rivista anarchica
anno 32 n. 286
dicembre 2002 - gennaio 2003


stili di vita

Ricchi di cose, poveri di tempo
di Wolfgang Sachs

 

La mancanza di tempo degrada la ricchezza materiale.

Un turista inquadra nel mirino un quadretto idilliaco: un uomo in abiti semplici che sonnecchia in una barca da pescatore tirata a riva, dove le onde si frangono sulla sabbia. L’otturatore scatta, il pescatore si sveglia. Il turista gli offre una sigaretta e inizia una conversazione: “Il tempo è splendido, il pesce non manca, perché lei se ne sta qui a far niente invece di essere in mare a pescare?”.
“Perché ho già pescato abbastanza stamattina”, risponde il pescatore.
“Ma provi a pensare”, continua il turista, “se lei uscisse tre o quattro volte al giorno, potrebbe pescare tre o quattro volte quello che pesca adesso! E allora sa cosa succederebbe?”. Il pescatore scuote la testa. “Nel giro di un annetto potrebbe comprarsi una barca a motore”, dice il turista. “In un paio d’anni potrebbe comprarsene una seconda e in tre potrebbe avere un cutter o due. E allora pensi! Un giorno magari arriverebbe a potersi comprare un impianto di surgelamento o un affumicatoio, alla fine potrebbe addirittura avere un elicottero per avvistare i branchi di pesci e segnalarli alla sua flotta di cutter, oppure potrebbe acquistare i camion per trasportare il pesce nella capitale, e a quel punto…”.
“A quel punto?” chiede il pescatore.
“A quel punto”, conclude trionfalmente il turista, “potrebbe starsene tranquillamente sulla spiaggia, a sonnecchiare al sole e a contemplare l’oceano!”. Il pescatore guarda il turista: “È esattamente quello che stavo facendo prima che arrivasse lei!”.
La storiella, narrata dallo scrittore Heinrich Böll, gioca sulle paure e le speranze dei ricchi. Il turista, vedendo il pescatore oziare pigramente sulla spiaggia, si ricorda del proprio timore di diventare povero, di trovarsi in una situazione senza vie d’uscita. Al contempo, proietta le speranze del ricco sul povero. Istintivamente, gli indica una via per aumentare la produttività. E alla fine, gli offre la promessa che dovrebbe dare senso a tutti questi sforzi: affrancarsi dal proprio lavoro e giungere a essere padroni del proprio tempo.
Ciò che rende questo aneddoto così sconcertante è la struttura circolare della storia; il ricco si affanna per arrivare al punto di partenza del povero. Quello che ci viene proposto è un paradosso, che solleva tutta una serie di inquietanti interrogativi per le persone facoltose. Perché mai profondere tanta fatica e tanto impegno di sviluppo, se il ricco ottiene solamente ciò che a quanto pare il povero ha da sempre? O, peggio ancora, com’è che il ricco, a dispetto di tutto il suo gran lavorio, apparentemente non raggiunge mai lo stato di cui gode il povero? Perché se la parabola dello sviluppo consiste nell’acquisizione progressiva di ricchezze materiali per conseguire una ricchezza temporale, allora è evidente che le opulente società odierne hanno fallito l’obiettivo. Che cosa non ha funzionato?
Come è stato spesso osservato, il risparmio di tempo è al centro di qualsiasi azione economica. Dal filatoio intermittente di Arkwright al web browser Explorer di Bill Gates, sappiamo che buona parte della tecnologia impiegata in cerca del progresso viene utilizzata nella convinzione che fare più cose più rapidamente sia meglio che farne poche lentamente. In effetti, la capacità di risparmiare tempo è sempre stata il tratto distintivo delle rivoluzioni della produttività, che nel corso degli ultimi duecento anni hanno trasformato i modelli di produzione e di consumo.
Fin dall’inizio, uomini e donne lungimiranti hanno spiato all’orizzonte il sorgere del regno della libertà, un regno in cui finalmente non ci sarebbe più stata fatica, aumentando enormemente la possibilità delle persone di dedicarsi alle loro attività preferite. Cacciare al mattino, pescare al pomeriggio, allevare animali di sera, consacrare il dopo cena alla critica letteraria. Quel giorno immaginario era un ideale non soltanto per il giovane Karl Marx. Ma che cosa ne è stato di questa utopia? Che fine ha fatto il tempo?
Come esempio possiamo prendere l’uso dell’automobile. All’inizio, la si sbandierava come il salvatempo per eccellenza, in quanto riduceva drasticamente il tempo necessario per arrivare a una determinata destinazione. Contrariamente alla diffusa credenza tuttavia, i guidatori non impiegano meno tempo dei non guidatori per spostarsi da un luogo all’altro. Si muovono verso destinazioni più lontane. Il potere della velocità si trasforma in un numero maggiore di chilometri su strada. E il tempo risparmiato viene reinvestito in distanze più lunghe. Di conseguenza, il cittadino tedesco medio oggigiorno percorre 15.000 chilometri all’anno, contro i 2.000 del 1950.
In molti settori, dai trasporti alle comunicazioni, dalla produzione al divertimento, il tempo risparmiato viene costantemente trasformato in distanze maggiori, un numero maggiore di appuntamenti, maggior rendimento e aumento di attività. Le ore risparmiate vengono divorate da una nuova crescita. E, in definitiva, questa espansione genera una nuova richiesta di dispositivi salvatempo, avviando nuovamente il ciclo.
I giganteschi passi in avanti della produttività non si sono affatto tradotti in meno lavoro e più tempo. Al contrario, in linea di massima hanno significato nuovi aumenti di rendimento e di merci. È evidente che se i livelli di rendimento fossero rimasti stabili nel tempo oggi tutti si potrebbero permettere di lavorare solo una piccola parte delle normali ore lavorative, così come tutti potrebbero permettersi di dedicare meno tempo alle attività quotidiane di ogni sorta se al contempo non ci fosse stato anche un mutamento del livello delle aspirazioni. L’implacabile espansione del rendimento e delle aspirazioni continua a divorare generazioni su generazioni di passi avanti nella produttività. L’utopia della ricchezza ha ucciso l’utopia della liberazione.

disegno di Domenico Spagarino

Perché non è mai abbastanza?

Il pescatore della nostra storia sarebbe sbigottito dell’infinito bisogno di qualcos’altro in società già benestanti. Dopo tutto, egli era soddisfatto della pesca fatta al mattino e quindi poteva permettersi di riposare. La questione era già stata esaminata in passato: John Maynard Keynes, uno dei maestri del pensiero economico del ventesimo secolo, si chiedeva se prima o poi un’economia eccessivamente florida non avrebbe raggiunto il punto di saturazione. Nel suo Saggio sulla persuasione riflette sul fatto se l’imperativo della produttività non possa perdere di significato in condizioni di agiatezza, via via che l’abbondanza rende sempre meno importante l’ottimale allocazione delle risorse. Le società ricche però continuano a non rispondere a questa aspettativa. Si aggrappano al principio di non saturazione. Come mai ignorano il concetto di “abbastanza”?
In queste società, la cosa importante è il potere simbolico dei beni e dei servizi, che sono sempre meno veicoli di utilità: assolvono una funzione espressiva. Ciò che conta è quello che i beni esprimono, non quello che fanno. Nelle società moderne i beni sono mezzi di comunicazione. Costituiscono un sistema di “segni” attraverso i quali l’acquirente afferma qualcosa su di sé. Mentre una volta i beni indicavano uno status sociale, oggi segnalano l’adesione a un particolare stile di vita.
Ormai molti prodotti sono stati perfezionati e non sono più passibili di ulteriore sviluppo; per trovare nuovi acquirenti è dunque necessario che questi beni offrano un maggior capitale simbolico. Automobili che non possono diventare più veloci o più confortevoli vengono progettate per essere meraviglie della tecnologia. Orologi che non possono essere più precisi assumono un’aria sportiva diventando orologi da subacquei. Televisori le cui immagini non possono essere più nitide cercano l’effetto cinematografico con schermi più grandi. Designers e pubblicitari offrono in continuazione ai consumatori nuovi brividi e nuove identità, dando per scontata l’utilità del prodotto.
In un contesto simile il rapporto fra consumatore e prodotto è in larga parte determinato dall’immaginazione, che è infinitamente malleabile. Sensazioni e significati sono tutt’altro che stabili; la loro plasticità e propensione all’obsolescenza si prestano a essere sfruttate dai designers in un’infinita varietà di modi. L’immaginazione, in effetti, è una molla inesauribile che alimenta una crescita sempre maggiore di beni e di servizi. Questo è il motivo per cui la previsione che le società ricche un giorno avrebbero raggiunto il punto di saturazione non si è realizzata: quando i prodotti diventano simboli culturali, non c’è fine all’espansione economica.

Frugalità e benessere

Oltre una certa soglia, le cose possono diventare ladri di tempo. I beni vanno scelti, acquistati, installati, usati, vissuti, mantenuti, riordinati, spolverati, riparati, riposti ed eliminati. Allo stesso modo, gli appuntamenti vanno fissati, coordinati, concordati, inseriti in agenda, rispettati, valutati e seguiti. Anche gli oggetti più belli e le interazioni più importanti rosicchiano il nostro tempo, la più limitata di tutte le risorse. Il numero delle possibilità (beni, servizi, eventi) è esploso nelle società opulente, mentre la giornata, con il suo tipico spirito conservatore, continua a essere fatta di ventiquattro ore. La mancanza di tempo è la nemesi dell’opulenza. I ricchi saranno anche pieni di cose, ma sono poveri di tempo.
In realtà, in una società che offre molteplici opzioni, la gente è afflitta non dalla scarsità ma dall’eccesso di oppurtunità. Se nel primo caso il benessere è minacciato dalla penuria di mezzi, nel secondo è minacciato dalla confusione sugli obiettivi. Il proliferare delle opzioni rende sempre più difficile capire ciò che si vuole, decidere che cosa non si vuole e aver cura di ciò che si ha.
Il benessere umano ha due dimensioni: quella materiale e quella non materiale. Chi compra del cibo e si prepara una cena ha la soddisfazione materiale di riempirsi lo stomaco e quella non materiale di aver preparato un determinato piatto o di averlo condiviso in buona compagnia. Questa soddisfazione non materiale richiede attenzione, il che significa tempo. Per esperire appieno il valore di beni e servizi è necessario dedicarvi attenzione: bisogna farne un uso appropriato, goderne adeguatamente e coltivarli con cura. Avere troppe cose riduce il tempo per i piaceri non materiali; la sovrabbondanza di opzioni finisce quasi sempre per diminuirne la piena soddisfazione. Quindi la mancanza di tempo degrada la ricchezza materiale. In altri termini, c’è un limite alla soddisfazione materiale, oltre il quale la soddisfazione nel suo complesso non può che scemare. Dunque la frugalità è la chiave del benessere.
In effetti, spesso è proprio l’incapacità di applicare un certo livello di frugalità il cuore del problema del tempo. L’arte di vivere richiede il senso della misura. Il meno può decisamente essere più. La moderna società dei consumi sperpera di continuo la ricchezza del tempo. In un’epoca in cui le opzioni stanno esplodendo, la capacità di concentrazione, che implica la sovranità del dire di no, diventa un ingrediente importante nella creazione di una vita ricca. Senza questa capacità, il lamento del drammaturgo Ödon von Horvarth rischia di diventare una scusa universale: “In realtà, sono una persona completamente diversa; è solo che non riesco mai a dimostrarlo”.
Inutile dire che senza la ricchezza del tempo ci sarà sempre meno generosità, meno compassione, meno dedizione e meno libertà: una sorta di povertà moderna che il pescatore comprende istintivamente e di cui il turista diviene consapevole solo con una certa riluttanza.

Wolfgang Sachs
(traduzione dall’inglese di Andrea Buzzi da
Resurgence, n. 196)

Wolfgang Sachs lavora in Germania presso il Wupertal Institute for Climate, Environment and Energy. Fra i suoi libri pubblicati in Italia:
Archeologia dello sviluppo: Nord e Sud dopo il tracollo dell’Est; S. Martino di Sarsina, 1992.
Scuola dell’obbligo e controllo sociale: motivi per descolarizzare l’apprendimento; Assisi – stampa, 1980
Dizionario dello sviluppo; Torino, 1998
Ambiente e giustizia sociale: i limiti della globalizzazione; Roma, 2002