rivista anarchica
anno 33 n. 287
febbraio 2003


 

Fonti orali e di polizia

È appena apparso in libreria il volume Voci di compagni. Schede di Questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo (C. Bermani, G. N. Berti, P. Brunello, M. Franzinelli, A. Giannuli, L. Pezzica, C. Venza, Quaderni del Centro Studi Libertari Archivio Pinelli, Elèuthera, Milano 2002, pp. 122) che presenta gli atti dei seminari organizzati dal Centro Studi Libertari – da anni impegnato nell’opera di raccolta, catalogazione, conservazione di documenti relativi alla storia dell’anarchismo – sull’utilizzo degli archivi di stato e delle fonti orali nella stesura delle biografie di militanti anarchici. Gli incontri hanno coinciso con l’inizio dei lavori per il Dizionario biografico degli anarchici italiani, nell’ambito delle università di Trieste, Milano, Teramo e Messina.
Le due aree tematiche del libro, curato da Lorenzo Pezzica, forniscono utili spunti di riflessione su strategie e metodologie di ricerca che consentono non solo di ottenere un allargamento quantitativo del patrimonio di dati biografici da un composito materiale documentario – in cui le testimonianze e la memorialistica dei protagonisti occupano un posto di primo piano –, ma anche di apportare nuovi elementi di valutazione storiografica.
Nella prima parte dell’opera, dedicata alle fonti di polizia e di sicurezza (Note introduttive di Giampietro N. Berti; Sull’uso (critico) delle fonti di polizia di Mimmo Franzinelli; Il trattamento delle fonti provenienti dai servizi di informazione e sicurezza di Aldo Giannuli), viene sottolineata l’incidenza del controllo statale, culturale e politico, sulla conservazione e sulla trasmissione della memoria nazionale. Gli informatori e relatori ufficiali testimoniano un’innegabile abilità nel seguire e delineare con una certa precisione atteggiamenti ribellistici a carattere soprattutto individualistico, nell’indicare nomi di delatori o infiltrati della polizia, nel dare informazioni su corrispondenti di personaggi importanti all’interno dell’ambiente anarchico, scontri fra gruppi, fonti di finanziamento, forme di lotta. Tuttavia, non sono, nella maggior parte dei casi, in grado di fornire percezioni delle ragioni profonde di quanto riferiscono, a causa dei pregiudizi ideologici di cui sono impregnati. Infatti, “la pura registrazione dei fatti (anche se opera di professionisti) dice comunque poco rispetto all’effettiva trama di azione e d’intenti che animava veramente i protagonisti” (Berti, p. 16).
A tutto ciò va aggiunto che gli informatori tendono spesso a seguire false piste, ovvero a tacere su fatti di una certa importanza, rischiando così di orientare gli studiosi verso direzioni di ricerca senza sbocco. Molte volte, la mancanza di rigore, di uniformità, nei criteri di distribuzione e inventariazione delle carte d’archivio, l’intrico delle stratificazioni, delle risistemazioni, i compositi modi di strutturazione e trasmissione costringono i ricercatori ad un arduo lavoro empirico, a misurarsi con materiale cronologicamente mal disposto o dal contenuto non in sintonia con il contesto in cui si trova inserito. In particolare, quando la ricerca si colloca in epoca fascista, accade che documenti relativi a questo periodo siano di difficile consultazione, come per quanto concerne una parte del Fondo sul confino politico, o addirittura inaccessibili, come nel caso dell’Archivio Storico dell’Arma dei Carabinieri (Franzinelli).
Complicazioni ancora maggiori intervengono quando si devono consultare gli archivi dei servizi di informazione e di sicurezza, che pure possiedono un notevole interesse documentario su temi quali la sovversione, il terrorismo, lo stragismo. I legami con i governi in carica, l’essere di fatto totalmente svincolati dai controlli della magistratura inducono non solo a frequenti insubordinazioni nei confronti dell’autorità politica, ma anche ad una presunzione di immunità, che si traduce a livello documentario in silenzi, omissioni, notizie false mescolate a notizie vere, ecc. Le lacune, i vuoti cronologici fanno ragionevolmente supporre che l’eliminazione di routine del materiale di questi archivi non venga compiuta conformemente alla normativa che presiede alla distruzione delle carte d’archivio. Di qui, la necessità, da parte dei ricercatori, di particolari cautele nell’autenticare il materiale, nel verificarne la coerenza amministrativa, nel compiere un’analisi del linguaggio, delle note in margine, ecc. (Giannuli).
Le relazioni che vertono sulla produzione e uso delle fonti orali (Note metodologiche sull’uso delle fonti orali di Claudio Venza; Potere, oralità e scrittura. Divagazioni sopra un’intervista di Piero Brunello; Breve elogio della storia orale e militante di Cesare Bermani) mettono in evidenza come queste testimonianze debbano sempre essere valutate tenendo conto delle particolarità dei meccanismi psichici della comunicazione orale, delle forme e dei mutamenti della memoria culturale.
Le analisi dei racconti e interviste di anarchici mostrano le difficoltà nel distinguere gli elementi che concernono l’individualità del militante da quelli che sono espressioni di una cultura collettiva; nel cogliere dalle singole storie dati informativi su ambiti più ampi. Inoltre, chi trascrive vicende riferite oralmente è inevitabilmente coinvolto nella loro rappresentazione, sia a livello simpatetico sia a livello immaginario. In effetti, la rielaborazione delle narrazioni comporta una lettura critica che non è esente da interventi personali. Pertanto, per comprendere a fondo i meccanismi di produzione di senso propri del linguaggio degli intervistati, appare indispensabile un attento esame dei meccanismi che alimentano i discorsi dell’intervistatore. “Se una buona storiografia deve cercare rapporti con la memoria”, anche “una buona memoria deve avere rapporti con la storiografia. Memorie e storiografie rappresentano punti di vista diversi sul passato”, che devono integrarsi vicendevolmente (Bermani, p. 120).
Ne discende l’esigenza di un’adeguata preparazione dello studioso sulla storia delle sensibilità, della capacità di considerare gli atteggiamenti e i comportamenti riferiti dagli intervistati, o trascritti nei loro racconti, come un aspetto del complesso sistema di scambi culturali esistenti in un determinato ambiente sociale. Con ciò si fa riferimento anche a quei fenomeni di circolazione culturale tra gruppi, attraverso cui si costruiscono e si modificano i modelli dell’azione anarchica; ai modi di integrazione o di esclusione nell’ambito delle associazioni anarchiche. Lo studio delle forme in cui si articola o si trasmette nel tempo la memoria degli anarchici comporta un esame dei mutamenti dei modi di vedere il passato, in relazione al mutamento delle forme di esistenza individuali, di gruppo, di habitat geografico, ai processi dello sviluppo demografico, economico, culturale, linguistico, ecc. (Brunello).
Questo carattere in un certo senso sempre in fieri della storia orale, che fa della dimensione del valore della persona il polo di riferimento essenziale, viene visto particolarmente congeniale ad una prospettiva storiografica di tipo libertario volta a cogliere i modi in cui le istanze individuali si integrano con le istanze collettive, salvaguardandoli da interpretazioni standardizzate o in qualche modo precostituite. Esso sollecita gli studiosi a tentare di riprodurre il dinamismo della storia, in cui si intrecciano fatti particolari ed eventi di carattere generale – penso, per fare solo un esempio, al progressivo ampliarsi della problematica concettuale ed operativa avviato dall’intervista a Umberto Tommasini (Venza). Si può anche aggiungere che “forse la storia orale, con la sua molteplicità di riferimenti metodologici e con la sua disorganizzazione intrinseca, è facilmente correlabile con una ricostruzione storica del movimento [anarchico]” (Venza, p. 81).
Per la ricchezza degli spunti e delle osservazioni, l’interesse dei percorsi metodologici proposti, tesi ad evitare arbitrarietà e semplificazioni del giudizio storico, il libro costituisce uno strumento prezioso per la ricerca e la pratica biografica.

Eva Civolani

 

Quasi una recensione

Il 5 novembre 2002 si è tenuta la presentazione del nuovo romanzo di M. Philopat, La Banda Bellini, Shake Edizioni, Milano 2002, pp. 192, € 12,00. Presentazione alla quale doveva partecipare anche Joe Fallisi, autore delle due e-mail che pubblichiamo e che formano un’insolita recensione del libro scritto da Marco Philopat.

Caro Marco,
ti prego di rettificare l’annuncio che la Shake ha inviato: io non ci sarò alla presentazione de La Banda Bellini. Tu sai bene che, nel caso fossi venuto, l’avrei fatto solo per amicizia nei tuoi confronti e di Gomma. Non ho alcun bisogno di pubblicità per nessun mio disco, tanto meno darò il mio appoggio a qualsivoglia apologia dello stalinismo. Come ti ricorderai, parlandomi a suo tempo del libro (di cui, fino a ieri, non mi era stato possibile leggere nulla), mi avevi detto che di quella “banda” il tuo romanzo avrebbe fornito una narrazione critica. Ma già dalla quarta di copertina ci si può rendere conto di quale sia il senso esattamente opposto del libro. “L’uomo che dev’essere ucciso è Andrea Bellini, biondo, capelli lunghi, alto un metro e novanta, un trench lungo fino ai piedi e l’immancabile Ray-ban.” Ma non hai provato vergogna scrivendo queste puttanate estetizzanti? E ti ha veramente commosso, entusiasmato, ti ha fatto “sognare”, l’“epos” (!) di questo piccolo racket votato al “controllo territoriale”, al pestaggio, dieci contro uno – degni eredi di altri infami “servizi d’ordine” milanesi –, di qualche tossico, di qualche “fascista” o, meglio ancora, di qualche compagno scomodo, che li vedeva per quel che erano, e perciò li combatteva a viso aperto?... “Una banda di quartiere che ha scelto la strada della politicizzazione e della militanza, con l’idea di non essere ‘servi di nessuno’ e le immagini di Il mucchio selvaggio nella testa...” Ma a chi lo racconti?...
A me no di certo.
Joe

Rettifica definitiva

“‘Sono i miti che rovinano tutto – nascono dall’ignoranza – bisogna studiare – conoscere le cose – applicarsi – chiedersi i perché – avere spirito critico’” (M. Filopat, La Banda Bellini)

Caro Marco,
come ti dicevo al telefono, devo fare un’ulteriore, definitiva rettifica, ma questa volta al mio stesso e-mail che ti ho inviato in un impeto, l’altra sera. È il tono e anche l’assunto del messaggio che ora ai miei stessi occhi risulta completamente sballato. Cerco di spiegarti cos’è successo. Mi avevi portato La Banda Bellini di pomeriggio, ricordi, poi io ero dovuto subito andar via e solo la sera l’avevo ripreso in mano. La prima cosa: leggo la quarta di copertina, NON mi piace quel ritrattino, estetizzante, mitizzante... incomincio subito a incazzarmi... sfoglio il libro dove capita e il caso vuole (un caso veramente sfortunato) che l’occhio mi cada sempre su frasi, periodi che non mi vanno, che mi confermano quella prima impressione... oh cazzo, mi dico, ma allora si tratterà di un incontro di reduci dell’autonomia più tetra, di sprangatori di merda e vigliacchi, di rackettari abbrutiti, di stalinomafiosi che rimirano allo specchio le loro gesta di “gloria”, dentro ’sto libro... un’apologia infervorata... In un istante mi tornano alla mente i miei nemici del Movimento Studentesco, quei lividi figli di papà adoratori della gerarchia, di tutti i regimi dove il proletariato era rimasto inculato, spolpato sino all’osso, un’immensa ombra che suda, lavora e crepa in silenzio, e dove poteva solo impazzire o strisciare, perché era lui stesso, con la sua rivoluzione, ad aver innalzato sul piedestallo i maiali, i “migliori”, e una volta lassù... facce di marmo, satrapi sorridenti, piccoli Padri, tallone di ferro! inamovibili!... protetti da tutte le loro Cheke, Ghepeù, Kgb, da una rete grandiosa di burocrati e di spie, a passarsi le consegne e il bacio della morte, via una cariatide avanti l’altra... Quei figli stalinisti di papà democristiani che si erano impossessati della Statale come del loro racket, della loro Lubianka, che se la pappavano, incubando le carriere di domani – dirigenti, amministratori, sindacalisti, consulenti, managers, “quadri”, “creativi”... per quando la pacchia sarebbe finita, la moda evaporata, come le grida, i lacrimogeni, gli spari... protetti-protési a ventaglio mobile dalla loro invenzione più riuscita, anzi l’unica: il “servizio d’ordine”!... Spranghe, chiavi inglesi, mazze, catene, tutti i ferri del mestiere ben oliati, sempre all’incanto... ai più sadici, ai più “affidabili”, nati sbirri, cani di Pavlov... ecco le truppe, dieci contro uno, sempre!, all’assalto del “fascista”!... sangue che cola dai muri, cervello sul selciato... ancora, ancora!... La loro “lotta antifascista”, di loro, fascistissimi!... Una palla colossale, una diversione in piena regola... Tutti i problemi veri, cruciali, la critica del lavoro salariato, della merce, della religione, dello Stato, della società dello spettacolo, della vita quotidiana, la coerenza tra mezzi e fini, il rapporto – da reinventare – con le altre speci e la natura, la realizzazione dell’arte... affanculo, ma figùrati!... come il sanscrito per un leghista!... Viva il Pensiero del Grande Timoniere, dagli al fascista!... Eh già, con una piccola avvertenza: sostantivo-aggettivo di grandi capacità, elasticissimo!... Adatto, soprattutto, a inghiottire i senza partito, gli anarchici, i refrattari alla caserma... Parola magica ben sperimentata dai loro maestri, di un’efficacia ammirevole, su chiunque... E con effetti e contro-effetti, teorici e pratici, a lungo corso... Così, per esempio, proprio ora che sì, bisognerebbe essere antifascisti, alla grande – i fascisti sono al potere, “sdoganati” dal nano di Arcore, al governo della malavita!... di antifascismo, più nisba... Un fiorire di celebrazioni funeree doppie, Marzabotto-El-Alamein, torni pure qualsiasi cornuto Savoia!... Tutto scolorito, omologato, dissolto!... Chi se ne frega, a casa, a casa, immersi nel tubo catodico!... Fini, teschio in doppiopetto, vergogna d’Europa, s’appresta a volare tra le braccia del massacratore di Sabra e Chatila, anche lui “revisionista”!... Fra un po’ vedremo Ciampi a Predappio...

I ricordi hanno poi un brusco salto... Vanno alla Milano della fine anni 70... La bomba di piazza Fontana e l’omicidio di Pinelli, mio amico e compagno del cuore, era come se avessero chiuso un’epoca, quella inaugurata dal Maggio, dove accanto a tutti i rigurgiti “marxisti-leninisti”, centomila speranze si erano aperte, un immenso rovesciamento di prospettiva... Adesso, l’atmosfera era di nuovo plumbea, i “ruoli” ri-definiti... C’era stato, sì, un trambusto dei giovani, qualche danza simil-Dadà nel 77, ma come copie di copie di un originale disperso... Risate amare, già televisive... Me ne stavo in disparte, in silenzio. (Troppi morti, troppi suicidi di amici, i più vicini, i più cari, Eddie Ginosa, Giorgio Cesarano, tanti altri... Io non avevo – non ho – da “insegnare” niente a nessuno.) Nell’ombra, i lottarmatisti, clandestini a se stessi, nati da quelle bombe di Stato, coi loro “tribunali del popolo” e la lingua di piombo-legno; alla luce del sole il movimento dell’Autonomia, dov’erano confluiti molti fiumi, e molto diversi tra loro. “Egemonica”, una corrente, quella di Negri, che dal punto di vista teorico e filosofico era una chiavica, un rinculo totale, una corsa febbrile al recupero, sgraffignando a destra e a manca... il vecchio cadavere stalinista rivestito alla moda, “giovanile”, coll’eschimo, “desiderante”!... Modernista, sì certo, con iniezioni di Deleuze e di chiunque altro servisse a dare un qualche tono e l’apparenza di un corpo che cammina... nichilista, estetizzante... Con due cardini ideologici: “contropotere territoriale” e “autovalorizzazione”... Non centri sociali di anti-potere, fluidi, mobili, creativi, imprevedibili (che anche c’erano, per fortuna!), ma piccoli rackets tetri compatti con all’interno tutti i ruoli di sempre, e l’illusione di avere un’identità come un’azione in rialzo e una missione da imporre... Preti, come al solito, missionari, curati del popolo – e quanto ai metodi, gli stessi di v. Festa del Perdono [è la via dove sorge l’Università Statale N.d.R.]... Ma il “popolo” non vi vuole, stronzi!... Vaccata per vaccata, preferisce il bla-bla della televisione, che almeno gli concilia il sonno, si annoia a morte alla vostre litanie!... Ci vuole ben altro per svegliarlo dal torpore... innanzi tutto occorre svegliarsi – e sognare*!... Sputare sulle mode, su ogni “trend”, rompere lo specchio mediatico, “sregolare” i sensi, avere sensi nuovi, agire, non reagire, fantasia, non fantasticheria, poeti, non “artisti”, delegare il meno possibile, non (s)vendere niente, senza capitalizzare niente, senza capi, senza illusioni!... Se siamo immersi in un sortilegio globale, è un’opera grandiosa di contro-magia che occorre, materiale e spiritualissima, poesia in azione, niente di meno!... Autovalorizzazione?... Col cazzo!... La trappola, il busillis, sta proprio lì, nella “costruzione” della “persona”, una maschera dietro cui alla fine c’è il nulla... è proprio questa la chimera spettacolare... Più la vita è per tutti diventata un’immagine astratta, un sostituto, un ricambio, una copia, un clone, un “altro”, la citazione di un film, un ricordo del Grande Archivio, più tutte le scelte fondamentali sono eterodirette, eteronome... più questo stesso individuo, che non esiste, deve potersi credere “protagonista”, un quantum particolare sul mercato dei desideri, liberissimo, circolante, in vendita, in concorrenza, in televisione, in corteo, in gioco, in guerra!... rimbalzato da mille specchi, “produttore immateriale”, puro valore che si valorizza – bit spettrale nella nebbia!... Ecco la Grande Frontiera!... globale, democratica!... Il miraggio, l’Eldorado per tutti!... È l’America, sempre l’America il faro, il destino agognato... L’“Impero”!... ah che geniale trovata!... un’apologia della “globalizzazione” senza vergogna, totale, delirante!...

Mentre questi pensieri mi attraversavano le meningi, ricevo messaggi di vecchi amici che mi dicono in sostanza “Joe, ma ’sta banda Bellini, era una concorrente delle altre, solo un po’ più vanagloriosa e ciulla, la stessa roba avariata, i soliti bruti, picchiatori di piccoli spacciatori e di tossici”... È la loro versione dei fatti – quello che loro hanno vissuto, come l’hanno vissuto... Dovrei sentirne delle altre, non c’è dubbio – col senno di poi... Reagisco come un bufalo... che cazzo c’entra la “Ballata del Pinelli” con ’sta gente? che cazzo c’entro io?... non ci andrò mai!... scrivo di getto l’e-mail che hai ricevuto... è fatta. Passano le ore. Il tuo libro è rimasto su un cumulo di altri, è lì che mi guarda. Rivedo i tuoi occhi brillanti e generosi... Di notte finalmente decido... Vabbè che negli ultimi tempi sei più fuori del solito, una molla ardente, ma tu Bellini e i suoi compagni non li hai mai conosciuti di persona... e se quello che hai scritto non fosse vero, o così esagerato da essere falso?... E poi, cristo d’un dio, se critichi un libro dovrai pure averlo letto, tutto!... o no?... Certo. Quindi lo riprendo in mano, questa volta comincio dall’inizio. E vado avanti fino all’ultima pagina, rimanendo così, in piedi, per ore...
Prima di tutto, è BELLO, e questo già dovrebbe bastare, perché per me bello vuol dire scritto con la mente e col cuore... La penna funziona alla grande, morde e non fugge, va diritta, rabbiosa e sincera fino in fondo. Quel che mi aveva fatto incazzare, la mitizzazione, i tratti estetizzanti, si perde dentro il corpo della narrazione, come una foglia morta che scivola via... E poi la storia che racconti, che sei riuscito a raccontare benissimo, con una capacità di identificazione eccezionale, tu che ai tempi eri un bambino, non nasconde nulla, con onestà; ma, appunto, l’essenziale della loro esperienza non si può ridurre a quei comportamenti che avevo definito nel mio messaggio... Anzi, tutt’altro... Certo alieni dalla riflessione teorica, confusi – mezzo maoisti, mezzo libertari –, sempre (troppo) pronti a menar le mani, narcisi, prigionieri di un ruolo... ma infamie, porcate di quelle che ti rimane un marchio nell’anima... nessuna!... da questo punto di vista molto più differenti che simili rispetto ad altre “bande” di allora... anzi con episodi di generosità, di umanità e di coraggio che me li rendono semmai simpatici, pur con tutto quello che ci poteva separare... All’inizio, per esempio, quando racconti di Andrea che al liceo si butta nel mucchio e salva dal linciaggio un... fascista!** ...

I pentiti mi hanno sempre fatto schifo, e tutta l’ideologia penitenziale, tutti gli avvoltoi che si precipitano, i turiboli che ansimano, quella puzza di chiesa, i gemiti, le confessioni, i tradimenti, i mea culpa, il piacere di umiliarsi e umiliare, tutta la riduzione dell’essere a croce, a polvere, a sputo... Gli scricchiolii delle ginocchia che si piegano al mio orecchio hanno lo stesso suono delle catene... No, niente “pentirsi”, mai! meglio morire, meglio andarsene!... Noi siamo, anche, il nostro passato, che lo si voglia o no. Si può solo guardarlo intrepidi, con piacere a volte, ma anche con orrore, senza “far quadrare i conti” barando, senza ricucirsi alla meglio il vestito, e, se ne abbiamo la forza, fare meglio. Questo è quello che conta, nient’altro.
Quel tanto di ingenua mitizzazione che c’è ne La Banda Bellini è in fondo solo un omaggio al meglio della loro esperienza. E forse proprio il tuo libro, così, solleva Andrea e i suoi amici da un ruolo, e dai ricordi peggiori. Ora possono andare avanti, togliere l’àncora, ripartire per l’ignoto. Quanto alla morte, è l’unica cosa sicura, per tutti.
Con affetto e stima:
tuo
Joe

Joe Fallisi

* “Da lungo tempo Cavallo Pazzo stava attendendo l’occasione di cimentarsi in battaglia con le Giacche Blu. In tutti quegli anni, dal combattimento di Fetterman a Fort Phil Kearny, aveva studiato i soldati e il loro modo di combattere. Ogni volta che si recava sui Black Hills per avere visioni, aveva chiesto a Wakantanka di dargli magici poteri così egli avrebbe saputo come condurre gli Oglala alla vittoria se gli uomini bianchi fossero venuti di nuovo a fare la guerra al suo popolo. Sin dalla giovinezza Cavallo Pazzo sapeva che il mondo in cui vivono gli uomini è solo un’ombra del mondo reale. Per entrare nel mondo reale doveva sognare e quando vi si trovava ogni cosa sembrava ondeggiare o saltare: questo avveniva perché si chiamava Cavallo Pazzo. Egli aveva appreso che se sognava se stesso nel mondo reale prima di partecipare a un combattimento, avrebbe potuto sopportare qualunque cosa.” (Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Oscar Saggi Mondadori, Milano 1977, p. 305)

** “L’aitante fascistello rimane lì – mezzo morto – gli vanno addosso tutti quanti – ricucendo sulla carneficina le divisioni e le lacerazioni politiche... Siccome a me fa schifo vedere il linciaggio di un povero cristo svenuto e sanguinante – mi metto di mezzo a urlare più forte di tutti che questa è una vigliaccata – ‘Non si spara sui feriti – non si può mica farlo fuori cazzo!’ – ‘È un poveraccio – un ragazzo giovane – come si fa a massacrarlo così (...)” (M. Filopat, La Banda Bellini, Shake, Milano 2002, p. 55)

 

Scena prima. Arrivo di Fanelli. Azione

La nuvola di fumo del locomotore che trasporta Giuseppe Fanelli in una non specificata stazione di Barcellona apre in maniera del tutto inusuale il primo volume di un corposo e ambizioso progetto editoriale partorito dagli studi di Francisco Madrid Santos e Claudio Venza.
L’Antología documental del anarquismo español (Francisco Madrid Santos, Claudio Venza (a cura di), Antología documental del anarquismo español. Volumen 1. Organización y revolución: De la Primera Internacional al Proceso de Montjuic (1868-1896), Madrid, Fundación de Estudios Libertarios Anselmo Lorenzo, 2001, 483 pp., € 17,00) vuole rispondere alla necessità di “riposizionare” lo studio storiografico sull’anarchismo in Spagna alla luce delle fonti. E di una raccolta di fonti si tratta; o, per meglio dire, di un viaggio attraverso le elaborazioni ideologiche, i dibattiti, le autorappresentazioni degli anarchici spagnoli, guidato attraverso un efficace apparato critico che comprende la ricostruzione storica delle varie scansioni temporali e i profili biografici dei più importanti nomi che compaiono in calce ai documenti.
Si tratta di articoli comparsi sulla – precaria ma diffusa – stampa di movimento dell’epoca, di documenti ufficiali prodotti dalle organizzazioni, di interventi apparsi in opuscoli e libri.
L’utilità di questa enciclopedica fatica, concepita in sei volumi che usciranno al ritmo di uno all’anno, sta nel recuperare in prossimità ciò che è stato il movimento anarchico in Spagna. Nel tentativo di oltrepassare da una parte sia le letture ideologiche della storiografia classica di stampo marxista e liberale, con la loro tendenza all’appiattimento del significato e della presenza dell’anarchismo nella Penisola Iberica sulle categorie di arretratezza, ingenuità, millenarismo, sia il permanere “inconscio” di alcuni di questi comodi modelli esplicativi in ricerche successive, e dall’altra evitando allo stesso modo una lettura ideologica speculare tendente all’apologetico.
Ai curatori preme sottolineare un altro aspetto importante, ovvero il tentativo di fermare l’attenzione sull’“anarchismo” in senso specifico e plurale, oltre la prospettiva tipica che vuole per la Spagna un occhio di riguardo per l’importante affermazione storica dell’anarcosindacalismo.
Le linee principali scelte per la selezione dei testi sono di tre tipi: le forme di lotta, i modelli organizzativi e le posizioni teoriche dibattute. Accanto a queste chiavi di lettura compaiono filoni specifici come il ruolo della donna, la questione ecologica, l’antimilitarismo, l’anticlericalismo, il campo educativo, la proposta federalista rispetto alle questioni nazionali e regionali.
La partizione cronologica segna la divisione in volumi: il primo, che abbiamo oggi fra le mani, parte dalla nascita dell’Internazionale per chiudersi con il Processo di Montjuic (1868-1896), il secondo affronterà il nuovo secolo fino alla rottura rappresentata dalla Rivoluzione Russa, il terzo si occuperà del periodo della dittatura di Primo de Rivera, gli anni del “pistolerismo” e della clandestinità, il quarto del breve ma intenso periodo della Seconda Repubblica e il quinto del classico e problematico binomio rivoluzione sociale-guerra civile per gli anni 1936-1939. Un sesto volume dovrebbe infine comprendere una panoramica storiografica dei modelli interpretativi, una bibliografia ragionata e gli indici.
Un prezioso strumento, insomma, per gli studiosi del tema. Un “punto e a capo” per comprendere più a fondo le radici e le ragioni dello sviluppo dell’anarchismo nelle terre del Mediterraneo occidentale.

Andrea Dilemmi

 

Negras tormentas e altre storie di Alfonso Font

Viene giusto dall’essere pubblicato un interessante libro, che, in una splendida edizione perfettamente rispettosa del tratteggio coscienzioso, come dei segni graffianti, come dell’ammirabile tecnica dei neri, raccoglie tre storie disegnate dal catalano Alfonso Font e sceneggiate rispettivamente, oltre che dall’autore stesso, da Juan Antonio de Blas e Victorio Mora.
Sono tre storie non «casuali», come denuncia già il titolo «Negras tormentas» famoso incipit della più famosa (insieme a «Hijos del pueblo») canzone anarchica cantata nel periodo della rivoluzione del ’36/’39: l’inno noto come «A las barricadas», recentemente inserito anche in un’emozionante sequenza del film «Terra e libertà» di Ken Loach.
Sono tre storie nemmeno precisamente definibili di spirito libertario, anche se lo sguardo che si rivolge agli anarchici è ovviamente carico di una certa simpatia. Sono tre storie che appartengono al fumetto, diremmo, «classico d’avventura», lontano da sperimentalismi formali e narrativi, frutto di un sapiente artigianato che mira a raccontare in modo secco e obbiettivo una realtà. Sono tre storie importanti, perché come «un bengala nel buio», aprono gli occhi su luci ed ombre di un periodo troppo celebrato per essere realmente conosciuto.
La prima, che dà appunto titolo al volume, fa un meritorio lavoro di scavo nel «clima» in cui si andavano addensando queste «nubi nere»: il tempo era propizio a bruschi cambi di scena politici, a dittature militari, come quella di Primo de Rivera, con la precisa intenzione di affondare il colpo nelle solide organizzazioni anarchiche, CNT in testa, in via di proliferazione troppo significativa e quindi preoccupante per le «forze dell’ordine».
Il «clima» era quello della nascita degli stati totalitari che insanguinarono la storia europea del primo dopoguerra, delle formazioni di pistoleri, sicari e assassini, che non proprio legalmente ma assai ben tollerate, sul modello della famigerata Pinkerton nordamericana, venivano assoldate dal padronato per «mazziare» i protagonisti della progressiva sindacalizzazione di una classe operaia allora quasi egemone nel mondo del lavoro.
Un brutto clima dunque, nel quale Font costruisce quest’intricata Spy story barcellonese, con per protagonista un intraprendente giornalista, con un passato di rivoluzionario al seguito di Pancho Villa e Nestor Machno, che si trova ad indagare su uno sporco traffico, verso la Germania, di armi destinate al partito nazista non ancora al potere.
Fra le comparsate più nobili, accanto a numerosi compagni anonimi, per la verità qui non sempre simpatici, fa la sua parte persino un accigliato Durruti.
La seconda e la terza storia sono invece due brevissimi squarci aperti sulla miseria della condizione umana nel corso della guerra, persino di una guerra che palmo a palmo difendeva le conquiste della revolucion. Sono due frammenti trascurati di un’epopea esaltante, ma che, come tutte le guerre, ha avuto anch’essa il suo carico di necessarie separazioni, di terribile degradazione della vita a mera sopravvivenza, di riduzione del corpo a dolente pezzo di carne in fuga fra una bomba e una speranza impossibile di sazietà.
La linea dell’autore è nervosa senza essere problematica, grottesca senza mai sacrificare troppo del realismo che ne è un tratto saliente. I bianchi e neri curati in un buon equilibrio di esigenze della grafica e dei pesi e convinto rispetto della plausibilità naturalistica. Le tavole costruite, per lo più, su una solida impostazione a strisce uguali, a rimarcare le esigenze squisitamente oggettivanti e narrative di Alfonso Font.
Il volume, ripeto, molto ben curato dal punto di vista grafico (lamentiamo giusto un lettering un po’ affrettato e deficitario dal punto di vista della revisione delle bozze), è notevolmente arricchito dalle ampie introduzioni ad ognuno dei racconti, approfondite e utilissime ad inquadrarli nella loro cornice storica, come anche a fare il punto sull’arte e sul talento dell’autore; tali introduzioni sono di Claudio Venza per la parte storica e, per il resto, dell’importante e noto studioso di fumetti Graziano Frediani.

Alessio Lega

Il volume è richiedibile ad ApARTe°/Fabio Santin, casella postale 85 succ. 8 – 30171 Mestre (Ve). Il costo è di 15,00 euro a copia da versarsi sul conto corrente postale N. 12347316.

 

Questurini e Anarchici

Nella storia del conflittuale rapporto fra gli organi di repressione dello stato e i movimenti sovversivi, e nella fattispecie quello anarchico, tutto ciò che raggiunge gli onori della cronaca, come le perquisizioni, gli arresti, i teoremi accusatori, i processi e così via, non è altro che il punto di arrivo di un lungo, sotterraneo e silenzioso lavoro precedente. Un lavoro paziente e organico, finalizzato alla raccolta di quelle informazioni che permetteranno poi, alle questure e ai comandi dell’Arma, di intervenire, se del caso, con gli strumenti repressivi che ben conosciamo. Al tempo stesso, però, l’opera degli informatori e degli infiltrati, l’attenta lettura dei giornali e dei documenti, l’uso delle più aggiornate tecnologie per l’intercettazione e il controllo telematico, fanno sì che il funzionario del Ministero degli Interni venga formando, a fianco del materiale d’indagine, un apparato documentale di indiscutibile valore storico. Infatti, se sul momento le informazioni raccolte vanno ad esclusivo beneficio dell’inquisitore e dei suoi intenti repressivi, queste stesse informazioni, una volta che siano state archiviate, diventeranno un utile strumento d’indagine per lo storico. E paradossalmente, alla fine dei conti, ad utilizzare i dati sarà, con tutta probabilità, un ricercatore intenzionato a ricostruire, con oggettività e rigore scientifico, la storia reale del nostro movimento. Ribaltando così, alla faccia del voyeurismo questurinesco, il lavoro organizzato e finanziato dal Ministro degli Interni.
Sempre interessate, anche se con una doverosa diffidenza, a questa miniera di documenti, puntigliosamente raccolti e conservati dallo spione di turno, oggi tutte le scuole storiografiche, a differenza di un passato contraddistinto dalla ostilità degli storici «di sinistra» e dall’uso spregiudicato e strumentale di quelli «di destra», compiono nuove riflessioni sulle carte di polizia, interrogandosi non solo sulla validità scientifica del loro utilizzo, ma anche, e soprattutto, sulla possibilità di filtrarne i contenuti per depurarli dalle inevitabili scorie lasciate dall’ostilità degli estensori. In pratica, su come rendere asettiche, e non inquinate, tali informazioni (1).
È di questi giorni un interessantissimo libro di Giorgio Sacchetti, ricercatore al dipartimento di storia all’università di Teramo, stimato studioso dei movimenti sovversivi e militante della Fai (Giorgio Sacchetti, Sovversivi agli atti. Gli anarchici nella carte del Ministero dell’Interno, Ragusa, La Fiaccola, 2002) nel quale l’autore, oltre ad aggiungere un nuovo tassello alla storia del movimento anarchico italiano del novecento, e in particolare di quello del secondo dopoguerra, si interroga su come le carte di polizia possano effettivamente aiutare il lavoro dello storico. I periodi presi in considerazione sono due: il primo, descritto al capitolo «Anarchici e pubblica sicurezza (1921-1943)» affronta i duri momenti della sconfitta del movimento proletario seguiti alla occupazione delle fabbriche, concretizzatisi poi nel buio periodo dell’esilio e della clandestinità; il secondo, «Attenzione Gabinetto Ministro dell’Interno (1944-1966)», tratta un periodo ancora poco frequentato dalla ricerca, vale a dire gli anni della cosiddetta ricostruzione, allorché il movimento anarchico riannoda i fili di quel percorso militante che va dalla nascita della Federazione Anarchica Italiana alla sua drammatica scissione nella seconda metà degli anni sessanta (2).
Sacchetti, fin dalla introduzione, spiega le coordinate del suo lavoro, informandoci che «oggetto di questa ricerca sono gli anarchici ‘visti’ attraverso i documenti prodotti dalle strutture di controllo e repressione dello Stato». E attraverso questa particolare chiave di lettura, così esplicitata e dichiarata, la narrazione viene ad assumere un angolo di visuale del tutto particolare, laddove a fianco della interpretazione dello storico si offre puntualmente la citazione della nota questurinesca, anche se questa raggiunge, non di rado, effetti di involontaria, paradossale, comicità («Failla ha sostenuto che soltanto nell’Unione Sovietica esiste un sistema di governo che si avvicina alla concezione anarchica della società e che tutela gli interessi degli operai [...]»), ogni volta che la foia indagatrice o il desiderio di ben figurare dell’infiltrato di turno stravolgono, più o meno volutamente, il più elementare buonsenso. Il fatto, del resto, che nonostante la necessità di raccogliere notizie veritiere e utili per il lavoro di controllo e repressione, spessissimo le informazioni raccolte risentano palesemente di pregiudizi ideologici, di paranoie complottistiche, di deformazioni professionali, perfino del desiderio di offrire al superiore notizie tanto più clamorose e ‘importanti’, quanto false, obbliga lo storico attento e coscienzioso, e l’ironico Sacchetti è senz’altro da annoverare fra questi, a compiere un ulteriore lavoro di verifica delle fonti. Ma se l’autore ne è ben consapevole, e non a caso compare come esergo la citazione di Nico Berti «[...] in conclusione per lo storico dell’anarchismo le fonti di polizia sono indispensabili per ricostruire la cornice dei fatti. Quasi mai per interpretare il quadro esistente entro tale cornice», il risultato sarà particolarmente prezioso, perché, oltre ad aggiungere un tassello alle nostre informazioni su come lavora il nemico, ci permetterà anche di approfondire, con una nuova «fonte di fonti», la conoscenza della nostra storia.

Massimo Ortalli

note:
(1) Vd. la recente pubblicazione Voci di compagni Schede di questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo, Milano, Quaderni del Centro Studi Libertari Archivio Pinelli, 2002, che raccoglie le relazioni presentate da Bermani, Berti, Brunello, Franzinelli, Giannuli, Pezzica e Venza ai seminari tenutisi a Milano nel gennaio e nell’aprile 2002.
(2) Le fonti prese in considerazione, conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato, sono, per la prima parte, la Serie annuale del fondo Direzione Generale della Pubblica Sicurezza categoria K1-A (anarchici), i fondi «Stampa sovversiva e clandestina», «Associazioni», «Confino Politico» e il fascicolo Guelfi Giuseppe fu Oreste, intestato a un ‘anarchico’ confidente della polizia; per la seconda, la «Busta 78» che raccoglie le informative sul movimento anarchico sottoposte all’attenzione del ministro dell’Interno fra il 1944 e il 1966.