Sperando che dall’Affare che Benigni
e C. hanno fatto con il Pinocchio cinematografico venissero
spiccioli per tutti, gli editori italiani – una bella fetta
tanto bella da rappresentare la torta intera – hanno buttato
sul mercato miriadi di Pinocchi. E, negli entusiasmi immediatamente
successivi, non si è badato a contenere lodi sperticate
in nome di una positiva “trasgressione” che, testo
e sua storia alla mano, con Collodi e con Pinocchio ha ben poco
a che fare. Anche chi dimentica Collodi e punta tutto su Pinocchio
– come se il personaggio uscisse per conto suo da chissà
chi e che –, lo può fare soltanto a patto di serie
amputazioni del testo originale.
Carlo Lorenzini, in arte Collodi (che era il paese della madre),
è nato a Firenze nel 1826. Frequenta scuole religiose,
fa il giornalista e il volontario in quelle prime due guerre
che (1848 e 1859) con molta benevolenza nei confronti di casa
Savoia qualcuno continua a definire come “d’indipendenza”.
Fonda la rivista “Il lampione”, ma gliela chiudono.
Fa il romanziere, ma campare è difficile e, dunque, prima
che sia troppo tardi “salta il fosso”: si trova prima
un bell’impiego nella censura teatrale e, poi, alla Prefettura
di Firenze. Da censurato a censore.
Poi, salta un altro fosso. Diventa scrittore per bambini. Edificante
e ribaldo, più edificante che ribaldo. Pinocchio
uscirà a puntate nel 1881 (ne “Il Giornale per i
bambini” di Ferdinando Martini) e in volume nel 1883, pubblicato
da Felice Paggi di Firenze, con le illustrazioni di Enrico Mazzanti,
un ingegnere convertitosi al disegno. Ma già nel precedente
Giannettino (1875) si evidenzia con chiarezza il quadro
ideologico all’interno del quale si muove l’autore.
Elargite da un nauseante “dr. Boccadoro”, si tratta
pur sempre di istruzioni per i bimbi buoni. Istruzioni del tipo:
“Non grattarti mai in testa né altrove”, “Non
lavarti le mani con la bocca”, “Non pulirti le unghie
a tavola, né in faccia a persone di riguardo”, “A
tavola non porgere il tuo piatto prima degli altri”, ecc.
Più nozioni varie, dall’anatomia alla geografia,
dalla botanica alla storia – assecondando l’ideale
di una cultura basata sul Galateo. Il che lo rese “benemerito
dell’istruzione pubblica dell’Italia appena unita”.
Dagli articoli “politici” di Collodi desumiamo altri
elementi. Per esempio, la sua infatuazione per quel Piemonte
che “cominciava a palesarsi come un punto luminoso verso
il quale si rivolgevano tutti gli occhi e tutte le speranze
della grande famiglia italiana”. Oppure, la sua ammirazione
per Pio IX, “carattere naturalmente amorevole”, che,
tuttavia, lodevolmente, plaude al “santo grido che proruppe
da un capo all’altro della penisola”, “Guerra!
Guerra!”. Per lui “la storia è una mitologia
noiosa. Non ci trovi di veramente vero, altro che le date, quando
son vere!”, la politica è “la filossera del
buon umore” e, come diranno più tardi in tanti che
avrebbero fatto meglio a tacere, “si stava meglio, quando
si stava peggio”. In particolare, a Roma i ministri rubano
i soldi degli italiani e, in generale, l’uomo è
un animale zeppo di contraddizioni (tanto che, già che
c’era, consigliava di tenersi lontano dall’istruzione
elementare).
Miscela dunque una forma decisamente asettica di critica di
opposizione a compartecipazione agli utili della società
in cui vive. È maestro di benpensantismo mantenendosi
lamentoso nei confronti di chi del benpensantismo approfitta.
Non va alla radice delle questioni – Stato e capitale la
fanno franca – e, dunque, sembrerebbe un perfetto qualunquista.
Il che è anche confermato andando più in profondità.
Per esempio, giungendo a quello che potremmo chiamare “il
problema epistemologico di Pinocchio”. Ovvero alle implicazioni
ideologiche di un naso – quello di Pinocchio – che
cresce ad ogni bugia. Il che significa anche che qualcuno –
lassù, Autorità o Fatina Azzurra che sia –
sa cosa sia questa verità e penalizzi quindi di conseguenza
chi la falsifichi. Tanta fiducia nella verità è
più che sospetta: si tratta della verità della
filosofia – quella che proviene da un impossibile confronto
fra l’ordo idearum e l’ordo rerum, fra
qualcosa di esterno e una sua presunta copia interna –,
non la verità del nostro pensare e parlare comune, come
risultato di un confronto fra due costrutti ugualmente nostri
effettuato in tempi diversi.
Se la verità è l’invenzione di un bugiardo
(come dice Von Foerster), dovrebbero crescere i nasi di tutti
coloro che dicono la verità spacciandola per tale (preti,
filosofi, scienziati, questurini sociali vari) – mentre
Pinocchio sarebbe uno dei pochi con un giusto naso proporzionato.
Ma se cresce il naso a Pinocchio in seguito alla bugia, è
l’autore che, accogliendo implicitamente tutta una teoria
del mondo e contraddicendosi, mostra tutta la sua codardia di
intellettuale che vien pagato per ciò che scrive.
Felice Accame
P.S.: Nel brodo dell’attuale menu ci finisce
di tutto. Anche Pinocchio. Che per Francesco Merlo (cfr. Prefazione
al Pinocchio del “Corriere della Sera”) era
sostanzialmente “anarchico”. Un ennesimo abuso della
categorizzazione, speculare a quello in grazia del quale si
può designare a colpo sicuro il responsabile o irresponsabile
autore di stragi, assassinii e devastazioni.
Per gli articoli “politici” di Collodi, cfr. Pinocchietto
politico, M&B edizioni, Milano 1998.
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