rivista anarchica
anno 32 n. 284
ottobre 2002


anarchismo

Presto saranno trent’anni
intervista di Domenico “Mimmo” Pucciarelli a Daniel Colson

Nel 1973 nasceva a Lione la rivista IRL, che per vent’anni ha rappresentato una delle voci più vive del movimento libertario francofono. Quest’estate ne è uscito un numero speciale, dal quale abbiamo tratto ampi stralci di un’intervista ad uno dei fondatori.

In quale occasione ti sei accostato alle idee anarchiche e com’era la situazione del movimento libertario in quel momento?

Verso la fine degli anni sessanta e poi nell’ambito del Sessantotto. Mi sono sentito libertario nel corso del biennio 1967-68 (con il movimento del 22 marzo). Il paradosso del Sessantotto è che nel momento in cui un po’ dappertutto rispuntavano le idee libertarie, in misura minoritaria (rispetto al marxismo) ma significativa, coinvolgendo un certo numero di persone come me, proprio in quel momento le organizzazioni anarchiche erano quasi scomparse. In particolare a Lione, dove erano presenti due gruppi anarchici. Uno dei «vecchi» (il gruppo Elisée Reclus) e l’altro di militanti più giovani che si chiamava Groupe Bakounine: tutti e due, nella tempesta degli eventi, hanno smesso di riunirsi e, in sostanza, di esistere. L’anarchismo organizzato era già in crisi prima degli avvenimenti del maggio. C’è stata una sorta di implosione, proprio mentre l’anarchia risorgeva dovunque come movimento reale. Nel corso degli anni sessanta le organizzazioni anarchiche tradizionali sono state attraversate da numerosi conflitti. La FA passava da una crisi all’altra. Nel 1968 si è arrivati alla conflagrazione e l’anarchia con la bottega sulla strada è scomparsa, è svanita come una candela, ricordo di movimenti d’altri tempi, spazzata via dall’esplosione libertaria del momento. Per poi riaccendersi, magari, quando le fiamme della trasformazione sociale si sono spente.

Tu frequentavi gli anarchici in quel periodo?

No, ero a sociologia, dove eravamo in tanti di provenienza cattolica. Verso il 1967 ho cominciato a frequentare Michel Marsella, che veniva da una famiglia di anarchici ed era uno dei giovani del Groupe Bakounine. Di anarchici ce n’erano altri, ma «non organizzati», all’università, a Storia e Geografia, e non facevano parte del gruppo. In quel momento si sono scatenate le idee libertarie. Risorgevano spontaneamente. Poi, se è vero che c’identificavamo con l’anarchismo, nello stesso tempo eravamo impressionati dal marxismo. Il nostro grande riferimento era Socialisme ou barbarie, una rivista che si potrebbe definire marxista antiautoritaria, che offriva le analisi così sconsolatamente assenti nelle organizzazioni anarchiche di allora.


Critica del comunismo autoritario

Quindi in origine sei stato più influenzato dalle idee marxiste?

Da un punto di vista personale, quando sono arrivato a Lione, la lettura che mi aveva lasciato un segno era quella di Bergson. Ma nelle facoltà umanistiche il marxismo, nella versione althusseriana, era egemonico nelle correnti di estrema sinistra. Mi sono iscritto a sociologia e all’epoca non sapevo che Deleuze avesse una cattedra di filosofia a Lione e che facesse proprio un corso su Bergson… La vita è ben strana. Dal mio angolino per un po’ ho difeso Bergson e poi mi sono messo a leggere con accanimento Althusser. Qualcuno di noi si è trasformato allora in un marxista emerito, ma con la fermissima intenzione di torcere il collo al marxismo dogmatico che fungeva da riferimento ai gruppi politici con cui siamo stati ben presto in contrasto. In effetti siamo stati da subito in lotta con i gruppi marxisti d’ispirazione maoista o trotzkista. Si era formata una nuova corrente rivoluzionaria che appariva formata da una miscela di marxismo antiautoritario, di ultrasinistra, di “socialismo o barbarie” e di anarchismo.
A quel punto, però, si è arrivati a un ripensamento teorico e ideologico dell’anarchismo (non senza ragione, non era solo una questione di moda). La riscoperta e la rinascita dell’anarchia passavano soprattutto dalla pratica, dai fatti, più che dalle idee. Infine sono venute un po’ per negazione, perché in un certo modo, si sono basate sulla critica del comunismo autoritario e in particolar modo della Rivoluzione russa. Io sono diventato anarchico attraverso la lettura di libri come la Rivoluzione sconosciuta di Volin… e poi c’erano stati i fatti di Ungheria che erano ancora abbastanza recenti, di una dozzina d’anni prima. I consigli operai ungheresi erano stati trattati da fascisti e controrivoluzionari da una specie di cappa di piombo marxista. Socialismo o barbarie era quanto reclamavano anche questi consigli operai e la rivista omonima aveva dedicato un numero proprio a questo tema.
Quella che si rivendicava, dunque, era l’autonomia operaia.
La sociologia come disciplina universitaria era estremamente recente, essendo stata creata nel 1967. Noi studenti che ci eravamo iscritti a questa facoltà eravamo anche influenzati dal libro di Bourdieu, Les héritiers. Un libro che ha svolto una funzione importante: le idee dell’autore fornivano ai sociologi un’autonomia teorica. Prima della nascita del dipartimento di sociologia gli studenti di lettere che si trovavano davanti al marxismo lo consideravano un pensiero totale, insieme sociologico e filosofico, mentre noi, molto rapidamente, a sociologia, abbiamo formato un gruppo, con Marsella e altri, al quale la nostra disciplina garantiva autonomia ideologica e politica. Invece i gauchisti erano costretti a venire a patti con una forza dotata di proprie risorse teoriche, tra l’altro a causa della sociologia di sinistra dell’epoca.
Noi eravamo un gruppo informale, giocavamo a carte, facevamo feste, facevamo bevute in compagnia e facevamo politica. Io, personalmente, facevo parte anche di un Comitato Vietnam, ma indipendente dai marxisti. Era un gruppo che si riuniva in un locale del Vieux Lyon, ai tempi un quartiere popolare in cui abitavano molti di noi (come Georges Laurent, che poi sarebbe stato tra i fondatori di IRL, e Jacques Flauraud, un amico che aveva un ruolo di primo piano all’epoca). Avevamo formato in breve tempo un gruppo informale, di feste e di gioco, ma che si riuniva anche per fare lavoro teorico. Abbiamo passato intere serate a leggere ad alta voce il Capitale di Marx. A quei tempi era così che ci si formava intellettualmente. (…).

Nel Sessantotto le bandiere nere ricominciano a sventolare per le strade: è un primo segno della rinascita dell’anarchia?

Per me il rapporto c’è stato il giorno in cui ho capito che tutto quello che vivevamo in un modo così forte in quel periodo aveva un legame con l’anarchia. Mi ricordo benissimo del momento in cui ho capito di avere aderito alle idee e al progetto libertari. Il gruppo anarchico era sparito, ma nello stesso tempo c’era tantissima gente che si dichiarava anarchica. Era un anarchismo molto francese, affascinato dalla Banda Bonnot, per esempio, e di aspetto poco presentabile per gli studenti di provenienza piccolo-borghese come me. Era un anarchismo che è finito con le rapine a mano armata… Gli anarchici facevano paura e non sembravano molto seri (da un punto di vista politico).
Io penso che il collegamento sia nato quando il movimento antiautoritario che si affermava come una sorta di enorme speranza si è riconosciuto nell’anarchismo storico, nell’anarchia come progetto politico. Non c’erano altri movimenti che facevano lo stesso. Nemmeno Socialisme ou barbarie, perché si capiva bene che erano come dei gauchos, dei vecchi trotzkisti, e lo si avvertiva dalle loro pratiche e dalle loro idee. L’anarchismo appariva invece come un movimento ampio e radicale, politico e nello stesso tempo pratico. Dentro ci stavano i consigli ungheresi come la rivolta individuale che si traduceva nelle rapine. In quel momento tutte queste cose hanno trovato un collegamento.

Hai cominciato a prendere contatto con l’anarchismo ufficiale?

Niente affatto. L’anarchismo ufficiale non esisteva più, almeno a Lione…

C’erano i vecchi spagnoli della CNT…

Di cui si dovrebbe scrivere la storia, senza dubbio, perché hanno avuto una loro funzione in questa trasmissione delle idee anarchiche. In tante cittadine ho trovato persone influenzate da questi spagnoli. Dovunque esistevano quei piccoli nuclei si è formato un legame con moltissimi giovani. Giovani che venivano da famiglie del PCF e che incontrando gli spagnoli della CNT erano coinvolti in un movimento spontaneo e non organizzato. Mentre la Federazione Anarchica ai tempi, da una dozzina d’anni, si opponeva a questi movimenti di rinascita. Sta qui il paradosso. La Federazione Anarchica degli anni sessanta, in nome di un’ortodossia di cui era depositaria in un contesto assai sfavorevole, passava il suo tempo a denunciare le deviazioni, a escludere militanti, un po’ come faceva la chiesa con i cattolici di sinistra e il partito comunista con i futuri gruppi di sinistra.

Quindi ti sei accostato all’anarchia perché ci vedevi un’alternativa politica, ma nello stesso tempo respingevi quello che era l’anarchismo ufficiale…

Non avevo nemmeno bisogno di respingerlo, perché era sparito. E poi non aveva nessuna importanza. Si aveva davvero l’impressione che ci fosse un’anarchia rinascente, completamente basata sull’autorganizzazione e sull’autonomia delle lotte. Per questo non aveva senso l’idea di un organismo custode del dogma e di un’ortodossia anarchica, per altro assai misera. Allora mi sono ritrovato ai Cahiers de mai, un giornale che potremmo definire operaista, animato da un vecchio stalinista (parigino), ma con una forte partecipazione di libertari. Il che si spiega facilmente con il fatto che questa pubblicazione sosteneva l’autonomia e l’autorganizzazione. Era favorevole all’idea che le persone si organizzassero da sole e l’anarchia per noi era questo: una dinamica di autorganizzazione per trasformare ogni cosa.

In quale momento hai avuto voglia di fare qualcosa di specificamente libertario?

In coincidenza con la pubblicazione di IRL, nel 1973. Prima non avevo fatto niente con i libertari…

Presto saranno trent’anni!

Sì. Eravamo nel 1973, cinque anni dopo il maggio del Sessantotto, un lungo periodo. Ci si trovava in un contesto di scioperi continui e di conflitti. L’idea che avevamo era che quel movimento, che percepivamo come libertario, si desse un’espressione più specifica. Su questo argomento litigavamo tantissimo. Noi, con Georges Laurent e qualcun altro, avevamo in comune l’idea di dare un’espressione teorica e simbolica a quello che avevamo vissuto e che stava succedendo da qualche anno.
IRL all’inizio era pensato come un giornaletto, che ben presto ha avuto una certa risonanza. All’inizio degli anni settanta c’era stato un allargamento delle lotte. Si cominciava a parlare di ecologia, c’era l’antimilitarismo, il movimento delle donne, quello degli omosessuali con la FHAR, c’erano i neo-rurali che tornavano alla campagna, insomma una sorta di ribollimento generalizzato in cui il movimento operaio svolgeva un ruolo importante, molto forte. C’erano scioperi in cui certi sindacati, come la CFDT, erano sul punto di proclamarsi anarcosindacalisti, in cui erano attivi molti libertari. È possibile rendersene conto rileggendo quello che scriveva all’epoca Edmond Maire, per esempio sulla Lip.
L’idea che avevamo era che questo movimento dovesse prendere coscienza di sé. Per parte nostra, intanto, avevamo continuato le nostre letture dopo il Sessantotto. Cominciavamo a saperne di più dell’anarchismo e ci sembrava possibile che questo movimento riflettesse su di sé, per esempio attraverso un giornale. Ci pareva il mezzo ideale.

L’obiettivo che avevate era di sviluppare un movimento libertario?

Sì, ma la concezione che avevamo del movimento libertario era soprattutto legata all’idea di non ricostituire le organizzazioni anarchiche prima dei fatti. Speravamo che quel movimento vastissimo in cui eravamo immersi fosse in grado di autorganizzarsi, di federarsi e che, così facendo, desse vita a un movimento libertario con radici direttamente nelle lotte, nelle volontà di emancipazione che si manifestavano.

È appunto quello che è successo a Lione, no?

Sì, ma nel 1973 c’era solamente un locale della SIA (Solidarité Internationale Antifasciste) nel quartiere della Croix-Rousse, che era la vecchia sede in cui gli spagnoli cercavano di educare i giovani più inclini a farsi delle canne… Ma noi non li conoscevamo. E poi un po’ dappertutto c’erano i nuclei di gruppetti affini che si sentivano anarchici. C’era un gruppo di maestri elementari, uno di Saint-Etienne, uno alle Minguettes... Dopo l’uscita dei primi numeri di IRL, si è posta immediatamente la questione di aprire una sede. Alla fine l’abbiamo aperto, nel 1975, al 13 di rue Pierre Blanc.

Nei primi due anni di vita di IRL avete provato a prendere contatti con altri anarchici per farli entrare nel piccolo nucleo della redazione?

Sì, a livello nazionale, con giornali come La Lanterne Noire, e poi con una rivista di Strasburgo. Ma l’idea sottesa alla pubblicazione di IRL era che chiunque partecipasse a una lotta o vivesse un’esperienza di emancipazione potesse esprimersi sul giornale e insieme leggerlo e riconoscervisi, scoprire altre forme di lotta, arricchire la propria percezione del possibile e favorire così lo sviluppo del movimento rivoluzionario. Non c’era un obiettivo di reclutamento.

 

Rinnovamento delle idee libertarie

All’inizio il titolo era assai neutro, come mai?

Il titolo (Informations rassemlées à Lyon – Informazioni raccolte a Lione) s’inseriva espressamente in una tradizione precedente. L’idea è venuta a Georges Laurent. La corrente anarchica che si era ricostituita a Lione nel 1968, spontaneista e ostile alle organizzazioni (bisogna ricordare che all’epoca, per esempio, Noir et Rouge si definiva un «gruppo non gruppo»), aveva pubblicato un giornale che si chiamava Informations recueillies à Lyon, la cui idea principale era che il «movimento» fosse completamente autonomo, e che bastasse far circolare le informazioni, far sapere quello che succedeva. Noi li abbiamo seguiti, sostituendo soltanto la seconda parola con un sinonimo… Così c’inserivamo in questo progetto, con una divergenza che per altro ha posto qualche problemino con quelli che avevano fatto quel giornale prima di noi. In effetti noi cominciavamo a dirci esplicitamente anarchici, a pensare che il rinnovamento delle idee libertarie, la riscoperta delle esperienze libertarie del passato fossero componenti dei movimenti in atto, una pari alle altre e assolutamente determinante, mentre loro spingevano il rifiuto dell’organizzazione e dell’ideologia al punto di non volersi più dire anarchici.

Allora, nel 1975, chi erano gli anarchici e che facevano?

Erano davvero pochi. Il CUL, Collectif utilitaire lyonnais, che stava sempre nel quartiere della Croix-Rousse, si è formato più tardi, ma poi è cresciuto molto in fretta. In effetti spuntavano come funghi, attraverso l’esperienza delle lotte, nelle scuole superiori, per esempio. Tutti gli anni c’era un’agitazione nelle scuole o all’università, e ogni volta di qui uscivano nuovi militanti.

Siete stati voi i nuovi padri, le guide di questi giovani?

Per età ero uno dei più anziani. Avevo trent’anni e mi sentivo un «vecchio». Ma i giovani in questione si gestivano le loro attività. IRL era una specie di grande calderone. Si passavano tutti gli articoli che ricevevamo. Non avevamo nessun ruolo di educatori o d’istruttori: all’epoca (e anche adesso, spero) era impensabile. La formazione avveniva tutta nelle discussioni informali e soprattutto nella pratica.

IRL continuerà fino al 1990 a occupare uno spazio particolare nell’insieme della stampa libertaria, assumendo una posizione di apertura e di confronto. Tu ci parteciperai per qualche anno all’inizio e poi, dopo l’apertura della Gryffe, nel 1977, il tuo impegno militante si esplicherà più all’interno del collettivo che anima la libreria libertaria…

Sì, ma questo è legato a considerazioni personali. Effettivamente dal 1977-78 avevo oramai 35 anni. Prima avevo vissuto un periodo pensando di dedicare tutta la mia energia al movimento rivoluzionario, in particolare decidendo di non fare il sociologo, di entrare in un ufficio studi come faceva qualcuno, decidendo di non sposarmi, di non fare figli. Avevo fatto questa scelta. Ma nel 1976-77 c’era stata una svolta nella politica francese. La CFDT ricominciava a centralizzarsi e d’altra parte tutti avvertivano che il «movimento» uscito dal Maggio era prossimo all’estinzione, a concludersi. C’era la crisi economica, l’inizio di una trasformazione del capitalismo, la fine di un’epoca. In quel momento ho trovato un posto all’università e ho ripreso, dalla porta di servizio, la carriera universitaria.
Nella decisione di non collaborare più a IRL c’era anche il fatto che non era più il giornale dell’inizio e che era simile a tanti altri pubblicati in quel periodo. Era diventata una rivista di portata nazionale, con più gente che collaborava, una volontà e un progetto che imponevano un investimento diverso rispetto a un giornalino nel clima di agitazione del biennio 1974-75. IRL allora era assimilabile, in quegli anni, a riviste come la spagnola Bicicleta, a certe riviste italiane e più tardi alla seconda Noir et rouge… Nello stesso tempo io avvertivo una grande coerenza tra la posizione di IRL e quella della libreria della Gryffe e tutte le scelte fatte negli anni settanta. Scelte che esprimevano l’idea di creare strumenti d’incontro e di espressione che non fossero legati a una parrocchia…
Poi, dal 1977, ho deciso di preparare una tesi di dottorato. La Gryffe sarebbe restata il mio legame fisso con la militanza, come pure il Collectif libertaire, al quale partecipo attivamente da tanto tempo.
Il mio investimento, con la decisione di fare quella tesi, punta di più sul versante universitario. Ma per me non c’è soluzione di continuità in questo passaggio, perché il lavoro culturale nell’ambito dell’università lo vivo come un prolungamento diretto di quello che già facevo prima. Solo che quella era la pratica e quando la pratica ha perso lo slancio, potevo scegliere se ricadere dentro una specie di setta sonnecchiante o se continuare ad avere un’attività intellettuale. In un certo modo continuava a esistere un legame con IRL e con tutti quei giornali che avevano voglia di riflettere su quanto era successo e su quello che poteva succedere.

Come spieghi la partecipazione al Collectif libertaire, che comunque era esplicitamente un gruppo libertario?

Si trattava davvero di un collettivo, completamente aperto. Riuniva persone con una pratica reale e poi c’erano tantissimi gruppi. C’era qualcuno della Gryffe, che era sì una struttura, ma non ideologica, un gruppo di donne libertarie, almeno per un certo periodo, il CUL che era un gruppo di quartiere con una sede, qualche ribelle e tante individualità. Il collettivo aveva un suo giornale (Café noir), di cui si dovrebbero rileggere gli articoli che in una certa maniera riprendevano il progetto originale di IRL sul piano locale. All’interno del collettivo, anche se il movimento del post-Sessantotto era in crisi, si sviluppava comunque l’idea di un movimento autonomo, spontaneo e autorganizzato. Il Collectif libertaire non era altro che l’espressione e il luogo in cui potevano convergere le diverse attività, i gruppi e i singoli presenti a Lione…

Tu partecipi alla vita del collettivo e della libreria della Gryffe praticamente dall’inizio, fanno quasi venticinque anni. Che insegnamenti ne puoi ricavare oggi?

Mentre lavoravo alla mia tesi, ho un po’ ridotto la militanza. Nel corso di venticinque anni ci sono stati periodi in cui sono stato più o meno attivo nel movimento libertario. La Gryffe, per me, è un’esperienza fondamentale, molto concreta. È nello stesso tempo un’esperienza di organizzazione nel senso proprio del termine, per far funzionare una struttura molto vincolante (presenza, cassa, ordini, scelta dei libri, riviste, dibattiti ecc.). Per questo è un’esperienza straordinaria, nella quale si deve coniugare il rigore della gestione funzionale e di costrizioni materiali molto grandi. Ma è anche l’esperienza di un progettò politico, quello della Gryffe, che ha portato a numerosi conflitti ma che permette anche di intuire come funzionare. Grazie al mio lavoro di storico io sapevo come un sindacato sia in grado di conservare la propria identità pur riunendo persone estremamente diverse dal punto di vista delle idee e dei comportamenti, persone che la pensano in modo diverso. Per me la Gryffe è un’esperienza del genere, che dimostra come un’esperienza di autogestione comune possa permettere l’espressione di posizioni molto lontane tra loro. Tanto più che l’obiettivo della libreria è quello della diffusione delle idee, laddove si hanno tutte le ragioni di prendersi a male parole.
Pur partendo da questa esperienza ricchissima, resta aperto il problema teorico: come federare diverse forze emancipatrici. Questo, per me, è il problema numero uno della teoria anarchica.
Non è un mistero di quanto sia conflittuale il movimento anarchico. Io penso che gli anarchici dovrebbero aggiornare un pensiero che pensi il conflitto e lo pensi in un modo diverso, che, cioè, pensi la differenza. Essere diversi e accapigliarsi è normale, ma se si pensano queste differenze e le ragioni per cui ci si accapiglia, se si pensa che queste differenze sono positive e al centro del progetto libertario, si passerebbe molto meno tempo a litigare e ad accapigliarsi.

Può darsi… Come vedi la situazione del movimento anarchico a Lione nel 2002?

Per un verso sono contento del successo della FA e della CNT (di cui sono membro), ma nello stesso tempo trovo che non sia necessariamente un segno positivo. L’anarchismo è risorto nella storia e ha ripreso forza, una forza che permette di far vivere qualche organizzazione. Bene. Ma di solito, quando rispuntano le organizzazioni, questo è un segno che… in effetti, penso che la fonte d’origine dell’anarchia non sia affatto nelle organizzazioni. Così, quando le organizzazione riprendono il sopravvento, non è detto che questo sia un buon segno. Il recente appello all’unità dei libertari dimostra che gli anarchici sono tanti, ma non per forza giovanissimi, prodotti dalle lotte e dai percorsi del passato, e che non sanno più tanto bene che cosa sia il caso di fare. Penso che l’anarchismo organizzato stia invecchiando (dal punto di vista dei militanti). Intanto si sono prodotte altre forze, quanto meno per numero di militanti. Ora, un militante di trentacinque o di quarant’anni, se sta in fabbrica e se il suo sindacato è molto attivo e sostiene le posizioni anarcosindacaliste, militerà nel suo sindacato. Invece, se il sindacalismo diventa completamente riformista (come avviene attualmente) e tutto va storto sul posto di lavoro, quel militante aderirà a un’organizzazione per sopravvivere. Monatte descriveva benissimo questo fenomeno nel biennio 1911-12, quando il sindacalismo rivoluzionario francese entrò in crisi.

Non credi che esista un movimento anarchico esterno alla Federazione Anarchica e alla CNT, una fetta del movimento che si può assimilare a quella pratica libertaria di cui tu hai sempre auspicato lo sviluppo e per la quale hai dedicato tanto impegno?

Penso che quando il movimento, le speranze di emancipazione, si indeboliscono, ci siano due possibili forme di ripiegamento. Una è quella ideologica, in un’organizzazione ideologica. L’altra avviene con un ripensamento di tematiche particolari del movimento libertario. Sarebbe interessante, credo, vedere come Lecoin, che a un certo punto faceva il sindacalista, si sia riconvertito nell’impasse del pacifismo. Attualmente l’animalismo e una serie di cose del genere, come l’ecologia, per esempio, possono essere forme di ripiegamento in uno spazio particolare che non è più occupato da un movimento o da lotte… se non da movimenti o da lotte parziali che rischiano di trasformarsi in fretta in quelle che Proudhon chiamava ideomanie.(...)


Un’autentica sfaldatura

Adesso vorrei fare qualche osservazione a proposito del tuo libro. Hai cercato di dimostrate che la teoria anarchica si rinnova attraverso forme di pensiero che non hanno un rapporto diretto con quella che si può chiamare l’ideologia anarchica. Ciò nonostante, nell’ultimo trentennio nel serraglio anarchico ci sono stati autori che hanno avuto un certo peso per il movimento anarchico internazionale e per il suo rinnovamento. Non saranno stati tanti, ma quanto meno un Bookchin, un Clark, qualche italiano degli anni settanta e ottanta. Ma questi non compaiono sul tuo libro. Perché? Non sono «pensatori» dell’anarchia?

Vorrei che fosse chiaro che da parte mia non c’è nessuna intenzione meschina. Qualsiasi autore che mi dice qualcosa, che ha senso per me, l’ho utilizzato nel mio piccolo lessico (per molti versi mi sento vicino a Clark). Gli autori italiani, li conosco male perché non leggo l’italiano… Quanto a Bookchin, ne parlo pochissimo, ma dalla lettura che ne ho fatto mi risulta una grande divergenza tra le sue idee e come la vedo io.
Spero che il mio libro solleciti una discussione, soprattutto con Eduardo Colombo, che esplicita bene un’altra via possibile nell’interpretazione dell’anarchia. Io credo che, da un punto di vista filosofico, l’anarchia sia attualmente davanti a due possibilità. Colpisce vedere che Bricmont è uno di quelli che, insieme a Sokal, ha attaccato con maggiore violenza Deleuze. All’interno della teoria anarchica c’è un’autentica sfaldatura, dal punto di vista epistemologico, e si dovrà continuare a discuterne.

Ne deduco che quegli autori «anarchici» non hanno partecipato al rinnovamento dell’anarchismo… compreso se si pensa a Chomsky…

Non per quello che mi riguarda. Ma immagino che per contro il mio libretto sia lettera morta per tanti anarchici. Farò solamente notare che certi intellettuali anarchici famosi, come Chomsky, non hanno scritto granché sull’anarchia. Chomsky è un radical americano che si dichiara anarchico, e questo è quanto, più o meno.

Allora non c’è stato un rinnovamento dei concetti e delle idee anarchiche per merito dei pensatori «anarchici» contemporanei. Ma esistono comunque più concezioni dell’anarchia: per riassumere si può dire che oggi c’è la tua e c’è quella di Eduardo Colombo… E la tua qual è?

Ci fai un grande onore, e io non sono così stupido da cadere nella tua solita ironia. La mia posizione consiste nel dire che non sono le idee, un programma, un progetto discorsivo che fanno girare il mondo, ma tutto quanto è legato a desideri, a forze. Il problema dell’anarchismo consiste nel sapere se il progetto libertario è un’utopia razionale che si pone un obiettivo e che pretende di cambiare il mondo, convincendo gli altri (se è logico non dovrebbe essere così difficile) dandosi i mezzi, gli strumenti organizzativi e di altro genere per farlo. Oppure è l’espressione dei possibili inseriti nel reale in modo immanente, nei nostri desideri e in forze superiori a noi, che si devono valutare continuamente e che sono portatrici di un’esistenza più intensa, più libera, più felice.

La prima sarebbe quella di Colombo e la seconda la tua?

No, non lo si può riassumere in un modo così schematico. Questa è la grande qualità delle analisi di Colombo: lui stesso non si riferisce solamente a idee a un programma o a un modello esteriore, ma anche a una esperienza storica preziosa da un punto di vista anarchico: la polis greca. Si deve leggere Tucidide e il racconto delle assemblee dei cittadini, dei rematori delle triremi ateniesi, lontani dalla patria, che respingono la tirannia appena impostasi ad Atene. Io mi riconosco di più nelle rivolte contadine taoiste dell’antica Cina. Ma non mi pare che il pensiero di Colombo coincida con il razionalismo stretto che si trova talvolta nel pensiero anarchico, ma che s’inserisca nell’ambito di un’esperienza collettiva e storica fondamentale.

Forse per te queste due espressioni coincidono con quelle che qualcuno ha definito anarchismo classico e anarchismo contemporaneo?

Per vederci più chiaro, bisogna continuare a lavorare e a riflettere. M’interesserebbe esaminare più a fondo il ruolo svolto da Kropotkin in questa storia del pensiero libertario, perché egli fa da cerniera tra le due espressioni. A grandi linee, se si prendono queste due correnti, quella razionalista e scientista (che dà molta importanza alla scienza, come dimostra uno degli articoli pubblicati in ambito libertario a proposito del mio libro) non è in grado, secondo me, di rendere conto né degli anarchici «contemporanei» né dei movimenti libertari, né degli anarchici «classici», per il fatto stesso che tutte queste espressioni dell’esperienza libertaria non hanno niente di scientista, ma piuttosto coinvolgono forze e desideri. Se c’è uno che si dichiara dalla parte della vita e che attacca violentemente la scienza, questo è proprio Bakunin, e con grande lucidità. E anche Proudhon è chiarissimo: «La riflessione e quindi l’idea nasce nell’uomo dall’azione, e non l’azione dalla riflessione.» Evidentemente è possibile gettare nella pattumiera della storia Proudhon, Coeurderoy, Bakunin, criticare la propaganda con i fatti, l’azione diretta e l’insieme delle esperienze operaie libertarie e continuare a dirsi anarchici, perché no? L’anarchia appartiene a tutti. Ma questo anarchismo non può pretendere di essere il depositario della storia del pensiero e delle esperienze libertarie. Rispetto a quello che tu chiami «l’anarchismo classico», io mi sento infinitamente più fedele alla tradizione libertaria. In questo sta il paradosso di certe discussioni attuali: l’anarchismo «contemporaneo» accusato di deviazioni dai guardiani del tempio, perché si rivolge a Deleuze, a Foucault, a Nietzsche, è infinitamente più fedele al pensiero e alle pratiche dell’anarchismo storico di quello cosiddetto «classico» o «tradizionale». Ma da troppo tempo mi sforzo di spiegarlo per sperare di convincere qualcuno.

In effetti è necessario gettare dei ponti tra le diverse forme di anarchismo. In quello che si chiama contemporaneo, oltre ad autori come Bookchin, che si rifà parecchio a Kropotkin, ci sono stati e ci sono autori che propongono forme molteplici di anarchia. Penso ad Hakim Bey, a John Zerzan, a Bob Black (che «stranamente» sono tutti americani…), che sono tutti portatori di opinioni eterodosse rispetto all’anarchismo «classico» e di un’apertura intellettuale. Tuttavia non li troviamo nel tuo testo. Forse non ti senti vicino alle loro opinioni?

Non conosco molto bene Bob Black, gli altri li ho letti un po’, ma la grande debolezza della mia posizione è senz’altro dovuta alla scarsa conoscenza che ho dei dibattiti all’interno del movimento anarchico americano. Posso solo dire di avere letto Feyerabend e di avere in effetti qualche riserva nei suoi confronti. Ho una riserva riguardo a una forma di ipercriticismo un po’ cinico e provocatorio. Forse perché mi disturba. Utilizzando il tipo di analisi che m’interessa si potrebbe dire che la forza, la volontà, il tipo di desiderio che mi costituiscono non hanno molta affinità con la forza, la volontà e il desiderio che percepisco in persone come Feyerabend. Quel che è certo è che in nessun momento mi si è imposta l’esigenza di ricorrere a lui nel mio piccolo lessico. Mentre nelle TAZ di Hakim Bey si ritrova indubbiamente Deleuze e mi spiace di non averci pensato, ma nel lessico mancano molte altre voci. Riguardo a Zerzan, la sua critica del linguaggio e del simbolico mi sembra interessante. Su questo punto tocca qualcosa di fondamentale, che si ritrova negli autori anarchici dell’Ottocento, in Bakunin e Coeurderoy, per esempio. Solo che a quel che appare Zerzan costruisce tutta un’epopea storica dall’origine dell’uomo fino al suo auspicabile avvenire che mi sembra di una grande ingenuità, o molto strampalata. Critico anch’io la scienza, ma nello stesso tempo penso che si debba avere un certo rigore e una certa accuratezza. Per quanto mi riguarda, cerco di non essere così strampalato…

Vuoi dire che il tuo libro che sembra costruito in modo assai libero, non è strampalato più di tanto?

Certe cose sembrano buffe, ma effettivamente io sostengo di no, anche se ci si possono trovare contraddizioni ed errori; per questo spero che i lettori li trovino e me li segnalino. Ho voluto fare un libro rigoroso e realista.


Un segno nella storia

Nel tuo libro, come del resto nei tuoi articoli, ritrovo un forte richiamo all’esperienza del movimento operaio. Mi sembra che tu vi veda esempi utili per organizzarsi e trasformare la società. Nostalgia o cosa?

Ecco un elemento di divergenza «storica» tra te e me. Penso che ci sia una parte di nostalgia per quanto il movimento del Sessantotto da cui sono uscito sia stato davvero un movimento operaio. Il paradosso è che il Sessantotto ha ripetuto in altra forma quanto era successo in altre epoche. La grande sorpresa sta nel fatto che nel giro di pochi anni siano sparite le condizioni che avevano dato vita a questo movimento. Tutto sommato, però, non ci vedo tanto la nostalgia, perché secondo me uno dei concetti centrali della teoria anarchica è quello dell’analogia o dell’affinità. Se attribuisco una certa importanza all’anarcosindacalismo e al sindacalismo rivoluzionario, lo faccio soprattutto per motivi concreti. Si tratta infatti di alcune tra le principali esperienze del progetto anarchico che hanno lasciato un segno nella storia. Io penso, però, che si debba dare altrettanta importanza a Makhno, che è un’esperienza molto diversa (di tipo militare…), o ancora al movimento anarchico russo… E se tu conosci altre esperienze libertarie che io ignoro, me le devi segnalare.
Con questo voglio dire che questa idea dell’affinità, un’idea che prima o poi dovrà passare, vuole dire che l’esperienza libertaria (e qui sta una delle sue originalità, rispetto al marxismo, per esempio) non è collegata a un modello specifico o esterno. Il grande pericolo del movimento anarchico, come di qualsiasi movimento che dura nel tempo, è di trasformarsi da esperienza di emancipazione in modello esterno che si vorrebbe poi imitare. Per definizione le esperienze e le lotte libertarie sono sempre dall’interno. Comunicano dall’interno, per affinità e per analogia. Perciò l’anarchia non è legata solo agli operai: Bakunin, per esempio, era pronto a gettarsi in qualsiasi avventura emancipatrice, purché la gente si ribellasse e affermasse quella che egli chiamava la vita. L’analogia significa arrivare a pensare ciò che un’esperienza può dare per un’altra esperienza senza nessun rapporto apparente o esteriore con la prima.
Io sostengo, e su questo ci sono stati scontri che ritengo di una stupidità totale, che storicamente Proudhon sia stato indiscutibilmente uno dei principali teorici del sindacalismo rivoluzionario, non nel senso che fosse il capo o il pensatore di quel movimento, ma per il fatto che i sindacalisti rivoluzionari si sono ben presto riconosciuti nei suoi testi. E Proudhon era contro i sindacati e contro gli scioperi! Era contro tutto quello che ha fatto la realtà del sindacalismo rivoluzionario, che pure si è riconosciuto in lui, dall’interno, in ragione del principio di analogia. Infatti Proudhon può essersi sbagliato completamente sulle forme di cooperazione, per esempio, ma il suo modo di pensare le cose faceva sì che un sindacalista rivoluzionario vi si riconoscesse e sviluppasse pratiche ed esperienza che lo stesso Proudhon non poteva nemmeno immaginarsi. Per questo io sostengo (e finché le compagne femministe non lo capiranno non ci sarà discussione possibile) che il teorico che permette di capire meglio le potenzialità del femminismo radicale è Proudhon che, come sanno tutti, era di una misoginia inverosimile, abominevole. Per riassumere, gli amici, cioè quelli con cui ci si può associare in un movimento di emancipazione, non sono sempre lì dove crediamo di trovarli; se ci affidiamo alle apparenze, alle etichette, possiamo essere quasi certi di sbagliarci, di mancare drammaticamente di fiuto o d’intuito.

Quali sarebbero le possibili analogie tra il movimento operaio e i movimenti di oggi?

Dove sono i movimenti oggi? Temo che si possa parlare solo dei movimenti di ieri, di quelli di tre decenni fa, quando è risorto il movimento libertario. In quel caso l’analogia è evidente, per me. A movimenti operai libertari estremamente diversificati tra loro e nella loro composizione interna, che tuttavia formavano la totalità del movimento di emancipazione, ne è successo uno molto più ampio, dai comitati di quartiere ai movimenti degli omosessuali, passando da quello delle donne, da quelli giovanili, dai gruppi ecologisti, dall’insieme dei movimenti alternativi fino, certo, a quelli dei salariati, sul terreno del lavoro, che conservano tutta la loro importanza. Rivolta, autorganizzazione, rifiuto degli apparati burocratici, rifiuto delle regole di rappresentanza politica, federalismo, azione diretta, composizione di forze che abbracciano tutti gli aspetti della vita: in questo sta l’analogia tra le esperienza operaie precedenti e i movimenti completamente diversi nati nella seconda metà del XX secolo. Ma la situazione attuale è piuttosto demoralizzante: si può parlare dell’avvenire. Farò un esempio, che vuole essere un po’ provocatorio. I libertari criticano giustamente ATTAC, ignorando però in certi casi la grande diversità di questo movimento, la dinamica che ne caratterizza alcune delle componenti. Ma le critiche libertarie ad ATTAC hanno il torto di essere solo e soprattutto programmatiche, come se un ATTAC libertario (l’unità dei libertari tanto sognata da qualcuno, capace di «incidere», di fare numero eccetera), che avesse altri obiettivi, un altro programma, fosse più accettabile, giustificando così tutte le battaglie di apparato per definire la giusta linea, il programma corretto e via discorrendo. La critica libertaria che si basa sull’esperienza e la specificità del movimento libertario, sta da un’altra parte. Essa consiste, secondo me, nel dimostrare che ATTAC è prima di tutto e purtroppo un semplice movimento «d’opinione» (come i cortei o in altri casi il movimento ecologista), un movimento astratto di massa che cerca forzatamente e soltanto di incidere sulla politica dei dirigenti, oppure, se fosse «rivoluzionario» (nel senso antilibertario e programmatico di questo termine), di prendere il posto di questi dirigenti per applicare un’altra politica, per perseguire altri obiettivi (a suo dire più rivoluzionari). Tutto cambierebbe se ATTAC, come qualsiasi altro movimento, si trasformasse in una composizione di forze reali e diversificate (e non avesse solamente la forza meccanica, uniforme e ripetitiva del numero). Tutto sarebbe diverso se le componenti di ATTAC non fossero più gruppi di base uniformi di «militanti», distinti solo per opinioni di cui s’ignora l’origine, se queste componenti s’identificassero nei collettivi dei contadini delle montagne dell’Alta Savoia, nei gruppi di donne radicali, in quelli dei dipendenti della tesoreria generale, nei comitati di studenti medi in lotta per una scuola diversa, in una federazione di soviet delle case di riposo, nei gruppi d’affinità, nelle reti di hacker, nelle associazioni di consumatori, nei collettivi di comproprietà, nei club degli skater, nei collettivi di suonatori di cornamusa, nei comitati di difesa degli orti operai del quartiere-giardino di Saint-Etienne. La lotta contro la globalizzazione capitalista non sarebbe più un gruppo di pressione, una corrente d’opinione, ma la federazione di tutte le forze concretamente in lotta (in questo sta la selezione) e praticamente in questa o in quella dimensione della nostra esistenza, con l’impegno, da subito e immediatamente, di trasformare le cose lì dove sorgono i problemi, sapendo, in qualsiasi momento, passare nell’autonomia, disassociarsi, fregandosene altamente di controllare l’apparato, la direzione del movimento nel suo insieme. Il movimento generale di lotta in questo modo non è più una «organizzazione» definita dal programma, dalle sue frazioni, dalle sue tendenze e dai tentativi di infiltrazione. Diventa un luogo d’incontro e di confronto tra le singole forze reali, che trae dalle differenze reali, materiali, controllabili, e non da alzate d’ingegno ideologiche, la possibilità di federarsi davvero e d’imporre da subito un ordine diverso da quello esistente. Ecco qui un esempio di possibile analogia, di quello che l’esperienza e il pensiero libertario possono effettivamente proporre, di quello che potrebbe proporre la CNT invece di restare attaccata alla riproduzione fredda e fedele di un modello sindacale che sotto gli occhi di tutti si dimostra capace soltanto, con qualche eccezione locale, di oscillare tra l’impotenza e la più mediocre integrazione riformista.


Infatuazione superficiale

Stiamo assistendo a una sorta di infatuazione generale per l’anarchia, se si pensa a tutte le pubblicazioni che le sono dedicate, anche da editori non libertari. Come lo spieghi?

Se una cosa è sicura, è che si tratta di un’infatuazione molto superficiale, stile il profumo L’Anarchiste. Secondo me bisogna diffidare da certo anarchismo ludico per la borghesia.
Il fenomeno, comunque, è legato al fatto, anche questo del tutto epidermico, secondo me, che alla televisione si rivedono le bandiere rosse e nere. L’interesse per l’anarchia è un riflesso di una mistura di fenomeni di vari livelli, compreso un immaginario collettivo non privo di aspetti interessanti, anche la pubblicità lo sfrutta, come sfrutta e divora qualsiasi cosa. Spero che al fondo ci sia un’aspettativa d’altro genere.

Non vedi ondate di fondo anarchiche nella società?

No, non stasera almeno, perché la società in cui viviamo è tremenda, mortifera, c’è di che essere depressi…

Ma tu non lo sei tutti i giorni?

No, ma se ci penso lo sono.

Oggi sei uno degli anarchici che ha attraversato tanti decenni: che cosa diresti ai giovani che si avvicinano alle idee libertarie?

Me ne starei zitto. Aspetterei che esprimessero qualche cosa che mi piaccia e che mi ridia morale. È vero che certe volte, discutendo con alcuni di loro, non vorrei cadere nella sfiducia dei vecchi… Ma mi capita di ascoltare un certo politichese anarchico che mi scoraggia.
Invece, quando in facoltà vedo una studentessa che scopre di colpo qualcosa, anche se non riguarda Proudhon o chissà chi, ritrovo la speranza. Non è per forza nell’ambito libertario che si può vivere questa esperienza. Quello che mi ha fatto più piacere a proposito del mio libro è stato un articolo dove si diceva che forse, dopo averlo letto, gli anarchici avrebbero riso delle proprie vecchie dispute, della propria mancanza di spirito, dei propri arroccamenti ideologici. Se fosse vero e se la speranza libertaria rinasce, anche negli ambienti anarchici, questo sarebbe più che bastante a mettermi di buonumore.

Domenico “Mimmo” Pucciarelli
(traduzione dal francese di Guido Lagomarsino)