bancarotta, si sa, i curatori fallimentari cercano di ricavare il più possibile da checchessia.