rivista anarchica
anno 33 n. 287
febbraio 2003


politica internazionale

Il Bene e il Male
di Antonio Cardella

 

L’America ha sempre più in pugno la leadership dell’Occidente. E mentre l’ONU declina…

Ad ogni inizio d’anno è difficile per un commentatore politico sfuggire alla suggestione di tentare un bilancio dell’anno appena trascorso. È una suggestione tutto sommato futile: i tempi relativi dell’economia, della politica, della trasformazione della società non si lasciano cadenzare dall’anno solare; importante, viceversa, quest’ultimo, per le ormai scomparse comunità contadine tradizionali, per le quali dal succedersi ordinato delle stagioni dipendeva la prosperità o meno della quotidianità annuale.
Nelle lente dinamiche dei processi di lungo periodo, tuttavia, si aprono delle crepe, degli spiragli attraverso i quali è possibile illuminare scorci di vita vissuta nei quali si rivelano le tendenze complessive, ma anche le perversioni che le attraversano e le sofferenze che provocano.
In questo senso l’anno appena trascorso non è stato un anno ininfluente, in primo luogo perché ha sancito in maniera esplicita il primo epilogo di un processo che parte da tempi assai lontani, secondo alcuni addirittura dalla scoperta dell’America e l’inizio delle grandi colonizzazioni; secondo il mio modesto punto di vista, assai più recentemente, dalla definitiva sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre, dall’unico tentativo concreto, cioè, di temperare l’egemonia del mercato con politiche sociali eticamente volte ad una ridistribuzione più equa della ricchezza ed alla valorizzazione del lavoro, inteso come strumento di promozione individuale e collettiva in una società pacificata: quel processo di lungo periodo – dicevamo – che, come tappa fondamentale registra l’unificazione sostanziale dell’Occidente sotto l’egemonia americana e l’emarginazione, al sue esterno, di tutto il resto del mondo. Con la parallela beatificazione del sistema di produzione capitalistico, identificato con il Bene assoluto, da contrapporre al Male, rappresentato da istanze politiche, religiose o semplicemente di visioni del mondo che all’Occidente si contrappongano.
In un articolo precedente mi sono già occupato di quel documento dell’amministrazione Bush, reso noto nel mese di settembre, nel quale, senza alcun pudore, l’America, prendendo coscienza della sua smisurata potenza militare, pretende, nella sostanza, di decidere le sorti del mondo e di demarcare una volta per tutte la linea di separazione tra il suo diritto – affermato come l’unico legittimo – di conseguire i suoi fini e di perseguire con ogni mezzo chiunque a questi fini dovesse in qualche modo opporsi, e il diritto alla sopravvivenza degli altri.
L’enormità delle affermazioni contenute nel documento porterebbero a definirlo in prima istanza demenziale; poi, però, ci si pensa un po’ e si scopre che, nei fatti già accaduti o in via di accadimento, quelle che a prima vista sembrano farneticazioni, sono il registro corretto dello stato del mondo.
Nell’ultimo decennio, a partire, cioè, dalla Guerra del Golfo, il diritto internazionale – che, bene o male, aveva regolato i rapporti tra le nazioni e le cui trasgressioni erano individuate sulla base di norme largamente condivise – è stato vanificato dall’arroganza di un’America in pieno delirio d’onnipotenza, spalleggiata dal resto dell’Occidente che, per calcolo o per debolezza, non ritiene di avere altra alternativa se non quella di agganciare il proprio vagone al treno statunitense.

“Occidentalizzare” il mondo?

Da parte di tutte le potenze industrializzate c’è, naturalmente, l’esigenza di assicurarsi le risorse energetiche (e a prezzi sostenibili) in una congiuntura economica assai difficile, e per i dati congiunturali e per il processo di globalizzazione tutt’altro che agevole, anzi fortemente contrastato, oltre che da spinte eversive esterne, dalla contraddittorietà delle stesse dinamiche interne alla struttura capitalistica: da questo punto di vista, l’instabilità dello scacchiere mediorientale è un pericolo incombente difficile da controllare se non con misure pesantemente repressive.
D’altra parte, una linea meramente repressiva, attuata con il consenso di tutte le maggiori potenze, Russia e Cina comprese, assicura l’inalterabilità delle zone d’influenza che tali potenze vantano nell’Asia centromeridionale. Così, per esempio, la Russia ottiene mano libera nello sconcio conflitto che la oppone al popolo ceceno; alla Cina nessuno contesta più la sistematica repressione attuata nei confronti delle popolazioni del Tibet; per non parlare della concussione dei diritti dei curdi, dei palestinesi e delle minoranze etniche oppresse in molte parti del mondo.
In questo panorama, il declino dell’ONU è la lapalissiana controprova dell’eclissi di un progetto di convivenza internazionale basata su norme largamente condivise.
Ormai – questa è l’amara verità – si tende a prendere atto che la guerra è l’unico mezzo per tacitare quelle voci che non siano in sintonia con le dinamiche imposte dal modo di produzione capitalistico. La legge del mercato, la competizione e le disuguaglianze evangelizzate come “naturali” e insostituibili motori del progresso, hanno innescato un processo che prevede l’eliminazione fisica dei diversi, di quanti, cioè, non intendono adeguarsi alla nuova morale della produzione e del consumo.
Nella stolida lucidità di vecchio nostalgico di regimi totalitari, Gustavo Selva ha mirabilmente sintetizzato questa filosofia, quando, se non vado errato, in Parlamento, ha dichiarato che la Terza Guerra Mondiale è necessaria per occidentalizzare il Pianeta. Solo che, se si accetta questa logica, sarà difficile non relativizzare il concetto di “Occidente”, perché il conflitto tra i ricchi e i poveri, i potenti e gli inermi che questa visione del mondo cristallizza, non si articolerà più, come si pretenderebbe, tra nazioni elette e paesi “canaglia”, ma estenderebbe le conseguenze della “naturale inevitabilità e radicalità del conflitto” all’interno stesso dei paesi che si ritengono forti e potenti.
Ed è questo un fenomeno che possiamo toccare con mano, un fenomeno crescente che intravediamo attraverso una di quelle brecce che illuminano il corso della vita concreta dell’uomo contemporaneo, nell’alveo di quei processi di lungo periodo, cui abbiamo accennato all’inizio del nostro discorso: per effetto di un’esistenza sempre più scandita dalla legge del più forte, l’individuo avverte la propria vulnerabilità, si sente impotente, ininfluente rispetto agli avvenimenti e tende naturalmente a schierarsi con i più forti, o, almeno, con coloro che avverte come tali, rinunciando a regolare la propria condotta secondo principi etici che indichino la via del giusto piuttosto che quella dell’utile.
Un egoismo pavido e infelice, privo di passione e di futuro, che emargina l’uomo nella zona grigia della paura e dell’irresponsabilità.
In quest’ottica va vista e spiegata la crisi della sinistra nel mondo occidentale.
In un contesto privo di regole che non siano quelle dei potenti, dispiegate quotidianamente con arroganza impunita, è difficile richiamare e coalizzare i cittadini in nome della solidarietà e della giustizia sociale. Il compromesso e la ragion di stato finiscono coll’appannare le motivazioni e la condotta di quanti dovrebbero rappresentare, nelle istituzioni, le ragioni dei più deboli.
Così, tra la partecipazione (sofferta?) ad iniziative belliche insensate (ammesso che ve ne siano di sensate) e il collateralismo a politiche di affossamento dello stato sociale, la sinistra, specie in Europa, si illude di potersi ancora sedere, da comprimaria, nel tavolo in cui si svolge un giuoco che dovrebbe esserle del tutto innaturale.
Questo, purtroppo, è quanto avviene nello scenario internazionale, che si riverbera poi, naturalmente, nei rapporti di forza tra progressisti e reazionari all’interno delle singole nazioni.

Alcuni scricchiolii

Per fortuna, però, la storia non ha mai registrato processi irreversibili: imperi, dominazioni, dittature non sono mai riusciti a sottrarsi al principio naturale che qualunque cosa si muova sotto il sole ha un inizio, uno sviluppo ed un’eclissi.
Sarà così anche per il modello di sviluppo, per le logiche oppressive che attualmente prevalgono nel mondo occidentale.
E alcuni inghippi, alcuni scricchiolii significativi cominciano a manifestarsi.
Intanto l’economia: nel medio periodo, le borse hanno accusato perdite significative: segno che la speculazione trova sempre meno spazio per mascherare l’obiettiva debolezza degli apparati industriali in America e in Europa. Si comincia a produrre con difficoltà e le risposte dei consumatori sono sempre più timide. L’insicurezza del quadro politico complessivo consiglia di misurare con più oculatezza le spese. Così i consumi – che sono gli indici più credibili per giudicare gli andamenti economici – sono dovunque decrescenti. Il rapporto deficit/Pil è in sofferenza sia in Europa che in America, e ciò significa che, per mantenere in qualche modo in equilibrio i bilanci annuali, le economie nazionali sono costrette – come avviene in Italia grazie al genio di Giulio Tremonti – a ipotecare sempre più spesso ricchezze future ed eventuali: che è un modo ingenuo di mascherare i deficit reali.
Questo quadro, che, con sottolineature diverse, è generalizzabile a tutto il fronte del capitalismo maturo, ha un’importanza determinante nella gestione dei conflitti. Così, mentre la necessità di controllare sempre più rigidamente le fonti energetiche dovunque esse si trovino, porta ad inasprire i conflitti con gli stati non allineati che le detengono, le guerre regionali che si scatenano di volta in volta hanno, per coloro che si proclamano i guardiani del mondo, costi sempre meno sostenibili, specie in periodi di ristagno, se non proprio di recessione.
Forse è solo una coincidenza che proprio adesso la Corea del Nord rilanci platealmente i propri programmi di riarmo nucleare. Può pure darsi però che i topolini prendano coscienza della loro capacità di terrorizzare gli elefanti.
E questa eventualità richiama precedenti storici inquietanti per i massimi sistemi che pretendono di governare il mondo.

Antonio Cardella