rivista anarchica
anno 32 n. 285
novembre 2002


costume

Elogio dell’indugiare
di Francesco Codello

 

Riscoprire il valore della lentezza, contro la società della velocità e della performance, funzionale al potere.

Ci sono delle parole che diventano simboli di una cultura e rappresentazioni della realtà. E poiché i sistemi sociali occidentali si fondano sull’equazione realtà-razionalità (la filosofia hegeliana nelle sue varie articolazioni, marxismo compreso, domina), i concetti opposti a quelli dominanti diventano simboli di negatività. È il caso della parola “velocità” e del suo opposto “lentezza”.
Parecchi anni fa ad un convegno a Venezia sui “Nuovi padroni”, parafrasando un noto titolo di un testo di Ernst Schumacher, “Piccolo è bello”, Leopold Khor presentò una relazione dal significativo titolo “Lento è bello”.
Anticipando quindi una questione assolutamente attuale, Khor sosteneva in questo scritto che la velocità non appartiene alla dimensione umana la quale, in realtà, si realizza compiutamente invece nella lentezza.
Quella che mi sembrava allora una stravagante, seppur suggestiva, affermazione, mi appare, oggi più che mai, un concetto di estrema attualità che trova riscontro empirico nelle molteplici attività degli esseri umani e inoltre può costituire un esempio concreto di sovvertimento dell’immaginario collettivo e delle sue applicazioni.
Nelle moderne società post-industriali la velocità è diventata il parametro con cui misurare e quindi dare valore a tutte le attività umane non solo lavorative ma anche turistico-ricreative.
Il dominio della velocità è pressoché totale sopra ogni altro valore. Spesso infatti siamo soliti definire ogni concetto accoppiandolo sempre al valore del tempo. Viviamo insomma un tempo della velocità, che assieme a quello dello sviluppo (di cui ho parlato nel numero precedente della rivista) costituisce uno dei valori fondanti l’attuale sistema di vita. Sono questi i nostri nuovi integralismi, le nostre nuove religioni occidentali. Invece l’ambiente sociale e naturale che ci circonda ha bisogno di tempi distesi e lenti per essere apprezzato e penetrato nella sua essenza senza stabilire in questo rapporto tra noi e l’altro una gerarchia fondata su un tempo tiranno per una reciproca conoscenza.

La dolcezza della lentezza

Attraverso una riflessione sulla nostra esistenza quotidiana e scambiando le nostre osservazioni con gli altri possiamo attaccare e forse, almeno in parte, distruggere questa forma subdola di dominio. Tutti gli esseri umani hanno bisogno di fuggire dall’ossessione della performance ricavando, o meglio rubando, delle pause e dei momenti di abbandono alla dolcezza della lentezza. L’appropriazione di questi aspetti più naturali della nostra identità di esseri umani ci permetterà di ridefinire i veri e più autentici significati della nostra esistenza, riscoprire i gusti e i sapori, apprezzare ed esaltare i piaceri della convivialità, dell’incontro, non mediato ma diretto, tra individui. È l’apprezzamento del camminare (H. D.Thoreau) sul correre, del viaggiare sul fare i turisti, del rivalutare il qui e ora sulla tensione del continuo ed incessante dover-essere.
“Il passo del pedone può farci capire che la lentezza non è il passato della velocità ma potrebbe essere il suo futuro o, almeno, un suo indispensabile punto di equilibrio” (Raniero Regni, Geopedagogia, Roma, Armando, 2002, p. 62).
Dobbiamo insomma indugiare, soffermarci ad osservare, ad ascoltare, a contemplare, a sognare, perché solo così possiamo esercitare il nostro diritto a giudicare ciò che ci circonda e a modificarlo.
Quando qualcuno gira con una carrozzina con dentro un neonato per le nostre città e i nostri paesi si accorge immediatamente come il tempo e lo spazio siano costruiti e pensati per annichilire la dimensione “debole” della vita rispetto a quella “forte” dell’ideologia dominante. Basta entrare in una aula scolastica di una scuola qualsiasi per sperimentare concretamente come la naturale e individuale capacità di apprendere venga soffocata da un’organizzazione del tempo e anche dello spazio edificata su bisogni e valori che non appartengono al soggetto ma al sistema.
È sufficiente frequentare una palestra per accorgersi che quello che viene praticato non è lo sport di cui necessita il nostro corpo per liberare l’energia e magari sciogliere le tensioni, ma piuttosto una fabbrica a tempo e con un suo rituale ritmo attraverso la quale diamo spazio alla cultura dominante nel nostro corpo.
E che dire dei luoghi di lavoro dove il manager di turno è l’esempio più evidente e da imitare per vedere come si può trovare il tempo per ogni attività che contribuisca a creare un’immagine di uomo che anche nel momento in cui fa l’amore con una donna deve dimostrare che la velocità di esecuzione è qualificante l’idea di potenza che emana tutta l’organizzazione della sua vita. Se ognuno di noi pensa ad un aspetto qualsiasi della sua vita quotidiana troverà sicuramente tanti altri esempi che dimostrano come la dimensione della velocità primeggi e schiavizzi ogni azione della nostra giornata.

Sempre meno consumatori

Occorre invece riscoprire la lentezza tutte le volte che ciò è possibile, esercitarsi a riscrivere la nostra vita secondo nuovi parametri, opporsi con azioni continue alla dittatura della velocità.
Questa scelta è in grado di rispondere ad un bisogno profondo della nostra umanità e inoltre può essere un utile (uno dei tanti) approccio per recuperare la dimensione sovversiva nel nostro comportamento oltre che testimoniare la possibilità concreta di vivere in un modo diverso.
Naturalmente non voglio con queste considerazioni fondare una nuova teoria rivoluzionaria (di teorie ce ne sono già troppe e tanti guasti a volte producono) ma semplicemente offrire a chi legge una pausa di riflessione questa volta sulle modalità dei nostri abituali comportamenti.
Nel camminare (dimensione della lentezza) possiamo trovare soddisfazione a tutti i nostri sensi, non solo la vista ma anche l’odore, il rumore e o i suoni, ecc. e quindi essere in grado di valutare il mondo che ci circonda da diverse prospettive. In questo modo è più facile accorgersi concretamente di come la società nella quale viviamo e che anche noi contribuiamo, seppure in misura diversa, a perpetuare o a costruire, sia il risultato dell’evoluzione di macchine e teorie, di economie e di diritti, di culture e di bisogni, che sono completamente sfuggiti ad ogni dimensione umana e ad ogni possibile controllo.
Il nostro essere al mondo si è trasformato in un essere per il mondo degli oggetti, il nostro naturale tempo e spazio si è trasformato in un tempo e in uno spazio dell’organizzazione sistemica. Il progresso ad ogni costo e in ogni modo è il dio sacrificale al quale dobbiamo inchinarci e sottomettere l’estensione naturale e integrale delle nostre possibilità allo sviluppo di tutte quelle cose e quelle logiche che governano la ricerca del profitto e del dominio.
Non si tratta di abbracciare teorie primitiviste ma di riaffermare il proprio diritto ad essere sé stessi, ad usare dei mezzi e delle cose e a non farsi usare da essi.
Riscoprire la lentezza è come riaffermare la nostra “debolezza”, la nostra più intrinseca caratteristica piuttosto che consegnarci totalmente agli oggetti e al potere.
Il riconoscimento profondo del nostro essere è la prima ed indispensabile condizione per intraprendere ogni cambiamento e ri-educarsi alla lentezza un passaggio obbligato per conoscere noi stessi. Da qui si può partire per saper stare in modo autonomo e il più possibile libero in un mondo che cambia velocemente le forme del dominio proprio perché nella velocità sta la sua potenza. Nella rapidità del cambiamento a cui siamo sottoposti quotidianamente si fonda l’ideologia della violenza istituzionale che il sistema sociale occidentale perpetua e impone nella nostra vita e nel nostro immaginario. Se noi rallentiamo il procedere nostro individuale e possibilmente anche quello dei nostri simili riusciremo a liberare le energie mentali indispensabili per apprezzare la nostra naturale lentezza e quindi la nostra più profonda essenza.
Insomma potremo diventare sempre meno consumatori e sempre più produttori della nostra esistenza.

Francesco Codello