rivista anarchica
anno 32 n. 285
novembre 2002


canzone d’autore

... e compagnia cantante
a cura di Alessio Lega

 

La poesia è un’arma carica di futuro

Paco Ibañez, trovatore delle voci di Spagna

La voce innanzi tutto.
Attenzione, non solo un canto, proprio una voce.

Una voce bellissima, sempre più bella man mano che l’opaca polvere del tempo ci si deposita sopra... forse più oscura, come l’amore delle poesie segrete di Lorca, senz’altro più vissuta; perduto, con l’età, l’argentino brivido degli anni dei primi trionfi all’Olympia di Parigi; quel brivido che senza alcuna forzatura stringeva pubblico ed esecutore in una catena d’acciaio, è oggi la voce di una roccia millenaria, di una radica d’ulivo. È la voce del silenzio.
Una voce che sussurra e canta. Una voce che parla e canta. Una voce che tace e canta.
La voce di Paco Ibañez è la voce stessa della poesia: la prima volta che l’ascoltai era il gennaio del 1991, lui era fra gli artisti invitati a una grande concerto/tributo (teatro Lirico di Milano) a Georges Brassens, che io avevo l’opportunità e la fortuna di vedere da dietro le quinte. Quando Paco si fece avanti sul palco, dopo qualche parola di presentazione, cominciò a cantare... Ora, da dietro le quinte si sente sempre pochino, ma in quel frangente non sentivo assolutamente nulla, e così pensai «Ma... Canta troppo piano, non arriverà niente neppure in platea...» Ed ecco invece, come per magia, un piccolo raschio, un brivido musicale mi percorse, non dalle orecchie al cuore – come succede di solito – bensì al contrario. Era Paco che cantava.
La sua voce ha una caratteristica soprannaturale: ti si materializza dentro prima ancora di arrivare da fuori. Io avevo 19 anni e mi trovai a pensare che quello era il modo di cantare la poesia. Ho 29 anni, ho avuto occasione di sentire Paco Ibañez altre due volte dal vivo, conosco a memoria ogni suo disco e non faccio che confermarmi nella mia idea.
La poesia in musica è una nobile arte, in genere un piccolo diversivo della canzone d’autore; vi si sono dedicati più o meno sporadicamente alcuni autori, pochi con buoni risultati: Brassens e Beaucarne – con uno spirito piuttosto simile – a vari poeti, Serrat soprattutto a Machado e Hernandez, Teodorakis soprattutto a Ritsos e Elitys, Ferrat solo a Aragon; Ferré ha fatto del rapporto coi poeti maledetti uno dei suoi molti poli creativi; Paco ha cantato solo poesia. A fronte delle nobili eccezioni di un disco dedicato alle versioni castigliane delle canzoni di Brassens, doveroso omaggio a colui che considera il suo maestro d’arte e di vita sopra ogni altro, e un recente disco che rintraccia le sue radici materne nella canzone popolare e d’autore di lingua basca, la sua avara discografia conta ben sette dischi (e mezzo) dedicati alla lirica spagnola con una spiccata preferenza per i suoi periodi più fecondi: il siglo de oro (Gongora, Lope de Vega, De Quevedo, Manrique...) e il sanguinoso novecento della generazione del ’26 (Lorca, Alberti, Hernandez...) soffocata – ma non messa a tacere – nel sangue, nella prigione e nell’esilio, e di quella del ’60 (Goytisolo, Celaya...). Di questi ultimi Ibañez ha colto soprattutto il grande valore di passione civile, di rivolta permanente, di inconciliabilità con una situazione politica data talmente per scontata da essere considerata inappellabile. Sono poeti che hanno dovuto subire un lungo ostracismo di silenzio e di ostilità, qualche volta anche di carcere... così come la voce di Paco ha dovuto cantare in esilio – anche se in qualche rarissimo caso era riuscito a prodursi in Spagna, tentando, anche se per breve tempo di vivere a Barcellona – fino alla caduta del franchismo.

Suo padre
e Durruti

Paco Ibañez è un compagno anarchico, aperto alla collaborazione artistica con i grandi artisti della sinistra – è testimoniato su disco un meraviglioso recital in compagnia del già vecchissimo Rafael Alberti – ma così come alla domanda «perché non hai mai musicato tuoi testi» risponde semplicemente «esistono troppe meravigliose poesie ancora da musicare!», egli non è uomo da proclami roboanti, tutta la sua rivolta si legge nel calmo calore umano con cui si rapporta a un pubblico non blandito né dominato, ma conquistato con un filo di voce, qualche accordo di chitarra e una scarna schiettezza che lascia parlare la straordinaria coerenza fra ciò che canta e colui che canta.
Ciò non toglie che lui stesso mi raccontò con un certo orgoglio che Durruti aveva lavorato nella stessa officina di suo padre. Ciò non toglie la cocciuta convinzione di voler continuare a fare il suo lavoro d’ebanista, a rischio di compromettere la sua meravigliosa voce con l’inalazione delle polveri di legno, pur essendo da moltissimi anni una riconosciuta star dello spettacolo... «Se non ho a che fare con qualcosa di materiale non mi sento vivo!».
E Paco è senz’altro un uomo vivo che, dalla nascita (a Valencia nel 1934), ha dovuto attraversare molti difficili cammini, a partire da quello dell’esilio a cui i suoi genitori furono costretti dopo la guerra civile, il padre internato in un campo di lavoro francese, la madre, col resto della famiglia, rifugiatisi in un villaggio presso San Sebastian (sul filo della memoria di questo periodo si fonda il disco in lingua basca «Oroitzen»: ricordo).
Celebrato come un «santino» da Spagnoli in esilio e studenti francesi, tanto da dare nel 1969 un famoso spettacolo nella Sorbona per il primo anniversario dell’occupazione, voce riconosciuta anche dai docenti di lingua castigliana, che utilizzano i suoi dischi come materiale didattico, l’artista è riuscito a sfuggire anche all’insidioso veleno delle celebrazioni in vita, rifiutando tutti i premi con cui i politici avrebbero voluto insignirlo, compresa la prestigiosissima «medaglia delle arti delle lettere» che il socialista francese Jack Lang ha tentato di conferirgli ben due volte (1983 e 1987).
La coerenza del personaggio non è però in vendita. La sua opera ne è la più alta testimonianza: un’opera in cui il talento resta sempre al servizio di qualcosa di più alto.

Siderale
distanza

La sua tecnica di canto, molto precisa nell’intonazione e con una musicalità particolarissima ed eccezionale, pur strepitosa non fa mai passare in secondo piano il peso d’ogni singola parola, così come, chitarrista virtuoso, si accompagna in maniera avara, e giusto il tocco da maestro fa assumere a ogni singola nota un peso specifico di grande pregnanza.
Paco non è però solo un interprete, egli è il meraviglioso autore delle canzoni che canta, dal momento che è siderale la distanza fra quei versi imprigionati nel cemento bianco della pagina tipografica, e le ali su cui li fa correre la sua musica. In tutta semplicità ovviamente, eppure, se ci fermiamo ad analizzare quei testi, ci accorgiamo che si tratta di poesie non sempre in rima, raramente isosillabiche; a volte veri e propri manifesti politici, quasi prose poetiche come «La poesia es un arma cargada de futuro», che pure è uno degli esiti più alti della sua discografia...e incredibile pensare a come Ibañez abbia potuto trasformare in canzone una poesia come quella o come «Me queda las palabra» di Blas de Otero. Il rispetto e l’amore sono con tutta probabilità la molla, ma anche la perfetta conoscenza dei meccanismi della musica popolare, e una coscienza antiaccademica della poesia, come voce dell’inconscio di massa, permettono a quest’uomo semplice e sensibilissimo di essere il potente medium che fa scendere la poesia nella strada. Arma carica di futuro.
L’ultima volta che ho avuto occasione di vedere Paco in concerto, presentando la stupenda «Palabras para Julia» (su testo di Goytisolo) ha detto «Gli ex prigionieri politici del franchismo mi hanno raccontato che in carcere ascoltavano questa canzone per vincere la malinconia...».
«Altro che Nobel!» Ho pensato.

Alessio Lega

Paco Ibañez nel 1968

Con Rafael Alberti

Con Georges Brassens