rivista anarchica
anno 32 n. 284
ottobre 2002


lettere

 

Dossier Serantini che palle?

Ho letto con avidità e ripetutamente il dossier sulla vicenda di Franco Serantini e a onor del vero l’ho trovato interessantissimo e per niente “palloso”.
Quando fu ucciso dagli sbirri, io avevo sei anni, e quindi ho potuto ricostruire un pezzo di storia italiana, ma soprattutto ripercorrere virtualmente, tra pugni stretti per la rabbia e orecchie attente a non perdere neanche una sillaba, le esperienze incredibili di migliaia di giovani, uniti da passioni e sentimenti comuni.
Mai dimenticare il passato, e quindi la propria memoria! Se avessimo conservato tutto ciò, oggi forse non ci troveremmo a parlare di “golpe bianchi” e fascismi latenti.
Ben vengano le pagine di storia, quella mai insegnata a scuola ad esempio!
Chi non desidera leggerle, gira pagina e va avanti. Non vedo dove sta il problema!
Stesso discorso vale per i dossier su Pinelli e su Malatesta, molto apprezzati da alcuni miei amici (…)

Roberto P.
(Roma)

Ciao Aurora, ciao Paolo, sono Colby e volevo iniziare con un complimento sull’inserto del numero scorso su Franco Serantini. Chi vi ha scritto “che palle”? Come per Pinelli la vicenda di Serantini ha formato tanti di noi ed era importantissimo dargli quel risalto (…)

Colby
libera.mo@libero.it

 

A fianco di...

Carissima redazione di A, è da tempo che seguo, fedelmente direi, la vostra rivista a cui sono anche abbonato da qualche anno, e l’ho sempre trovata una rivista ricca di contributi utili, e aperta giustamente in modo antidogmatico, verso altre istanze ed opinioni. Una bella e fondamentale rivista, almeno per me, anche se qualche volta, soprattutto negli ultimi tempi, ho notato qualche caduta di tono in certi contributi ed articoli.
In ogni caso “nessuno è perfetto” e mi bastavano i lucidi articoli di Accame e Oliva, gli interessantissimi reportage dal Sudamerica e i volantoni (ed altro ancora, of course) per sorvolare su piccoli difetti. È anche per questo che sono rimasto colpito in modo del tutto sfavorevole dal comunicato diffuso dai “gruppi anarchici imolesi” pubblicato in terza pagina del numero 281 quale editoriale e da voi sottoscritto in modo, forse, un po’ incauto. In effetti tale comunicato è composto più che altro da una serie di frasi messe lì senza alcun apparente nesso logico,e soprattutto, senza alcun rapporto alla realtà storica e politica internazionale, ispirato da una discutibile “equidistanza” e caratterizzato da quello che appare come un settarismo del genere “facciamo vedere quanto siamo più bravi degli altri” che secondo me trova veramente il tempo che trova. In effetti nei territori occupati (sottolineo, occupati) della Cisgiordania non c’è una guerra fra Stati ma una occupazione illegale di un esercito di uno Stato che impedisce da 50 anni la nascita di una amministrazione realmente autonoma, come era previsto dal piano dell’ONU fin dal 1948. Non ci sono due eserciti in guerra ma un esercito occupante.
Non ci sono delle “fazioni in lotta” ma uno degli stati più potenti militarmente, dotato di bomba atomica, appoggiato dall’unica superpotenza mondiale, nonché da tutto il mondo occidentale, con tutto il potere massmediatico occidentale e tutta la forza dell’economia mondiale globalizzata che opprime, non solo in termini prettamente militari, ma anche amministrativi ed economici, nonché culturali la popolazione locale. Tale oppressione, spacciata e giustificata dalla lotta contro il “terrorismo” dove il terrorismo sono naturalmente solo i morti israeliani nei cosiddetti attentati-kamikaze, e non le migliaia di palestinesi compresi centinaia di bambini, che sono stati ammazzati in modo meno clamoroso ma in modo ben più massiccio molto prima che iniziassero i famigerati attentati, (cioè circa cinque mesi dopo l’inizio della nuova intifada), comprende la distruzione di case, orti, alberi da frutto, l’esproprio di edifici, la sottrazione di terra, acqua, la perdita di migliaia di posti di lavoro, l’espulsione lenta e inesorabile di migliaia di palestinesi che vengono sostituiti da altrettante migliaia di israeliani, generalmente provenienti da paesi dell’est europeo, e quindi a loro volta affamati di terra, lavoro, denaro e dignità, e la cui disperazione viene usata dal governo di Israele per portare a termine una vera e propria “pulizia etnica” se per pulizia etnica si intende la sostituzione forzata di una popolazione di una etnia con la popolazione di un’altra etnia.
Certamente gli attentati che colpiscono persone disarmate e innocue mentre si recano al lavoro sono esecrabili, ma mi pare pura faziosità metterli sullo stesso piano di una violenza che non colpisce episodicamente ma strutturalmente e continuamente.
Leggiamo cosa dice Jeff Halper, un israeliano membro del Centro di informazione alternativo, riferendosi alla politica del Primo ministro israeliano Sharon, (ma anche dei suoi predecessori) a riguardo della politica di questi ultimi anni di “negoziati di pace”:
Prima, lei crea grandi aspettative. Strette di mano sul prato della Casa Bianca. Una retorica della pace (“Non più guerre. Non più spargimenti di sangue “). Elezioni, dandogli una loro propria bandiera. Poi riunioni segrete, riunioni al vertice, cene, ritiri, trattati di pace, accordi provvisori, promesse, allettanti benefici di fronte ad occhi affamati. Più strette di mano, più “gesti”. (...)
Poi, mentre parla di pace ad Oslo, Washington, Parigi, il Cairo, Wye Plantation, Stoccolma, Amman, Camp David, Sharm, lei “crea azioni” sul terreno che assicurano insieme un vostro controllo continuato e un pregiudizio alle negoziazioni. Lei sfrutta gli ultimi sette anni dalla firma degli Accordi di Oslo per:
1. Smembrare la West Bank in “Aree A, B e C,” dando all’Autorità palestinese il pieno controllo di solamente il 18% della terra, mentre trattiene il suo controllo sul 61%; dividere la striscia di Gaza in “ aree gialle, bianche, blu e verdi”, consegna a 6.000 coloni il controllo del 40% del territorio confinando 1.000.000 di Palestinesi nel rimanente; e taglia completamente Gerusalemme Est dalla gran parte della società palestinese;
2. Espropriare 200 chilometri quadrati di fattorie e terra da pascolo dai suoi proprietari palestinesi per i suoi insediamenti esclusivi, superstrade ed infrastrutture;
3. Sradicare 80.000 olivi e alberi di frutta che sbarrano la strada ai suoi progetti di costruzione, mentre impoverisce con questo i loro proprietari e li trasforma in lavoratori a giornata nel suo mercato del lavoro – sempreché loro possano avere accesso al suo mercato del lavoro;
4. Aggiungere qualcosa come trenta insediamenti, incluso città intere come Kiryat Sefer e Tel Zion, alle dozzine di insediamenti che già esistono nei Territori Occupati e sui quali già si negozia e costruiscono 90.000 nuove unità abitative in Gerusalemme Est e nuovi insediamenti esclusivamente per la sua popolazione;
5. Demolisce più di 1.200 case delle persone con cui lei sta negoziando la pace;
6. Raddoppia la sua popolazione di coloni oltre il confine del 1967 a 400.000, il 90% di ciò che lei già ha deciso rimarrà sotto la sua sovranità anche se lei non ha ancora negoziato ciò con l’altra parte;
7. Comincia la costruzione di 480 km di superstrade e “tangenziali” che servono i suoi insediamenti mentre seziona il territorio futuro del suo partner di pace nelle piccole isole sconnesse, prevenendo con ciò la comparsa di un altra vitale e competitiva economia alla porta accanto; (...)
9. Sfrutta le loro risorse naturali, mentre unilateralmente ed illegalmente preleva, per esempio, il 25% dell’acqua del suo paese dalle falde acquifere dei suoi vicini di casa mentre li lascia nella sete per mesi e mesi;
10. Danneggia la loro campagna e l’ambiente, (...)
Poi, lei aspetta fino a che la sua occupazione è divenuta irreversibile e globale, finché avrà integrato le sue due economie sotto il suo controllo, le griglie elettriche, le superstrade e le infrastrutture urbane, finché avrà assorbito completamente l’economia e la società del suo partner nella sua. Poi lei annuncia che il suo concetto della pace è “ separazione “, e lei chiude a chiave i suoi vicini di casa in alcune piccole isole, mentre porta via l’ultima speranza che loro hanno per un futuro migliore, per un vero paese e una loro propria identità. Lei li tiene stretti sotto il suo controllo, mentre restringe il loro spazio vitale, mentre li umilia e li molesta – fino a che la rivolta finalmente esplode.
Poi lei racconta la sua storia al mondo: come ha tentato di negoziare, come sia stato “generoso”, come abbia ricercato la pace, e come sia stato deluso dal fatto che “loro” la delusero. Come “loro” ripagarono le sue buone intenzioni con le pietre, come “loro” non siano partner per la pace, come “loro” non siano ancora pronti per la pace. E così, finché loro non sono d’accordo a finire la loro violenza contro di lei e ritornare allo stesso tavolo negoziale che le ha permesso di costruire la sua base di controllo in questa prima fase, allora lei ricorre alla forza – forza difensiva, chiaramente, siccome “loro” sono gli aggressori. I più moderni sistemi d’arma americani, cecchini, chiusure fino alla fame, cancellazione di migliaia di acri di terra agricola, la distruzione di centinaia di case... Finché loro non recepiscano il messaggio.

Questo mi pare renda l’idea di quello che sta succedendo in Palestina. Nel comunicato si parla di fazione in lotta per il potere, arrivando a negare che vi sia una lotta tra uno stato che opprime ed una popolazione che è oppressa. Le responsabilità vengono per così dire “equamente divise” senza curarsi minimamente, come fosse dettaglio irrilevante, di chi sia l’oppresso e chi l’oppressore, e di quali siano le dinamiche che hanno portato alla attuale situazione. Tale modo di vedere le cose è del tutto in linea con il modo in cui i mass-media si son interessati al Medioriente, cosa che è avvenuta solo nel momento in cui hanno iniziato ad esserci e poi ad aumentare le vittime del terrorismo palestinese, perché fino a quando i morti erano soltanto palestinesi l’attenzione era minima e le notizie venivano derubricate sotto il generico titolo di “violenze in Medioriente”. Né appare convincente la lettura dello scontro come di una lotta creata per semplici ragioni di equilibrio interno,che sarebbe un poco come spiegare la Resistenza italiana con gli equilibri o le beghe interne del CLN.
Notevole poi l’inesattezza laddove si sostiene che la pace “non è negli interessi della destra israeliana”, lasciando intendere che la sinistra israeliana ne avrebbe di più, bisognerebbe capire dove stia il grande interesse della sinistra israeliana, dal momento che Peres è ministro degli esteri e appoggia nei fatti in toto la politica di Sharon.
Tra l’altro è assolutamente straordinario che in questo comunicato non si parli assolutamente di coloro, sia arabi sia israeliani, che lottano per la pace, in particolare che non si parli dei riservisti obiettori di coscienza, il che è, per chi si dichiara antimilitarista, piuttosto stravagante. Vista la vostra dimenticanza riporto la dichiarazione di obiezione di un riservista:

Al Ministro della Difesa Ben Eliezer

Un ufficiale ai suoi ordini mi ha inflitto oggi ventotto giorni di prigione militare per il mio rifiuto a prestare il servizio di riserva obbligatorio.
Io non mi rifiuto di servire solo nei Territori Occupati Palestinesi, come ho fatto negli ultimi quindici anni, ma io rifiuto di servire nell’esercito israeliano in ogni forma.
Fin dal 29 settembre del 2000 l’esercito israeliano ha condotto una “sporca guerra” contro l’Autorità Palestinese. Questa guerra sporca include esecuzioni extragiudiziali, omicidi di donne e bambini, distruzione delle infrastrutture economiche e sociali della popolazione palestinese, l’incendio di terreni agricoli, lo sradicamento sistematico degli alberi.
Voi avete seminato terrore e disperazione, ma non siete riusciti a raggiungere il vostro obiettivo fondamentale: il popolo palestinese non ha rinunciato ai propri sogni di sovranità e indipendenza. Né tantomeno avete dato sicurezza al vostro stesso popolo, malgrado tutta la violenza distruttiva dell’esercito, del quale lei è responsabile.
Alla luce del vostro grande fallimento, noi siamo ora testimoni di un dibattito intellettuale tra Israeliani della peggiore specie: una discussione circa la possibile deportazione e l’omicidio di massa dei Palestinesi.
Il fallito tentativo dei leaders del Partito Laburista di imporre un accordo al popolo Palestinese ci ha trascinato in una “sporca guerra” per la quale i Palestinesi e gli Israeliani stanno pagando con la loro vita. La violenza razzista dei servizi di sicurezza israeliani, che non vede persone, ma solo “terroristi” ha aggravato il circolo vizioso della violenza per entrambi, Palestinesi e Israeliani.
Anche gli Israeliani sono vittime in questa guerra. Sono vittime della scellerata ed errata aggressione dell’esercito di cui lei è il responsabile. Anche quando lei ha intrapreso i più terribili attacchi contro il popolo palestinese, non ha compiuto il suo dovere: dare sicurezza ai cittadini Israeliani. I tanks a Ramallah non hanno potuto fermare la sua più mostruosa creazione: la disperazione che esplode nei caffè. Lei, e gli ufficiali militari ai suoi ordini, avete creato degli esseri umani la cui umanità sparisce nella disperazione e nell’umiliazione. Voi avete creato questa disperazione e voi non potete fermarla.
Mi è chiaro che lei ha rischiato tutto nella sua vita solo perché continui la costruzione illegale e immorale degli insediamenti, per Gush Etzion, Efrat e Kedumim: per il cancro che consuma il corpo sociale israeliano. Negli ultimi trentacinque anni gli insediamenti hanno trasformato la società israeliana in una zona pericolosa. Lo stato israeliano ha seminato disperazione e morte tra gli Israeliani e i Palestinesi.
Per questo io non voglio servire nel suo esercito. Il suo esercito, che chiama se stesso “Israeli Defence Force” (Forza di Difesa di Israele) non è niente di più che il braccio armato del movimento delle colonie. Questo esercito non esiste per dare sicurezza ai cittadini israeliani, esiste per garantire che continui il furto della terra Palestinese. Come Giudeo io mi ribello ai crimini che questa milizia commette contro il popolo Palestinese.
È mio dovere, come Giudeo e come essere umano, rifiutarmi nel modo più categorico di avere un ruolo in quest’esercito. Come figlio di persone vittime dell’olocausto e della distruzione, non posso avere un ruolo nella vostra politica insana. Come essere umano è mio dovere rifiutarmi di partecipare a qualsiasi istituzione che commette crimini contro l’umanità.
Sinceramente suo,
Sergio Yahni

Mi pare che questa lettera dica molto di più di tanti discorsi, mi pare anche che sarebbe bastato pubblicare questa lettera, per avere una presa di posizione chiara e condivisibile da un punto di vista pacifista e libertario, piuttosto che comunicati di stampo settario. Tra l’altro questa lettera accenna ad una possibilità purtroppo non troppo remota, ovvero quella della deportazione, o della cacciata dei Palestinesi persino dalla Cisgiordania. Secondo lo storico militare israeliano Van Creveld, in una intervista riportata dal giornale inglese “The Telegraph”, il piano di Sharon è di spingere due milioni di Palestinesi dall’altra parte del Giordano usando il pretesto di un attacco americano all’Irak o di una offensiva terroristica in Israele. In questo caso, o anche in caso di rivolta in Giordania o di una più estesa campagna terroristica, Israele attaccherebbe gli insediamenti palestinesi, schiererebbe le sue divisioni ai confini per evitare attacchi da parte araba (peraltro improbabili) occuperebbe anche i villaggi araboisraeliani e poi a colpi di artiglieria distruggerebbe tutte le principali città palestinesi, costringendo la popolazione alla fuga.
Mi pare di aver spiegato per quali ragioni, quindi, io non sottoscrivo affatto questo comunicato, e perchè mi sarei aspettato altrettanto da voi. Io sto dalla parte delle popolazioni oppresse dal Tibet all’Amazzonia all’Irlanda del Nord alla Palestina. Infine, ho il sospetto che in fondo quel comunicato abbia poco a che vedere con il Medioriente o la pace o altro, ma molto di più con gelosie e polemiche del tutto italiane.
Più che di polemiche sterili si avrebbe bisogno di informazione, e credo che il compito di un giornale, di una rivista, sia soprattutto questo, più che quello di lanciare o sottoscrivere proclami.

Paolo Scarioni
(Milano)

 

Dubitando ad veritatem pervenimus

Rispondo alle osservazioni di Patrizio Biagi (“Ipse dixit”, numero 283 di A) relative ai miei interventi passati (1).
Non ho ben compreso chi sia questo “Ipse” che “dixit”, ma se è riferito alla mia modesta persona, preciso che non è mia intenzione assurgere a novello Aristotele dell’anarchismo. Con i mie scritti ho inteso soltanto portare una voce discorde al coro di quanti su A vituperavano i ribelli delle giornate genovesi con toni, a mio parere, al di sopra delle righe; questo, unicamente nell’intento di contribuire ad un dibattito sereno che coinvolgesse gli anarchici su temi importanti come quello della rivolta, con cui – volenti o nolenti – ci troveremo sempre a confrontarci.
Confesso che quando ho letto la replica di Francesco Berti (“Talebani anarchici? No grazie”, n. 280) mi sono risentito per il tono da lui usato: non si denigra l’avversario solo con gli insulti e le parolacce ma si può essere offensivi anche usando un linguaggio pacato ma al tempo stesso farcito di giudizi lapidari (talebano, fondamentalista, necrofilo estetizzante, ecc.) che – credo – non siano il massimo dei complimenti per un anarchico. Avrei potuto rispondere alla stessa maniera, ho preferito un altro stile: usando quella che a Patrizio è sembrata “la bonarietà che contraddistingue il maestro nei confronti dell’allievo un poco testone”.
Conosco Francesco e so che, sebbene io sia di un’altra generazione, non ha nulla da imparare da me, ma volevo semplicemente additare (a lui e agli altri lettori) altri campi di riflessione.
Evidentemente su una questione complessa come quella delle giornate genovesi gli esempi storici potevano servire solo a dimostrare come in generale gli anarchici, posti di fronte ad eventi simili, abbiano reagito diversamente da come si sono espressi i redattori di A. Non potevo certo, in quel frangente, addentrarmi anche nella metodologia della ricerca storica.
Quando scrivo: “Leggiti i rapporti di polizia e le cronache sui quotidiani dell’epoca”, inevitabilmente mostro il fianco a Patrizio che subito si chiede: “Come mai le fonti giornalistico-poliziesche di cui in alcuni casi bisogna diffidare, come della peste, in altri possono essere accettate tranquillamente? Sembra esservi una certa elasticità di metodo o sbaglio?
Ti rassicuro, caro Patrizio: nessuna “elasticità di metodo”. Delle “fonti giornalistico-poliziesche” bisogna sempre “diffidare”. Ma restano pur sempre delle fonti, che, dopo le opportune verifiche, possono contribuire alla comprensione di quanto è avvenuto (2).
Lo stesso esempio da te riportato (tratto dal libro di Vincenzo Mantovani, Mazurca blu) rivela senza dubbio da parte del funzionario di polizia che lo ha compilato un’esagerata fantasiosa propensione al complotto, dovuta evidentemente alla deformazione professionale. Ma questo non dimostra assolutamente che la cospirazione in oggetto non sia avvenuta del tutto, anzi per lo storico questo rapporto può costituire una traccia preziosa che, se seguita a fondo, può portare a scoprire la verità (o almeno una parte di essa).
Avevo rapporti con i soldati, – dichiara in un’intervista Corrado Quaglino redattore del quotidiano Umanità Novavenivano giù e mi riempivano una borsa di pelle sgangherata… me la riempivano di pallottole. Io la prendevo sotto il braccio e andavo alla redazione di Umanità Nova a piedi. Poi un altro mi portava il moschetto avviluppato nel giornale che sembrava una scopa. Io lo prendevo e lo portavo lì” (3).
Come vedi, comparando la fonte poliziesca con una fonte anarchica, il rapporto di questura appare leggermente meno fantasioso e potrebbe persino contenere qualche probabile cenno di veridicità (per lo meno sul fatto che i soldati passassero le armi agli anarchici).
Lo stesso vale per i quotidiani. Che su di un evento riportino versioni inesatte o inventate di sana pianta non significa affatto che l’episodio in questione non sia mai accaduto. Quindi anche una cronaca di parte può servire come traccia per lo storico, che naturalmente non la prenderà per buona ma la seguirà fino in fondo, verificando i limiti della sua fondatezza e analizzandone altre di diversa provenienza.
Ma vi è un’altra questione che mi preme sottolineare: se io invito Francesco a leggere “i rapporti di polizia e le cronache sui quotidiani dell’epoca” è perché, purtroppo, sono le uniche fonti accessibili di una storia che non è mai stata scritta. Pur essendovi una relativa abbondanza di studi sulla storia dell’anarchismo italiano, la maggior parte sono opere generali, incentrate sull’azione del movimento o sull’attività di personaggi di grande rilevanza storica (primo fra tutti Errico Malatesta), di militanti che hanno avuto un ruolo di primo piano. A questo si aggiunga la necessità di ribaltare l’immagine caricaturale dell’anarchico esaltato sempre con la bomba sotto la giacca dipinta dagli storici di regime, necessità che ha spinto anche gli storici con simpatie nei confronti dell’anarchismo a non interessarsi più di tanto a quella miriade di piccoli episodi di rivolta quotidiana che vedevano implicati di volta in volta singoli anarchici. Questi episodi di rivolta, pur non trattandosi di gesti isolati ma facenti parte di una strategia generale collettiva, sono stati in certa misura rimossi persino dagli storici anarchici, i quali nell’indagine storica si sono lasciati inconsciamente condizionare dal loro presente militante che ha ormai completamente esorcizzato la violenza rivoluzionaria. Tutto questo ha contribuito a creare l’immagine di un movimento anarchico sempre sulla difensiva, che veniva sempre represso in tutti modi senza mai reagire. Lo stesso vale per le rivolte popolari, le insurrezioni generalizzate che, oltre alle barricate, hanno sempre visto atti vandalici, distruzioni, furti e saccheggi; episodi, se non taciuti, per lo meno sempre frettolosamente sorvolati dagli storici di sinistra. Solo una precisa ricostruzione storica, località per località, dei singoli atti di rivolta che si sono succeduti, eventi anche minimi sul profilo della storia grande ma che spesso sono costati anni di galera ai protagonisti, una ricostruzione che sia sì scevra da sensazionalismi da rotocalco, ma al tempo stesso priva di abbellimenti e verità taciute, potrà renderci nuovamente nitida l’immagine di un movimento come quello anarchico in cui, quantunque vi siano indubbiamente state figure degne di rilievo sul piano storico, ha potuto vivere e operare incisivamente solo grazie all’azione congiunta di migliaia di militanti ormai completamente scomparsi nell’anonimato, militanti che, anche se non sono stati in grado di elaborare in prima persona complesse analisi teorie o strategie degne di attenzione, hanno comunque portato avanti quotidianamente e con grande abnegazione l’azione rivoluzionaria. Un valido contributo in questa direzione spero potrà dare il progettato dizionario biografico degli anarchici italiani attualmente in fase di elaborazione (4).
Per questi motivi sono dunque costretto ad invitare a leggere “i rapporti di polizia e le cronache sui quotidiani dell’epoca”, che, nonostante l’abbiano sempre falsata e denigrata, sono ormai (se si escludono le purtroppo scarse fonti memorialistiche e orali) gli unici depositari di questa storia (5).
Vengo ora all’altra questione posta da Patrizio.
“Tobia asserisce, contraddicendo Zingarelli, che: Eticamente non è anarchico solamente chi riconosce allo Stato il diritto ad esistere. Vi sarebbero quindi, secondo Tobia, anarchici che riconoscono allo Stato il diritto ad esistere e anarchici che non riconoscono allo Stato il diritto ad esistere!”
Lo Zingarelli è semplicemente un vocabolario della lingua italiana (6) e penso che non spetti ai suoi estensori stabilire cosa sia l’anarchismo, competenza – questa – esclusiva degli anarchici.
So benissimo quanto il concetto da me enunciato (la mera abolizione dello Stato) sia estremamente riduttivo e che l’anarchismo è in realtà composto da moltissimi altri stuzzicanti ingredienti (libertà, eguaglianza, solidarietà, diversità, tensione utopica, ecc.) ma non era mia intenzione spiegare a nessuno cos’è l’anarchia. Con la mia affermazione volevo soltanto sottolineare l’estrema difficoltà per qualsiasi anarchico di stabilire i confini oltre i quali altri individui non hanno il diritto di definirsi tali. Essendo il panorama anarchico talmente variegato e variopinto con sempre nuove tendenze che si sommano a quelle del passato (ultima in ordine di tempo: il primitivismo) credo che l’unica discriminante, che costituisce anche una sorta di denominatore comune per tutti, sia la volontà di abolire lo Stato. Solo chi ne propone la trasformazione graduale o la sua ricostruzione, anche se in forma temporanea (dopo l’abbattimento), non ha diritto di definirsi anarchico. Dico questo nella convinzione che qualsiasi potere, che potrebbe formarsi anche al di fuori dello Stato, non riuscirebbe mai a sopravvivere senza istituzionalizzarsi, cioè farsi Stato.
Per questo motivo mi sembravano forzati gli anatemi contro i Black Bloc: se essi si pongono contro lo Stato per distruggerlo e mai più ricostruirlo (come affermano nei loro proclami), a buon diritto possono definirsi anarchici, piacciano o non piacciano le vetrine rotte e le automobili rovesciate.

Tobia Imperato
(Torino)

note

1. Cfr. “Basta di piagnistei”, n. 278 e “Talebano? Ma mi faccia il piacere…”, n. 282.
2. L’importanza delle fonti poliziesche (e di quelle orali) e sul loro uso corretto nella storiografia dell’anarchismo sono stati oggetto di un seminario organizzato dal CSL G. Pinelli di Milano, che ha anche edito un quaderno a cura di Lorenzo Pezzica (“Voci di compagni, schede di polizia – Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo”)
3. Tobia Imperato, a cura di, “Ricordo di Paolo Gobetti”, Bollettino, n. 7 del CSL G. Pinelli, luglio 1996, Milano.
4. Cfr. Claudio Venza, Per un Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, Rivista Storica dell’Anarchismo, a. VIII, n. 1, gennaio-giugno 2001 e www.dizionariobiograficodeglianarchiciitaliani.it.
5. Nel corso delle mie ricerche sul movimento anarchico (ristrette nell’ambito torinese e nel periodo precedente l’avvento del fascismo) mi sono imbattuto in diversi anarchici che, in occasioni diverse, hanno gettato bombe contro gli sbirri durante manifestazioni: gesti inconsulti di pazzi esaltati o pratica collettiva di autodifesa? Sia su Umanità Nova sia sul quotidiano comunista L’Ordine Nuovo non compaiono mai parole di censura sull’operato di questi compagni in cui sono citati unicamente come vittime della repressione.
Vittorio Buresta (Bruno), nato a Loreto (AN) nel 1888, manovale, residente a Torino. Nel 1920 durante un comizio di operai metallurgici (dove tra gli oratori vi era Maurizio Garino) “gli venne trovata in tasca una bomba a mano tipo Sipe”. Viene condannato a 7 anni e 8 mesi di reclusione.
Salvatore Canu, nato nel 1895 ad Alghero (SS), operaio. “Specializzato nel lancio di bombe a mano”, arrestato nel 1920 e condannato nel 1922 a 8 anni e 9 mesi di reclusione per concorso in omicidio avendo partecipato ad uno scontro a fuoco tra carabinieri ed operai in cui venne colpito a morte un brigadiere.
Guglielmo Musso, nato ad Asti nel 1899. Nel 1920, durante uno sciopero a Torino, è ferito gravemente dallo scoppio di una bomba che si accingeva a lanciare contro dei poliziotti. È condannato a 18 anni di reclusione e morirà in carcere nel 1923 in seguito alle ferite riportate.
Antonio Mairone, nato a S. Germano Vercellese (VC) il 15 febbraio del 1900. Operaio metallurgico. Nell’aprile del 1919, durante una manifestazione, “fermato da alcune Guardie regie lancia contro di esse una bomba, ferendo due guardie”. Viene condannato a 14 anni di reclusione. Arrestato dai nazisti durante gli scioperi del marzo 1944, morirà nel lager di Mauthausen.
6. Un’interessante escursione sul tema si può trovare in Roberto Giulianelli, L’Anarchia nelle enciclopedie e nei dizionari italiani. Note sulla storia di un lemma, Rivista Storica dell’Anarchismo, a. VII, n. 1, gennaio-giugno 2000.

 

In dubiis abstine*

Mi rendo conto, leggendo la replica di Tobia, che nella mia smania di essere eccessivamente ironico forse ho posto i miei quesiti in maniera poco chiara.
Vorrei cogliere l’occasione per colmare la lacuna evidenziando alcuni punti, in merito a Dubitando ecc., e chiarendo un po’ meglio quello che intendevo dire.
1) Il titolo Dubitando ecc. mi dà l’impressione di essere più adatto ad articoli in cui si affrontano questioni di merito, per cui: “i dubbi da me posti possono contribuire al dibattito, alla stessa stregua di quelli posti da altri, e avvicinare tutti un po’ di più alla verità”. Mi sembra invece scarsamente attinente per quella che dovrebbe essere una risposta a chi ha sollevato questioni di metodo. Ma questo è solo un dubbio personale.
2) Non ho chiesto assolutamente a Tobia di rendere conto delle motivazioni che lo hanno portato a criticare le tesi dei collaboratori di “A”, sui fatti di Genova, né di riproporre le sue opinioni in merito anche perché mi pare lo abbia già ampiamente fatto, e con dovizia di citazioni, nei suoi precedenti interventi. Tornare su questi argomenti mi sembra sia stato inutilmente dispersivo e poco pertinente.
3) Non volevo mettere in discussione nessuna metodologia di ricerca storica, dal momento che personalmente non ho le basi per farlo. Né mi pare di aver chiesto “elenchi” di anarchici che, in periodo pre-fascista, andavano alle manifestazioni con bombe e pistole nelle tasche. Né tantomeno ho richiesto di sapere quali fossero state le azioni per cui venivano citati da giornali o da rapporti di polizia.
La citazione del rapporto del prefetto Pesce era solo per sottolineare che a volte funzionari e giornalisti possono fare arzigogolate fantasie partendo da cose reali, come Mantovani spiegava eccellentemente qualche riga più sotto il rapporto da lui citato.
Le disquisizioni su fatti e personaggi, che in altra sede troverebbero la loro naturale collocazione, c’entrano un po’ come i cavoli a merenda con quanto io ho evidenziato.
A maggior ragione oggi, dopo aver letto la replica di Tobia, mi chiedo perché si è scelto un esempio che nessuno aveva richiesto e perché poi, a seguito di contestazioni che nulla hanno a che vedere con fatti accaduti più di un’ottantina di anni fa, si fa una lunga dissertazione per dire che le uniche fonti, per ricostruire quegli eventi, sono quelle giornalistico-poliziesche delle quali Tobia, e su questo sono d’accordo con lui, dice che si deve sempre diffidare.
Anche questo mi sembra sia stato inutilmente dispersivo e poco pertinente.
4) Non so chi abbia sostenuto una bestialità simile (non certo io) ma non mi sono mai sognato di pensare che fosse compito degli estensori dello Zingarelli definire chi può dirsi anarchico e chi no e nemmeno stabilire che cosa sia l’anarchia.
So di essere stato un po’ fumoso ma ero partito dalla constatazione dell’assurdo che rappresentava quella frase scritta da Tobia per trovarci, infine, anche un non senso ed una discutibile carenza di metodo. Cose che volevo evidenziare ironicamente partendo dalla citazione di quelle quattro banalità che ho trovato sullo Zingarelli.
Partiamo dall’assurdo. Premetto che considero lo Stato una pura e semplice struttura politica. Questo senza entrare nel merito della sua natura e della sua azione, più o meno chiare a tutti coloro che si definiscono anarchici. Una struttura che non ha in sé alcunché di etico, se non nelle deliranti concezioni di certa destra.
Ora, se qualcuno riconosce allo Stato il diritto ad esistere non fa altro, a mio modesto parere, che compiere un atto meramente politico.
A questo punto mi sono chiesto come possa una persona essere eticamente anarchica per il fatto di riconoscere, o di negare, allo Stato il diritto all’esistenza.
Forse la misura dell’eticità di chi si definisce anarchico la si può ottenere mediante parametri affatto diversi da quelli politici. Non so quali e non voglio parlar d’etica perché ne parlerei nel modo consueto con cui tanti ne parlano: a sproposito.
Sono però in perfetta sintonia con Tobia che mi pare invitasse, non più tardi d’otto mesi fa, a non confondere l’etica con la politica, solamente una riga più in basso di Eticamente ecc.
Proseguiamo col non senso. Appurato che anche Tobia, come il sottoscritto (e forse lo Zingarelli), pensa che la discriminante per definirsi anarchico sia l’antistatalismo mi viene, nuovamente, di pensare al non senso contenuto nella frase che egli scrisse nel suo intervento. Come possa un anarchico (quindi un antistatalista per definizione unanime) riconoscere allo Stato il diritto ad esistere lo sa solo Tobia che però si è guardato bene dallo spiegarlo anche ai meno svegli come il sottoscritto.
Finiamo con il metodo. Quando ho scritto il mio piccolo intervento (sono più laconico che prolisso) intendevo porre l’accento anche su un altro aspetto, sempre rilevato all’interno della frase in questione, e cioè il riferimento a quel (o quegli?) anarchico che riconosce allo Stato il diritto ad esistere e che non avrebbe l’esclusiva su ciò che può essere ricondotto al termine di etica.
A questo punto mi aspettavo una bella esposizione atta a dimostrare, con fatti veri e documentati, come per altri casi avrebbe chiesto a gran voce Tobia, la fondatezza di quest’asserzione. Mi aspettavo un’attenta disamina di quanto scritto da altri sulla rivista e che desse la prova irrefutabile di quest’opera di riconoscimento all’esistenza dello Stato. Invece il pezzo finiva giusto due righe più sotto lasciando, come nei feuilleton di fine ottocento, quella sensazione di suspense data dal rimando ad un’ulteriore puntata. Solo che un’altra puntata non c’è stata.

Patrizio Biagi
(Milano)

* Nel dubbio astieniti, tanto per restare al latino.

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Guido Flaiani (Ascoli Piceno), 2,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 500,00; Massimo Varengo (Milano), 4,00; Luca Candellero (Torino), 20,00; Mario Perego (Carnate), 30,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo), 25,82; Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia), 20,00; Rinaldo Boggiani (Rovigo), 20,00; Massimiliano Scimé (Cisterna di Latina), 20,00; Rino Quartieri (Zorlesco), 20,00; Enzo Boeri (Vignate), 20,00; Claudio Topputi (Milano), 50,00; Gianni Pasqualotto (Crespano), 65,00; Andrea Silvestri (Vada), 20,00; Vittoria Farinelli (Ancona) ricordando il fratello Luciano, 20,00; Fernanda Bonivento (Ancona) in memoria di Luciano Farinelli, 30,00; Gabriella Zigon (Sesto San Giovanni), 5,00; Italo Quattrocchi (Firenze), 20,00; Fabio Innocenti (Vicchio), 10,00; Rosario Cinà (Palermo), 50,00.
Totale euro 951,82.

Abbonamenti sostenitori.
Alessandro Milazzo (Linguaglossa), 100,00; Livio Ballestra (Nizza – Francia), 100,00; Roberto Pietrella (Roma Vitinia), 100,00; Giancarlo Benvenuti (Firenze), 77,47 (corrispondenti a lire 150.000, versate con postagiro il 10.12.2001 e accreditateci in maggio con relativa comunicazione giuntaci in luglio, 7 mesi dopo!); Marco Valerani (Milano), 100,00; a/m Arturo Schwarz, Paolo Talso (Milano), 100,00; Federico Mellano (Sanremo); 100,00; Simona Bertola (Mondovì), 100,00; Giorgina Arian Levi (Torino), 100,00.
Totale euro 877,47.