rivista anarchica
anno 32 n. 283
estate 2002


dibattito nuovi movimenti

No-global: aria di crisi?
di Maria Matteo

 

Prosegue il dibattito iniziato dopo Genova 2001.

In questo giugno in cui il “riscaldamento globale” del pianeta si fa sentire nelle torrenziali piogge che allagano il Nord della penisola, mentre il Sud è attanagliato da un’arsura in cui la scarsità delle precipitazioni va a braccetto con le criminali politiche di gestione dell’acqua potabile, su giornali e mailing list si fa un gran parlare di crisi del movimento no-global.
Il disagio, emerso in modo chiaro dopo la mancata contestazione di piazza al vertice NATO di Pratica di Mare, è divenuto ancor più rovente dopo la buona ma non entusiasmante riuscita della manifestazione organizzata a Roma in occasione del vertice FAO. All’improvviso la scena apertasi in modo clamoroso a Genova lo scorso anno, pare chiudersi sui ben noti teatrini della sinistrignaccola nostrana, più usa agli intergruppi che alla reale ed orizzontale pratica della relazione in rete, l’unica capace di garantire una partecipazione ampia ai processi decisionali.
Questa crisi è bene ricordarlo, è squisitamente italiana, poiché altrove, lo dimostrano i 500.000 di due mesi orsono a Barcellona, il movimento gode di ottima salute.
Il “caso italiano” ha indubbiamente delle peculiarità che non da ora ne fanno una sorta di “onda anomala” nel panorama dei movimenti extrasistemici sviluppatisi negli ultimi 8 anni.
Quella cui abbiamo assistito è una lenta marea salita dalla Selva Lacandona per investire progressivamente l’intero pianeta.
Lo slogan echeggiato in decine di appuntamenti internazionali di lotta contro WTO e Banca Mondiale, i vari G-8 e i summit dell’UE come quelli delle Americhe, “La nostra lotta sia transnazionale come il capitale” ha rispecchiato in modo puntuale lo spirito zapatista. Abbiamo visto la nascita di un movimento inedito, capace di superare sia la tendenza alla frammentazione e al “particulare” tipica degli anni ’80 sia l’afflato universale ma poco attento alle questioni ed alle culture locali caratteristico del decennio precedente.
Tuttavia un esame più attento dei movimenti sviluppatisi in questi ultimi tre anni, al di là dell’avvincente dichiarazione programmatica dell’unità nella diversità, della pluralità delle lotte e dei percorsi nelle mobilitazioni, rivela che molti nodi restano irrisolti. E non è, come ritengono alcuni, una mera questione di “stile”. In gioco non è tanto la strategia di piazza preferita quanto la prospettiva delle lotte e qui il discorso diviene infinitamente più complesso, perché le linee di cesura e quelle di convergenza hanno attraversato trasversalmente gruppi ed appartenenze consolidate spezzando talora vecchi fronti e ricomponendone di nuovi.


Aree riformiste, aree radicali

L’elemento che tende a colpire i più, ossia le azioni di piazza, è alla fin fine la questione meno interessante finché i contenuti rimangono sullo sfondo. Mentre resta il dato di un movimento che vede al proprio interno sia le componenti postmoderne che quelle antimoderne, quelle laiche e quelle religiose, quelle internazionaliste ma, insieme, quelle nazionaliste. Un movimento in cui ritroviamo tendenze stataliste e neowelfariste e, su un altro fronte, ma pur sempre interno all’area no-global, istanze di natura autogestionaria. Per le prime il solo antidoto efficace alla globalizzazione è nel rafforzamento degli stati nazionali e nella ripresa di politiche (neo)socialdemocratiche; le seconde puntano invece su pratiche di opposizione alla logica capitalista sostenendo la radicale antitesi tra prassi autogestionaria e ambito statuale.
Le tante anime dei movimenti di contro globalizzazione sono riuscite a convivere nella loro fase aurorale ma, da Genova in poi, lo scontro tra aree riformiste, fautrici di una “moralizzazione” dei processi di globalizzazione ed aree radicali, convinte dell’urgenza di una politica anticapitalista ed antistatale si è fatto sempre più aspro. Nel nostro paese, dove il peso delle tradizioni politiche della sinistra moderata è ancora forte, e dove questi movimenti si sono sviluppati tumultuosamente ma assai più tardi che altrove, il tentativo egemonico delle aree moderate, attuato attraverso buona parte dei Social Forum locali e, soprattutto, attraverso il partito-non partito, l’Italian Social Forum, è passato attraverso il tentativo di emarginare, criminalizzandole, le aree radicali e libertarie.
La vergognosa operazione di fare dell’area anarchica tutt’un blocco, magari “nero”, di infiltrati e poliziotti, portato avanti sin dalle tragiche giornate di Genova, è clamorosamente fallito. Ma soprattutto è fallita la costruzione di una sorta di “partito no-global” che riassumesse e rappresentasse l’intero movimento. Sin dall’inizio abbiamo assistito allo sfilamento dell’area cattolica. La Rete di Lilliput si è sostanzialmente estraniata dal percorso dell’Italian Social Forum, denunciandone il carattere verticistico ed autoritario. Se a ciò si aggiungono i diversi e confliggenti interessi dei vari attori in gioco, incapaci di dar vita ad una struttura che fosse qualcosa di più di un litigioso intergruppi, cominciamo ad avere un quadro più chiaro.
Nel luglio genovese Rifondazione è stata disponibile, pur fornendo un apporto considerevole alla riuscita delle manifestazioni, ad assumere un ruolo formalmente defilato ma nelle fasi successive ha fatto pesare sempre più la propria macchina organizzativa. Inoltre la nascita di un fronte di opposizione antigovernativo, se da un lato ha visto vaste mobilitazioni di piazza, dall’altro ha reso possibile un, sia pur parziale, riavvicinamento tra Rifondazione e settori dell’Ulivo a scapito di una radicalizzazione dei contenuti del percorso No-global, che si è vieppiù appiattito sulle esigenze della politica istituzionale nostrana.
Le decine di migliaia di persone che intorno all’appuntamento genovese e poi nei mesi successivi si erano avvicinate da protagoniste all’agire politico e sociale, partecipando sì ai cortei, ma anche al dibattito nei vari Forum, sia fisici che virtuali, sorti un po’ ovunque, si sono pian piano ritrovate ai margini di un processo decisionale definitivamente avocato a sé da risicate minoranze di politici di professione.


Anarchismo sociale

La cosiddetta “crisi del movimento” è in definitiva il risultato di fattori diversi e certamente non di segno univoco. L’eccessiva spettacolarizzazione voluta da alcuni settori, come i Disobbedienti, finisce col mostrare la corda quando l’armamentario di “trovate pubblicitarie” tende ad esaurirsi. D’altro canto le “dichiarazioni di guerra” virtuali della premiata ditta Casarini & C. si sono infrante tragicamente di fronte alle pallottole di piombo sparate a Genova da carabinieri e questurini, di fronte alle botte, alle torture, alle detenzioni illegali, di fronte al massacro della Diaz. Ci è poi voluto l’11 settembre e la guerra in Afghanistan per chiarire anche ai più incalliti amanti della farsa che il gioco feroce dei potenti si era fatto dannatamente reale.
Di fronte alla guerra, alla militarizzazione della società ed al contestuale tentativo di equiparare no-global e terrorismo il movimento ha dato i primi segnali di incertezza, di incapacità di esprimere in modo forte la propria opposizione. In quell’occasione sarebbe stato necessario un salto di qualità, la capacità di dar vita ad iniziative internazionali coordinate capaci di smontare la prodigiosa macchina propagandistica messa in campo dai signori della guerra, ma per tutti i mesi dell’offensiva americana in Afghanistan il movimento è apparso per lo più sulla difensiva.
In quanto al resto credo bastino i risibili risultati elettorali delle liste “Disobbedienti” alle recenti amministrative per comprendere che la critica e la volontà di trasformazione espresse dal movimento No-global sono difficilmente riassorbili in ambiti istituzionali, sia pur travestiti da esperienze municipaliste, e che il processo di reistituzionalizzazione del movimento operato dall’Italian Social Forum incontra sempre più resistenze.
I movimenti no-global hanno fatto riemergere il protagonismo di piazza. Una piazza che è ri-divenuta luogo pubblico, spazio della critica e della rivolta, luogo di una presenza diretta non delegata di persone che prendono in mano la facoltà politica, fuori e contro i tragicomici teatrini della democrazia parlamentare.
Sapremo nei prossimi mesi se il movimento saprà riarticolare un proprio lessico, capace di sfuggire sia ai tentativi di istituzionalizzazione, sia alle tentazioni dello spettacolo per la maggior gloria del “portavoce” di turno. Molto dipenderà dalla capacità di annodare i fili di un discorso che sappia ancorarsi ai contenuti tessendo una rete di relazioni efficace ed orizzontale.
La scelta di buona parte del movimento anarchico del nostro paese, emersa in modo chiaro nel luglio scorso a Genova, di sfuggire allo spettacolo mirando alla costruzione di un movimento al contempo radicale e radicato ci pare non solo giusta ma capace, alla lunga, di dare i propri frutti. In questi mesi vi sono stati significativi segnali di una crescita dell’area dell’anarchismo sociale che sono il miglior indicatore dell’efficacia della via intrapresa.


Sempre più intollerabile

Oggi più che mai il saper fare deve coniugarsi ad un narrare che sia azione, relazione, capacità di prefigurare nuovi mondi, fuori dal cono di luce proiettato dai media.
Ad un anno dalle giornate di Genova, mentre l’omicidio di Carlo Giuliani si avvia ad essere, sul piano giudiziario, ridotto a mero “incidente” noi sappiamo che fuori dalle aule dei tribunali e dalle pagine e gli schermi dei media solo la volontà di esserci e contare dei senza potere e dei senza patria potrà opporsi a chi, con la violenza e la menzogna, rende questo mondo sempre più intollerabile.
La prospettiva di una lotta globale non ha solo un significato spaziale ma anche e soprattutto il senso di un movimento capace di investire con la propria capacità critica e di intervento tutti gli aspetti della vita e, soprattutto, quell’agire politico che in troppi vorrebbero ridotto a mero gioco istituzionale. Solo così potremo evitare che il movimento no-global, nel nostro paese, si riduca ad un breve “incidente” di percorso in un’estate troppo assolata.
Quelle che hanno ucciso Carlo Giuliani erano le pallottole di uno stato che non ammette contestazioni, di un ordine che non accetta le critiche; i trecentomila che hanno sfidato questo stato e quest’ordine sul lungomare di Genova ed i tanti che hanno riempito le piazze nei mesi successivi sanno che questa è una verità che nessun magistrato può cancellare.

Maria Matteo