rivista anarchica
anno 32 n. 285
novembre 2002


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Dal fonte battesimale del mercato

 

Déghegnene di nummi”, “dategliene di nomi”, dicevano i miei nonni, in dialetto, e neppure completavano la frase. Era inteso che, sotto i nomi nuovi, si celavano le vecchie fregature. Era inteso che al mondo a pagare erano sempre quelli, ma chi riscuoteva – se non altro per salvare la faccia – faceva ricorso a maschere sempre nuove.
Così, la calcistica “Coppa dei Campioni” è diventata “Champions League” – e produce più danaro, che esce dalle solite tasche di qualcuno ed entra nelle solite tasche di qualcun altro –, e così il “Presidente del Consiglio” è diventato il “Premier” – e produce più potere, esercitato dal solito potente e subìto dal solito suddito.
Che dietro i mutamenti linguistici si annidino spesso sordidi interessi è persino ovvio. Se no, perché cambiare? Se no, perché non esplicitare chiaramente i motivi che consiglierebbero il mutamento? Che, a volte, in questi giochi di prestigio chi comanda sia particolarmente maldestro è meno ovvio.
Un esempio. Dopo qualche tentennamento, Berlusconi va a Johannesburg, al cosiddetto “Summit della Terra”, e vien colto da perplessità apparentemente semantiche. L’espressione “sviluppo sostenibile” non gli piace, dice che è “poco comprensibile”, che la “gente” non la capisce, e suggerisce di correggerla in “sviluppo duraturo”. Robetta di aggettivi, beninteso, perché nessuno si prova nemmeno a discutere il nome – “sviluppo”, guai, a destra come a sinistra, a interrogarsi sul suo significato. Ma dal “sostenibile” al “duraturo” ce ne corre. Non si tratta di sfumature diverse del medesimo concetto, ma di due concetti molto diversi: il primo mette l’accento sui costi (umani, culturali, ambientali), mette condizioni; il secondo mette l’accento sulla sua temporalità e costituisce una resa incondizionata nei confronti di chi governa lo “sviluppo” in questione. La proposta è stata così sfacciata che, per buona pace di Berlusconi, il documento conclusivo dell’Assemblea è stato titolato “Dichiarazione politica di Johannesburg sullo Sviluppo Sostenibile”.
Giorno più giorno meno, la vicenda si è svolta parallelamente ad un’altra retromarcia semantica. La Siemens aveva battezzato con il marchio “Zyklon” la sua nuova linea di elettrodomestici. Tempo prima anche la Umbro aveva chiamato “Zyklon B” un paio di scarpe da football. Il nome, però, aveva già un suo posto nella Storia, perché era il nome del gas usato dai nazisti ad Auschwitz per uccidere gli ebrei. Ce n’è stato basta perché scarpe ed elettrodomestici cambiassero nome, ma il caso rimane sintomatico non tanto di stupidità quanto di memoria rimossa o, a scelta, di impulsi nefandi.
Giorno più giorno meno, erano anche i giorni in cui qualcuno, in America, stava per guadagnarsi diecimila dollari senza fare apparentemente granché. Un’azienda di videogiochi, infatti, aveva offerto questa cifra, in premio, alla famiglia che avesse battezzato “Turok” il proprio figlio, nato nello stesso giorno in cui veniva distribuito nei negozi “Turok”, il suo videogioco ultimo “nato”. Diecimila dollari per la certificazione di una subordinazione totale alle leggi del mercato: un argomento dal quale un Turok cresciuto potrebbe, un giorno, sviluppare la sua critica della famiglia e del suo ruolo nella società. Il linguaggio non è mai semplice forma, non è flatus vocis e neppure mero involucro vuoto. Che lo sappia o no chi lo usa, il linguaggio designa pensiero. Ed è della responsabilità di questo che, prima o poi, sarà chiamato a rispondere.

Felice Accame