rivista anarchica
anno 32 n. 284
ottobre 2002


teatro

Antigone al cretto di Gibellina
testo di Cristina Valenti
foto di Gigi Spedale

 

Guerre fratricide, destini di morte, sacrificio di chi rifiuta il potere e le sue leggi. L’ultimo spettacolo di Alfonso Santagata nella notte siciliana.

Il teatro di Alfonso Santagata è teatro di apparizioni: ma non eteree, effimere, inconsistenti; bensì concrete, disarmoniche, ingombranti. E i suoi fantasmi hanno corpi pesanti ad abitare notti che consentono di indagare ciò che è vietato al giorno: sentimenti e conflitti non disciplinati, esclusioni non riconciliate, eccessi normalmente spinti ai margini del paesaggio diurno. Nella notte di Santagata il teatro si fa luogo di ritorni: dove i personaggi tragici ritessono incessantemente le loro vicende individuali rendendo leggibile la storia collettiva come ossessione e rivelazione, perdita e appartenenza.

Il racconto dell'accecamento di Edipo: l'onnagata (Sergio Licatolosi)

Benvenuti nell’Ade

Tragedia a Gibellina, spettacolo che ripercorre le vicende della stirpe di Edipo sintetizzando almeno quattro testi tragici, potrebbe essere letta come una feroce parodia del turismo di massa, che tutto avvicina, tutto spiega, tutto consuma, lasciando sostanzialmente indifferente il visitatore.
Una parodia tutt’altro che bonaria, che funziona per ribaltamenti e svela infine al turista-spettatore l’esperienza del viaggio come rischio.
Il cretto di Burri, a Gibellina, è un manto di cemento steso a modellare un triangolo declinante che era stato una città, prima che il terremoto del ’68 la radesse al suolo. Resta il reticolo delle strade, solchi scavati ad altezza d’occhi, che interrano il corpo di chi vi cammina e lasciano lo sguardo libero di vagare su un vuoto baluginante di immagini.
Qui, il pomeriggio, abbiamo visto arrivare turisti in visita ai ruderi. Famiglie e coppiette dagli sguardi veloci, due passi sul cretto, il tempo di scattare una foto ricordo e via. La sera, lo spettacolo, come una visita guidata. Ma una visita notturna, alla quale si accedeva superando una sorta di dogana, con tanto di barriera e torretta di avvistamento, dalla quale venivano urlati comandi incomprensibili. In alto, una scritta illuminata al neon: “Benvenuti nell’Ade”.
Il primo ribaltamento: come se la gita non avesse come meta la superficie dei ruderi, ma il sottosuolo del manto di cemento, il regno dei morti. La parodia si svela nel segno del teatro, che quando imita il mondo ne rovescia l’immagine e invita a prestar fede all’inesistente. Così, da adesso in poi, chi intende partecipare alla gita è tenuto a sospendere ogni patto di verosimiglianza, a credere che le apparizioni siano possibili, come a teatro, come nell’altro mondo, come nell’utopia.
Il giorno che si rovescia nella notte, il ciclo dei Labdacidi visto dall’Ade, quando la tragedia si è già conclusa e i suoi personaggi ritornano come fantasmi condannati a un destino ormai compiuto.
I turisti spettatori non trovano subito le loro guide e le perdono prima della fine del viaggio. Si tratta di una coppia che sembra provenire, almeno questa, dal mondo dei vivi, ma come sintetizzata da un sogno un po’ beffardo, dove la Sicilia è (o era) Tebe, le canzoni sono (o erano) quelle degli anni Sessanta, il maschile e il femminile si confondono, così come il tragico e il comico, il logico e l’illogico, il passato e il presente. Arrivano da una strada ai margini del cretto e sembrerebbero le uniche presenze rassicuranti del percorso, salvo rivelare tutta la devastazione di una normalità fuori luogo. A loro sono affidate spiegazioni semplici, che introducono le varie scene rendendo possibile la tragedia dei Labdacidi nelle rovine di Gibellina. Ossia il mito fondatore del ciclo tragico in un triangolo di terra che la bellezza del cretto non consente di riconciliare con la sua tragedia. Quindi tutti i miti e tutte le storie in grado di risuonare (ri-cantare è il significato etimologico di parodiare) in ogni più piccola porzione di mondo, ad uso delle diverse generazioni.

La scena del funerale: Antigone (Daria Panettieri), a sinistra , e Ismene (Chiara Di Stefano)

Tutto normale

Le guide dei ruderi (un po’ Ciprì e Maresco grottescamente agghindati, un po’ apparizioni felliniane di strampalata poesia) in una cosa sicuramente appartengono all’universo contemporaneo della comunicazione: che con le loro spiegazioni rendono tutto normale e tutto sistematicamente incomprensibile. Normali e quindi accettabili i destini di morte, le guerre fratricide, le città assediate, il sacrificio di chi rifiuta il potere e le sue leggi… normale che tutto questo accada (o sia accaduto), qui come altrove: spazio per domandarsene il perché non c’è proprio, occorre spostarsi per fare luogo alle apparizioni (“Arràssate che arriva Tiresia”) e camminare veloci per raggiungere i vari episodi. Nella distanza indifferente del percorso turistico, prende corpo l’esperienza dello spettatore, che si fa viaggio personale, avvicinando la quotidianità e il mito, per attraversare la commozione e l’indignazione suscitate da vicende di oggi che hanno compiuto il loro esito millenni fa.
La gita racconta la favola, e il viaggio personale percorre le lande mai pacificate della tragedia naturale e di quella mitica: entrambe ineluttabili eppure mai accettate. E nello spazio della non accettazione avviene il teatro. Personaggi che continuano a cercare di prendere in mano il proprio destino, oltre il volere degli dèi e il potere degli uomini, e spettatori che continuano a credere che ci possa essere un qualche scampo, come se tutto stesse accadendo per la prima volta sotto i loro occhi (come nella convenzione del teatro). In questo margine, tracciato fra inevitabilità e rifiuto, interviene il teatro di Alfonso Santagata, che si fa spazio senza riguardo tra le vicende del mito, trasformando le parole in proclami, i silenzi in urla, lo sgomento in maledizione, e facendo agire creature per più versi in bilico, che tengono dell’uno e dell’altro sesso, prese nei lacci delle leggi eppure non asservite, consapevoli del proprio destino e comunque decise a combatterlo.
Tutto normale: ci spiegano le guide, e ci mostrano brandelli di storie che irrompono senza la grazia della finzione.
Edipo alla disperata ricerca dell’assassino del padre Laio, è un tiranno che parla dall’alto della piazza di Tebe con la voce stentorea e rassicurante del potere. Che infierisce su chi ha la capacità di rileggere il passato prevedendo il futuro: in questo caso l’indovino Tiresia, ossia chi non partecipa alla visione ufficiale delle cose, chi sa interpretare il futuro avendo memoria del passato (come oggi, come sempre: la definizione di Cassandra non viene forse data a chi si sottrae al coro delle ragioni dei potenti per denunciare i rischi del pianeta? E i grandi del mondo che si riuniscono per riflettere sui guasti dello sviluppo insostenibile non dovrebbero, come Edipo, scoprire in se stessi le colpe della rovina già in atto, anziché criminalizzare i Tiresia di turno?). Edipo partecipa alla tortura del servo (sbirciata dal pubblico attraverso le finestre di un edificio semidistrutto), colpevole depositario di quel temibile strumento di destabilizzazione che è la memoria. Poi, dopo essersi inflitto da sé la propria pena, è la fedele e ribelle Antigone che ne raccoglie la confessione rabbiosa, sulle note salmodiate di un canto e le distorsioni di una chitarra rock.
Giocasta, rievocata (e sdoppiata) da una figura di onnagata orientale, rivive in terza persona la tragedia di Edipo facendo danzare nel suo corpo le opposizioni di maschile e femminile e racchiudendo in un unico gesto la procreazione e l’accecamento, l’incesto e le sue conseguenze.

La scena del funerale: Antigone (Daria Panettieri)

Morti incomprensibili

Il coro delle donne di Tebe, un po’ prefiche oranti un po’ fanciulle ribelli, compiange la “misera sorte dei mortali” e invoca l’intercessione di “Zeus padre” disegnando ritmi e movenze ossessive dall’alto di una rupe.
Lo scontro fra Eteocle e Polinice. Un microfono lanciato come arma per proclamare ragioni speculari, che rimbalzano le une nelle altre chiamando in causa una madre distante, che a sua volta si appella alla dea dell’ambizione per assumerne forse la figura, in un tango danzato a turno con l’uno e l’altro dei figli. Non c’è differenza (né farà differenza Antigone), e nei passi finali i due fratelli si trovano avvinghiati come nella stessa danza mortale.
E sul cretto, di fronte alla battaglia fratricida, si apre lo spazio della tragedia collettiva, ossia il teatro del mondo. Lì avviene la guerra contro Tebe, che leggiamo nei fuochi a distanza e sentiamo dalle parole dei messaggeri che arrivano trafelati dalle sette porte: chi in vespa, chi a cavallo, chi a piedi. Come vengono raccontate le guerre oggi, attraverso indecifrabili immagini luminose. Come sempre si sono svolte.
E quindi le due sorelle Antigone e Ismene – vero coro dello spettacolo, forse – appaiono distanti dai luoghi dell’azione fino alle ultime scene, a significare che la storia delle guerre è meglio compresa dalle donne e da quanti restano a casa. Sono loro a leggerne l’assurdità e ad affermare la necessità di credere in altre leggi. Sono loro che commentano i fatti, aderendovi loro malgrado, con la forza di chi, nell’oscurità, dà la vita e veglia la morte.
Antigone sacerdotessa e partigiana, che trascina il corpo del fratello in montagna, fra i cespugli, se lo carica in spalla nella lontananza del cretto mentre tutt’attorno ardono le fiaccole degli eserciti, e gli prepara il rito funebre, lo veglia, lo lava, lo asperge di terra.
Ismene che urla il nome della sorella dal crinale della collina, esile e ostinata figurina della notte, per poi comparire nel rito funebre, a farci provare il panico della minaccia, del pericolo al quale sarà impossibile sottrarsi, facendoci rabbrividire di fronte alla calma, solenne ieraticità dei gesti di Antigone. Due figure femminili che restano separate da tutto, che appaiono in alto, mentre altre vicende avvengono, quelle importanti, che scrivono la storia. Finché l’incontro con la storia non avviene: Antigone è trascinata via dalle guardie, processata da Creonte, il nuovo potere (che già ha scacciato Edipo dalla città, facendo irruzione su un’automobile che spara musica rock dallo stereo), infine uccisa, non prima di aver pronunciato le sue inutili irremovibili parole “Sono nata per condividere l’amore, non l’odio”.
Antigone porta nello spettacolo l’unico corpo morto, simbolo di tutte le morti e di tutti i conflitti di potere. Ed è lei a farsene carico, incarnando la pietas e anche la tracotanza, il peccato di hybris contro gli dèi e di non sottomissione alle leggi degli uomini.
Figura femminile e maschile insieme. Come molte in questo spettacolo. Fuochi lontani, invocazioni vicine. Tutti i morti evocati dal manto di cemento del cretto steso su tante morti altrettanto incomprensibili. Perché non c’è ragione nella natura che si fa feroce, né nell’uomo che gareggia con la natura in crudeltà e cecità.
Le guide non ci sono più, né ci sono più turisti, d’altro canto. Tutte creature dell’Ade, anche noi spettatori, cui è regalata l’ultima immagine di Edipo, seduto sul paracarri della strada che porta fuori, proprio quella dalla quale erano giunte le guide, gli occhi anneriti dalla cecità che si è inflitto, che chiama Antigone, la quale lo raggiunge fanciulla ed accenna giochi infantili per poi guidarlo nella notte, lontano dalle rovine della storia che ci è stata consegnata come memoria pesante.
La sbarra della dogana è aperta. Una scritta al neon illumina l’insegna dall’interno, perché la leggiamo uscendo: “Arrivederci all’Ade”.

Cristina Valenti

La lotta fratricida: Eteocle (Mariano Nieddu), a destra, e Polinice (Roberto Serpi)

 

La compagnia Katzenmacher

La Compagnia Katzenmacher diretta da Alfonso Santagata ha presentato Tragedia a Gibellina alle Orestiadi di Gibellina dal 21 al 24 agosto 2002

interpreti:
Antonio Alveario e Enzo Vetrano (i narratori)
Chiara Di Stefano (Ismene, Giocasta)
Johnny Lodi (Tiresia, messaggero)
Sergio Licatolosi (Onnagata, messaggero)
Mariano Nieddu (Eteocle)
Daria Panettieri (Antigone)
Francesco Pennacchia (Creonte)
Alfonso Santagata (Edipo)
Roberto Serpi (Polinice)

e con gli attori provenienti dal laboratorio condotto da Alfonso Santagata a Gibellina:
Salvatore Bonanno, Nicolò Di Paola, Andrea Ruggieri, Giuliano Scarpinato (guardie, messaggeri)
Daria Castellini, Anna Ceraulo, Valentina Gristina, Isabella Ragonese (coro)

assistente alla regia: Chiara Senesi
responsabili tecnici: Tommaso Checcucci, Salvo Di Martina
testo, ideazione e regia: Alfonso Santagata