rivista anarchica
anno 32 n. 285
novembre 2002


carcere

Dove il Miche’ cantava
di Mauro Macario

 

Nel carcere di Parma, il 5 giugno scorso, un’iniziativa davero speciale. Pensando a De André.

L’evento

Ancora una volta la Fondazione “Fabrizio De André” si è impegnata in un progetto di carattere sociale patrocinando un concorso di poesia e racconti indetto tra detenuti dell’istituto penale di Parma che reclude circa seicento elementi tra cui i famigerati 41bis collegati alla mafia. Questo aspetto specifico codifica il carcere tra quelli di massima sicurezza. Per il resto degli internati è una prigione come un’altra. C’è una sezione denominata “Alfa” dove sono premiati i “buoni” con giochi ricreativi e strumenti di comunicazione che vanno dal biliardo ai computer. Pare che prossimamente potranno usufruire di Internet. Navigheranno “fuori”, nel mondo, in chiave virtuale ma nell’istante del presente. Tra le manifestazioni cui la Fondazione, nel corso del tempo, ha dato il suo decisivo e concreto contributo ricordando diversi concerti a favore di Emergency di Gino Strada, per la comunità di Don Gallo, prete certamente scomodo ai vertici clericali, e due concerti a San Vittore a Milano per la sezione femminile e per quella maschile. Il premio che ha avuto come presidente la scrittrice Fernanda Pivano da sempre antiaccademica e pacifista, colei che ci ha fatto scoprire il pianeta beat e una nuova armonia universale, ha posto in palio per i tre finalisti delle due sezioni una somma di denaro così ripartita: euro 310 (per il primo) euro 155 (per il secondo) euro 51 (per il terzo).
L’idea è nata dalla professoressa Maria Spora che ha curato l’organizzazione e il coordinamento di questa iniziativa dedicata a Fabrizio De André e intitolata “Ricordare… ripensare”. Maria Spora che insegna all’interno del carcere ha coinvolto per il finanziamento l’assessore alle politiche sociali Tiziana Mozzoni eletta in una lista di sinistra denominata “Libera la libertà” e guidata da un ex comunista, Mario Tommasini, amico di Basaglia e noto a Parma per aver contribuito a chiudere il manicomio di Colorno. Altro sostegno fondamentale è stato quello dell’assessorato ai servizi sociali del Comune nella persona di Marta Teresa Guarnieri.
La scuola “Bodoni” ha dato un apporto importantissimo partecipando attivamente alla struttura del concorso ma, soprattutto, realizzando con i detenuti uno spettacolo tratto da Spoon River Anthology di E. Lee Masters e reinventato da Fabrizio in “Non al denaro non all’amore né al cielo”. La regia di Pietro Soncini ha dato vita a una rappresentazione omogenea, articolata e colorita grazie anche all’impegno dei detenuti che hanno animato quei personaggi con passione e convinzione delineando con ironia e malinconia le caratteristiche esistenziali.
Il giovane direttore del carcere Silvio Di Gregorio che avalla volentieri iniziative culturali e d’incontro, a proposito di Fabrizio De André ha dichiarato: “Lo abbiamo scelto perché da sempre è il cantore degli ultimi che non per questo devono essere dimenticati”.
Fernanda Pivano ha ricordato il lavoro di riscrittura operato da Fabrizio sull’antologia di Masters: “Fabrizio, queste poesie, le ha rese più umane. Pensate a La collina, dove nella strofa dedicata ai soldati che tornavano morti nelle bandiere, ha aggiunto: legate strette perché sembrassero intere. Lui incarnava tutti i valori della vita. Se fosse qui, sarebbe molto contento di voi e vi trasmetterebbe il suo amore”.
Dori Ghezzi rincalza: “Fabrizio, le sue conquiste, le ha ottenute attraverso la cultura. Altrimenti, forse, sarebbe diventato come il suo bombarolo (rif. a ‘Storia di un impiegato’). Tra le sue carte di recente, ho trovato una frase che è diventata l’emblema della nostra fondazione: E poi l’amore scoppiò dappertutto”. Erano presenti oltre Dori e Fernanda, il compositore Piero Milesi, Sergio Cusani e il sottoscritto.

Il clima

“Dormono, dormono sulla collina…” così inizia il primo brano di Fabrizio e così inizia anche lo spettacolo “Burla in collina” (in Via Burla è situato il carcere) ma alcuni interpreti, la notte precedente non hanno dormito preoccupati o emozionati per l’evento del giorno successivo però, a prescindere da quella circostanza davvero speciale, ci si chiede quanti di loro generalmente riescono a fare sonni tranquilli? Più d’una volta, leggendo articoli sul tema della detenzione ho notato il disegno che ritualmente accompagnava il testo: una teoria di sbarre attraverso le quali volavano via uccelli dalle grandi ali, grandi come il sogno di libertà. Anche il “Miché” di Fabrizio volava così, ma nel modo più tragico: attraverso un nodo scorsoio strozzando così, ancora prima del corpo, proprio quel sogno alato di libertà.
Ho visto dunque la voliera fortificata e i suoi abitatori, un tempo uccelli migratori e ora stanziali in attesa della stagione della trasmigrazione. Uccelli con il becco spuntato forse ma con l’occhio vigile rivolto a quel cielo a due passi che quasi si può toccare con le mani. Uccelli azzoppati, uccelli feriti ma con le ali integre pronte a spiccare il volo.
E la prova generale del volo è stata proprio in quel 5 giugno sulla pista della poesia dove l’anima rulla e il muso del sogno, come un lupo predatore, punta verso l’azzurro. La poesia è da sempre l’uscita di soccorso dei sommersi, degli obliati, dei diseredati dalla sorte. Antonin Artaud, nel suo saggio “Il mito di Van Gogh” definiva certi artisti perseguitati dall’incomprensione sociale i “suicidati della società” proprio per come finivano sotto silenzio o per come distruggevano la loro esistenza. Ma gli artisti, per sfortunati che siano, camminano in linea retta, all’aria aperta e in uno spazio atemporale da loro inventato.
I detenuti, in uno spazio temporale deciso da altri e matematicamente definito, procedono nel loro cammino in “cerchio”. Gli indiani d’America – massacrati dai bianchi – ritenevano il senso di cerchio “sacro”, per i detenuti il senso di cerchio è “maledetto” ma sono un po’ indiani anche loro relegati nella riserva. Eppure deve esserci una soluzione alternativa, parallela, costruita che almeno salvi gli affetti privati di questa tribù slegata dai propri congiunti. Ancora di più: l’utopia – forse possibile di creare una società priva di quei presupposti che inducono a determinate azioni.
Ho visto volti fraterni non dissimili dal mio e che certamente hanno elaborato il senso e il dissenso del proprio e altrui agire. Eccoli dunque sul palco gli abitatori della voliera, pronti a interpretare le individualità umiliate dalla società civile, dalla morale comune, dalla mediocrità piccolo-borghese della provincia americana. Personaggi che raccontano in che modo e perché l’oltraggio è stato subito in vita ora che sono morti lo possono testimoniare senza timore di rappresaglia. Così i detenuti ma vorrei dire semplicemente le persone che sono lì sul ramo, si liberano dagli oltraggi inferti e ricevuti attraverso questa mascheratura sostitutiva della propria personalità che è la finzione teatrale dietro la quale trincerarsi e al contempo rivelarsi in un gioco di luci e ombre, di connessione e ritorsione addossandosi altrui identità in qualche misura simili a loro e ai loro passati gesti nati in un mondo dove la regola è il possesso invece di essere.
Ecco sfilare il malato di cuore, il matto del villaggio, il chimico, l’ottico, il blasfemo e tanti altri, ciascuno con la sua pena segreta, la sua colpa “sociale”, la sua assoluzione “morale”. Quale contiguità celata tra quei personaggi che parlano dall’al di là e quelli che ci parlano dall’al di qua, a pochi metri di distanza!? Difficile determinarne i contorni così sfocati e così amalgamati. Forse la prova è proprio nei testi qui pubblicati: una poesia e un racconto che svelano, insieme ad altri testi meritevoli, una sensibilità sempre esistita e ancora dura a morire.
Dori Ghezzi ha sottolineato acutamente come la poesia “Dall’inferno” contenga in sé un clima squisitamente deandreiano mentre il racconto “La casa sul lago” ha, poco dopo, coinvolto emotivamente tutti i presenti, autore compreso. Parole di un comune linguaggio e di un identico sentire, schegge di fraternità “in volo per il mondo”.

Mauro Macario
(i brani delle interviste sono di Roberto Longoni pubblicate sulla “Gazzetta di Parma”)

Dall’inferno

Il giovin, buono e timido Giocondo
Ancora, non ha trovato l’amore
E si sente triste e solo a sto mondo.
A cagion del suo natural candore,
le donzelle rimira con tremore;
poi, vede LEI, e si infiama in un secondo.

Si infatua di questa leggiadra donna
Proveniente dalla Romania. Bella,
dallo sguardo limpido da madonna.
Bionda con gli occhi verdini alta e snella
Che batte il marciapiede di via Biella,
fredda come una marmorea colonna.

È nota col nome di Mariarosa;
cuore grande e cervello da bambina.
Volea esser, solo, una buona sposa,
ma adescata dal vil ceffo, cammina
su vergognosa pista a testa china,
con passi corti, felpati e dogliosa.

Giocondo diventa, di colpo, audace
Sospinto da quel vital sentimento
Che s aderge dal cuore come face.
Il suo sbocciare non ha impedimento
E tutto travolge con ardimento.
Ha scoperto la favella e non tace.


Le sussurra ciò che l’amor gli detta,
con trasporto, talmente coinvolgente
che ella, animata e sorpresa, si getta
nelle di lui braccia, teneramente.
Al tepore di quel foco emergente,
felice, torna sulla strada retta.

Convivono beati per pochi mesi
Poi, il “Magna” se la riprende con la forza.
Giocondo non si arrende e i sensi offesi,
lo rendono nuovo, di dura scorza.
L’odio per sto furfante non si smorza
E così l’ammazza a nervi distesi.

Subito arrestato viene tradotto
In prigione, indi, processo e condanna;
la sua vita si è fermata di botto.
Ora è qui in miseri siti e si affanna
Pel infausto amore che non si appanna;
si gloria, anche, di pagare lo scotto.

Nel tempo il distacco coatto distrugge
Ogni slancio e Mariarosa, ormai sola
Non sa come reagir; langue e si strugge.
Dalla casa al carcere fa la spola,
e sposa, per tal andazzo, si invola
sulla vecchia via e da Giocondo fugge.

Ei si tramuta in lupo solitario,
ravvisa il grave peso del delitto.
La fuga dell’amata è il suo calvario;
si sente tradito, pronto e sconfitto
amareggiato, deriso e afflitto.
Svanisce il sorriso leale e bonario.

Pensieri atroci, funesti, affliggono
Sua mente e medita “Lezion maligna”
Da darLe, altro che il richiesto perdono.
Il tarlo, nel cuor lacerato, alligna
E tutti assale con maniera arcigna.
Ella non si merita alcun perdono.

A distanza di parecchi anni, apprende
Dalla stampa che il corpo martoriato
Di Lei è stato scorto, avvinto con bende,
coperto di rami secchi, in prato.
Il suo bimbo, da solo, ha lasciato
E Giocondo il proprio dover comprende.

Commosso, ripiglia tra le mani
Tremolanti, la fotografia e piange
Per Mariarosa, orbata del domani.
L’intima speme, cullata, si infrange
Sul crudel destino e si compiange
Di aver osato, bei sogni, ma invani.

L’ira, da nera e tralignante dama,
si trasforma, d’incanto in tenerezza
e capisce che quel piccino, già ama.
Col cuor leso, trasudante dolcezza,
spronando da rigenerante ebbrezza
ora, un motivo per vivere, brama.

Spinto da amor puro e nella fede
Il piacere di esistere riprova.
A tal metamorfosi, ancor, non crede,
ma colla preghiera, accorata e nova,
nel porgersi contrito, si ritrova.
Sua vera indole, alla fine, intravede.

Dopo molti e diversi sacrifici
Realizza il desiderio di adottare
Il bimbo. Sono diventati amici!
Man nella mano, vano a visitare
La stele della madre per orare.
Sfidan la ria sorte, uniti e felici.

L’epitaffio scolpito sulla tomba
Di bianco marmo, adornata con fiori,
dice: “A Lei, che di vita non romba,
poiché smarrita tra i sogni incolori,
si inchinan, memori, i suoi due tesori.
La pace su costei, per sempre, incomba”.

Mario Piccirillo

 

La casa sul lago

Accettare senza capire è possibile?
Quando cominciammo a passare i fine settimana sul lago, eravamo molto giovani e con pochi soldi. I parenti di lei ci concedevano l’uso di una villetta in una conca boscosa, a circa un chilometro dallo specchio d’acqua.
Io avevo orari di lavoro strani, perciò spesso non arrivavamo che dopo la mezzanotte del venerdì. Ma se non c’erano troppe zanzare, facevamo una nuotata sotto la luna e poi ci riposavamo con la schiena contro un albero, bevendo del vino bianco gelato e parlando del nostro futuro.
Un’estate comprai un barca a motore d’occasione, con cui costeggiavamo la riva, ammirando le ville affacciate e chiedendoci come ci si doveva sentire a possederne una così. Lei era pessimista: erano cose tropo care, che non avremmo potuto mai permetterci.
Passarono gli anni. Nacquero due bambini e non andammo più nella villetta: i suoi parenti l’avevano venduta.
Poi ebbi fortuna nel lavoro e guadagnai molto denaro: più di quanto avrei mai sognato di possedere, e ricordando quei fini di settimana, tornammo sul lago e comprammo una casa di legno di cedro.
Era bellissima, circondata da grandi alberi secolari e il terreno scendeva dolcemente fino ad una piccola spiaggia. Era tutto perfetto e non immaginavo che le estati fossero così belle.
A me piaceva andare a pescare il mattino presto e lei dormiva finché la svegliavano gli uccelli: allora chiamava i bambini, preparava la colazione e mangiava con loro.
Facemmo amicizia con gli animali del bosco e con un picchio, ospite del nostro albero più grande; con i contadini del luogo che ci rifornivano di tante cose buone.
Il momento più bello della giornata era il crepuscolo. Lei amava i tramonti. Si fermava sempre quando arrivavano e cercava la mia mano per guardare insieme il sole che calava, cambiando il colore del lago: da blu a porpora, da argento a nero.

Una sera le scrissi una poesia:
“Il sole scivola giù
come una lacrima d’oro
un altro giorno
un altro giorno
se ne è andato”
Mi disse che era triste, ma che le piaceva.
Quello che non le piaceva era il vento che annunciava l’arrivo dell’autunno, nonostante i suoi bei colori e le serate davanti al caminetto. Lei era una persona estiva: adorava il sole.
In novembre riponevamo la barca, toglievamo l’amaca, chiudevamo tutto e tornavamo in città.
Lei sospirava sempre quando partivamo da quel lago; poi, quando finalmente arrivava la primavera, appena avuta notizia che il lago non era più ghiacciato, tornavamo lì, di nuovo felici.
Ogni estate sembrava più bella delle precedenti e i tramonti più spettacolari: più preziosi.
Poi un fine di settimana andai da solo a chiudere la casa per l’inverno. Lavorai in fretta, cercando di non pensare che una certa sedia era la “sua” preferita, che l’amaca era stata il “suo” regalo di Natale, che la casa sul lago era stata il mio regalo per lei. Ma non lavorai abbastanza in fretta, perché al tramonto ero ancora lì. Quel tramonto sembrava una grande esplosione di arancione, proprio quello che lei amava di più.
Ci provai, ma non potei guardarlo da solo: non attraverso le lacrime.
Allora gli voltai le spalle, andai dentro casa, tirai le tende, chiusi la porta e corsi via.
In seguito esposi sul davanti il cartello “Vendesi”: forse la casa sarebbe piaciuta ad una coppia che amava i tramonti in silenzio.
Ci speravo proprio.

Lei morì nell’inverno del 1969: aveva 29 anni: io 31. I bambini vennero allevati dai parenti di lei che si stabilirono all’estero, oltre l’oceano. Non ne ho saputo più nulla. Finii presto “in disgrazia alla fortuna e agli occhi degli uomini”. Sono in prigione dal 1992: piaccia a Colui che forse è, di non permettere che io muoia qui dentro…

Giorgio Cogliati