rivista anarchica
anno 32 n. 285
novembre 2002


nel mondo e in Italia

Scenari di guerra
di Maria Matteo

 

I venti di guerra soffiano sempre più forti. Solo se l’opposizione alla guerra e al militarismo continueranno a crescere…

La guerra globale, la prima guerra del secolo, va avanti. Migliaia di persone, per lo più civili, sono morte sotto le bombe in Afganistan. Ad un anno di distanza la guerra non è finita: tra i monti afgani si continua a morire. A Kabul un governo feroce e dispotico è stato sostituito da un governo altrettanto feroce e dispotico ma disponibile a far partire l’oleodotto che gli amici ed alleati di ieri, i talebani, non volevano più costruire. L’elegante premier Hamid Karzai in passato di mestiere faceva il consulente per la Unocal, la compagnia americana che costruirà l’oleodotto. Karzai è l’unico leader afgano che non dispone di una milizia propria: alla sua sicurezza badano le truppe speciali dell’esercito statunitense. I crimini statunitensi contro prigionieri di guerra massacrati e poi seppelliti in fosse comuni sono stati pubblicamente denunciati persino al parlamento europeo. La popolazione afgana è sempre più spossata dalla fame e dalla violenza, i cattivi di turno, Bin Laden ed il mullah Omar sono scomparsi dai media e gli americani sono sul punto di concludere un affare che sfuggiva loro da una decina d’anni. Niente male per una guerra che pretende di essere combattuta in nome della libertà e della giustizia «durature».
Bush un anno fa annunciava una campagna bellica infinita. Il pretesto della «guerra al terrorismo» è divenuto la chiave di volta di una politica guerrafondaia volta a rimettere in piedi la dolente economia americana a suon di bombe.
La guerra in Iraq forse sarà già scoppiata quando leggerete queste righe. O, magari, vi sarà stato un ulteriore rinvio. Pare di trovarsi di fronte ad un condannato a morte in attesa di esecuzione che, grazie all’abilità del suo legale riesce ad ottenere qualche giorno in più di vita. Ma, e lui lo sa, la sua vita è appesa un filo assai esile. Che l’Iraq fosse nel mirino di Bush lo si sapeva da mesi. Addirittura il toto guerra dava per scontata la data di novembre. La straordinaria emozione suscitata dagli spettacolari attentati dell’11 settembre del 2001 aveva spalancato le porte all’offensiva guerrafondaia della lobby affaristico-militare che aveva sostenuto la candidatura di George II. La promulgazione, quasi senza dissenso, del Patriot Act, che di fatto rendeva possibili detenzioni extragiudiziali di semplici sospetti, nonché una sostanziale, ulteriore militarizzazione della vita sociale americana, era il segno inequivocabile che una politica di guerra infinita aveva di fronte a se ben pochi ostacoli.
Seppelliti i morti delle Twin Towers, il governo Usa ha capitalizzato l’indignazione popolare, tentando di trasformare la tragedia in business. Poco importava che Bin Laden in tempi non lontani fosse stato al servizio della Cia. Poco importa che oggi, dopo due decenni di guerre foraggiate dagli Usa, l’Afganistan sia un paese allo stremo. Poco importa che i feroci talebani fossero meno di un lustro fa fedeli e buoni alleati: con buona pace dei «diritti umani» che, notoriamente non riguardano né le donne né gli oppositori politici.

A seconda delle necessità

In verità l’avventura irachena del presidente Bush pare meno facile da far digerire sia all’opinione pubblica americana sia ai recalcitranti alleati europei. L’ampiezza delle manifestazioni contro l’intervento in Iraq dimostra che qualcosa si comincia a muovere nel ventre molle degli Stati Uniti. La soffocante propaganda di questi ultimi mesi non è riuscita ad impedire un dissenso che, diversamente dallo scorso anno, oltre alle aree più radicali, vede scendere in campo contro l’intervento ampi strati di popolazione. Lo slogan «Not in my name» attraversa gli Stati Uniti coinvolgendo, oltre alle grandi città, anche piccoli centri più tradizionalmente conservatori.
Se a ciò si aggiunge che la smania bellica di Bush II vede, al di là del fratellino siamese britannico, solo l’entusiastica adesione del pecorile Berlusconi, mentre il resto dell’Europa e gli alleati arabi si mostrano alquanto freddini, appare chiaro che la partita che si sta giocando sull’Iraq va ben al di là della solita guerra per il petrolio che i militari americani combattono a seconda delle necessità.
D’altro canto la posta in gioco è molto alta perché sul tappeto vi è la cancellazione definitiva del pur residuale ruolo dell’Onu, quale ambito di definizione di regole, che per quanto sempre asimmetriche, lasciavano aperto uno spazio nel quale, pur sancita la superiorità del più forte (il Consiglio di Sicurezza ed i suoi cinque membri dotati di facoltà di veto), si desse una parvenza di «legittimità» alle varie operazioni belliche. Nel lontano 1991, quando Bush I diede inizio alla guerra contro l’Iraq, la coalizione a guida statunitense partì con la benedizione dell’Onu. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia ed il ruolo dell’Onu, in un mondo sempre più unipolare, è divenuto esile, sostanzialmente ininfluente.
La «guerra preventiva» enunciata da Bush di fatto prefigura un ordine in cui il gendarme americano si assume il ruolo di poliziotto, giudice e boia.
La campagna di guerra dell’amministrazione americana dovrebbe terminare solo con la sconfitta del nemico. Già il «nemico». Osama, gli integralisti, gli Stati detti «canaglia», perché non al servizio degli interessi Usa. Ma i morti, i mutilati, gli affamati sono uomini, donne, bambini, vittime ed ostaggi di interessi per i quali non valgono nulla, granelli di sabbia sullo scacchiere del «grande gioco» della politica di potenza. Il «gioco» feroce di Bush II, l’uomo dei petrolieri e dei mercanti d’armi, interessati al controllo delle grandi risorse energetiche, timorosi della concorrenza dei recalcitranti alleati europei, consapevoli che oggi la «supremazia» statunitense si afferma soprattutto sul piano militare.
L’invasione dell’Iraq voluta da Bush non è che l’ultimo atto di una guerra che dura da oltre un decennio. Dopo la guerra guerreggiata, l’embargo e i bombardamenti «mirati» hanno mietuto le loro vittime. Le cifre di questa lenta strage sono spaventose: oltre un milione di morti tra i più deboli, i più poveri, i senza potere.
Saddam Hussein, l’attuale obbiettivo della guerra permanente, è un feroce dittatore che guida una compagine fascista come il partito Ba’ath, fondato nel dopoguerra da nazionalisti arabi che avevano combattuto con i nazifascisti. Hussein già nel lontano 1988 si distinse per il massacro di migliaia di curdi con armi chimiche fornite dagli Usa. Ma allora nessuno minacciò ritorsioni. All’epoca, non diversamente da Bin Laden, il Rais di Baghdad era un’importante pedina nella politica degli USA che si guardarono bene dal rimarcare la disinvoltura con cui trattava i propri «affari». Lo stesso dittatore che oggi deve essere destituito massacrando a suon di bombe la disgraziata popolazione irachena è stato ricevuto con tutti gli onori dai governi delle maggiori democrazie mondiali. Ma, si sa, criminali ed alleati variano a seconda della convenienza del momento. Ed il principio di «non ingerenza» assume caratteristiche carsiche, comparendo o scomparendo all’occorrenza.
Lo dice persino il noto assassino, golpista e guerrafondaio, nonché nobel per la pace, Henry Kissinger che è tempo di far saltare il principio di non ingerenza negli affari interni di uno stato. La «guerra preventiva» contro tutti coloro che oggi od in futuro contrasteranno gli interessi americani non può più nascondersi dietro la foglia di fico dell’intervento «umanitario» con la quale si era coperta la guerra contro la Serbia per il controllo del Kossovo e, soprattutto, di un’importante via di collegamento per la circolazione di petrolio, gas, armi e droga.
I giochi delle varie diplomazie vanno avanti: forse l’attacco può essere rimandato di settimane o mesi. Ma fermarlo sarà possibile solo se l’opposizione alla guerra ed al militarismo continueranno a crescere negli Usa come in Europa.

“dio, patria famiglia”

Qui da noi, nel Belpaese di Berlusconi, Bossi e Fini sono in atto le grandi manovre: una bella finanziaria di guerra, leggi liberticide contro i lavoratori, gli immigrati, le donne. La retorica, quella più becera, si spreca. Tornano in auge i mai sopiti mostri dell’intolleranza, del razzismo, del nazionalismo.
I soldi sottratti alla sanità, alla scuola, ai servizi sociali serviranno per finanziare il viaggio ed il soggiorno di mille assassini legalizzati in divisa da alpino alla volta dell’Afganistan. Con il beneplacito, ancora una volta, di parte del centro-sinistra.
Chi si oppone è definito «traditore della patria», schierato con il «nemico», sostenitore del terrorismo. Come sempre di fronte all’orrore della guerra la neolingua dei potenti chiama la guerra pace, la ferocia giustizia.
Gli alpini aprono le loro parate con «Dio, patria, famiglia». Noi, senzapatria, senzadio, senzafamiglia abbiamo per patria il mondo intero.
Siamo uomini e donne di parte. La parte delle vittime. Sempre.

Maria Matteo