rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


ricordando Giorgio Gaber

Libertà non è star sopra un albero
di Piero Brunello

 

Il cantattore, recentemente scomparso, nel ricordo di persone “comuni”.

Circa due anni fa dovevo presentare a Mestre il cd La mia generazione ha perso, perciò chiesi a persone che conosco, di età diverse, di raccontarmi qualcosa sul tema: “Le canzoni di Gaber nella mia vita”. L’incontro fu annullato all’ultimo momento: Gaber era già malato, e non poté venire.
Come si può immaginare, Gaber, che è del 1939, è ascoltato soprattutto da chi nasce tra il 1940 e i primi anni Sessanta, e ha potuto conoscerlo per esperienza diretta (prima in tv e poi a teatro) oppure grazie a dischi e cassette di fratelli e sorelle maggiori. Sotto i trenta-trentacinque anni è facile trovare chi non ne sa niente, o tutt’al più ha intravisto nei programmi di revival in televisione il Gaber di Torpedo blu e degli spettacoli di varietà.
Per queste fasce più giovani, il fatto di non conoscere Gaber può essere considerato come una cosa ovvia (“mai sentito”); vissuto con il rimpianto per un’epoca di cui si è sentito tanto parlare (“mi sono mancate le sue canzoni”); rivendicato come segno del conflitto tra generazioni (“la vostra generazione ha perso? è quello che vi abbiamo sempre detto”).
Le canzoni di Gaber hanno a che vedere con la politica.
Il fatto cioè di amarle o meno, viene ricondotto non a faccende musicali o di teatro, ma all’impegno politico. Anche qui conviene seguire le diverse generazioni.
Silvano, operaio del Petrolchimico, sui cinquant’anni, ricorda di Gaber “una vecchia canzone sull’operaio che va dal dottore; l’operaio è pieno di tic e di problemi dovuti al lavoro alienante”. Si era alla fine degli anni Sessanta, e Gaber, mi dice Silvano, “è uno dei pochi cantanti che ha capito cosa vuol dire fare l’operaio”. Eppure, faccio io, in quegli anni l’operaio era quello a braccia conserte nello sciopero, battagliero e all’avanguardia delle lotte, maschio, adulto e tutto d’un pezzo: anzi, non si parlava di singoli individui, ma di classe operaia. “Ma anche all’epoca delle lotte – mi ha risposto Silvano – l’operaio rimaneva l’individuo solo e sfruttato da un lavoro alienante di cui parla Gaber: e solo se sentiva quella solitudine e quell’isolamento, un operaio poteva sentire la solidarietà, ciò che lo univa agli altri”.

“Il personale è politico”

Claudio mi racconta che Gaber è stato la colonna sonora della sua vita tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando, sui vent’anni, ha comperato Il signor G, Dialogo tra un impiegato e un non so, Anche per oggi non si vola, Libertà obbligatoria e Polli di allevamento, ritrovandovi l’idea che “il personale è politico”. «Mi piacevano i testi – racconta –, il suo modo di parlare dei problemi. Mi chiedo oggi perché Gaber mi piacesse. Credo perché era un modo per tornare al personale, al corpo, al sesso, all’amore, alla famiglia, alla politica, senza l’ideologia che dava risposte a tutto e su tutto. Mi faceva tornare coi piedi per terra, ai problemi che avevano tutti. A cominciare dalle ragazze. Quelle con cui si usciva erano femministe. Bisognava leggere Noi e il nostro corpo e Dalla parte delle bambine prima di uscire con loro. Per un periodo una con cui sono uscito, di Lotta Continua, diceva: “Non sta rompere ’a figa”, invece che “rompere el cazzo”, che era maschilista. Ora mi hanno detto che è diventata testimone di Geova. Bene, Gaber cantava di sesso, di orgasmo, di rapporti con le donne, senza ipocrisie (a me pareva). Metteva in evidenza le contraddizioni della famiglia, dei rivoluzionari di professione ipocriti, della società borghese, quella che noi contrastavamo: aveva rabbia dentro di sé”.
Altra canzone ricordata per i suoi legami con la politica di quel periodo è Io se fossi dio, del 1980. Piero, anche lui ventenne all’epoca, mi ha detto di possedere un unico 33 giri di Gaber, con quella canzone che l’ha segnato perché “fece scalpore ed ebbe problemi con la censura per i riferimenti ad Aldo Moro”. Altri ricordano che ascoltare Io se fossi dio, spesso da cassette che giravano tra compagni, sembrava un prolungamento della militanza.
C’è chi ricorda la forte emozione di ascoltare Qualcuno era comunista, negli anni Novanta, perché faceva sentire il valore di ideali disprezzati “dopo la caduta del muro”. Damiano l’ha ascoltata al Teatro Comunale di Treviso. «Sentivo crescere dentro, assieme ad una fortissima emozione, la convinzione di essere dalla parte giusta, che essere “comunisti” è l’unico modo per essere uomini, che non può essere che così».
Com’è successo per molti cantautori, è il contesto politico a dare significato alle canzoni di Gaber. La cosa si verifica anche per canzoni che sembrano avere poco a che fare con la politica. Racconta Daniela: “Le canzoni nella mia vita sono di Baglioni, però quando facevo politica mi piaceva ascoltare Shampoo, mi sembrava adatta al periodo”. Le ho chiesto il perché. «Il periodo – mi ha risposto – è circa la metà degli anni Ottanta e facevo parte del direttivo del PRI della cittadina dove allora abitavo. Eravamo in pochi ed ognuno aveva le sue simpatie: chi idealizzava i socialisti di Craxi e quindi: “Uniamoci a loro!”, chi non si staccava dal motto: “La DC ci fa ponti d’oro se votiamo i loro progetti (leggi intrallazzi)”. Io con tre amici facevo parte di una minoranza, la sinistra repubblicana. Il nostro programma consisteva in questo: diminuire l’impatto ambientale dei rifiuti e delle acque urbane (allora la cittadina non aveva un depuratore e la cava di cui si serviva il comune si stava riempiendo). Cercai di informarmi e leggere il più possibile. Cosa non facile! Allora lavoravo 10 ore in fabbrica, preparavo la cena, lavavo i piatti e se non crollavo dalla stanchezza, leggevo oppure uscivo a far politica. Io non lo sapevo, ma i giochi con la DC erano già stati fatti. Dopo una discussione feroce me ne tornai a casa. Per calmarmi accesi la radio e trasmettevano la canzone di Gaber, Shampoo. Il giorno dopo mi comprai il disco e mi feci uno shampoo, non restava altro».

Ma non c’è un solo Gaber

La centralità della politica nel modo di ascoltare le canzoni di Gaber spiega perché si trovi da discutere sul matrimonio tra uno come lui e sua moglie, pubblicamente schierata con Berlusconi. I più giovani possono cogliere il lato paradossale della cosa. Federico mi dice: “Ad ogni modo, chi ha voluto dire tanto per generazioni prima della mia e si ritrova con una moglie di Forza Italia va sostenuto con tutto il calore possibile”. Dall’altro invece c’è chi, come Ornella, cinquantenne, vi trova la conferma delle sua diffidenza: “Gaber dice che loro due discutono molto. Mi piacerebbe sapere di che e su cosa trovano un accordo”.
Ornella non ha più seguito Gaber dopo le prime canzoni. Ma non c’è un solo Gaber, ce ne sono tanti, secondo le fasi della sua attività. Chi ama un’epoca, precisa se ama o no anche quelle successive. I giudizi sono netti. Non ci sono vie di mezzo. I ricordi parlano di “scoperta” quando lo si ascolta per la prima volta, e di “rifiuto”, quando viene abbandonato e non lo si segue più.
C’è chi si ferma al Gaber della prima maniera. Michele Serra racconta di una partita allo stadio di San Siro, nel 1981, quando Gaber viene riconosciuto da molti come il cantante che lavorava “alla televisione”, “quello di Porta Romana e del Cerruti Gino, quello che partecipava al festival di Sanremo e a Canzonissima” (M. Serra, Giorgio Gaber. La canzone a teatro, Il saggiatore, Milano 1982, p. 13). La stessa cosa ricorda Filippo di uno spettacolo teatrale a Mestre dei primi anni Novanta: «Ero in platea, circondato soprattutto dall’eleganza casual di persone nate intorno agli anni Cinquanta; alla fine tutti in piedi a battere le mani e a cantare in coro “il mio nome è...” e “barbera e champagne...”».
Persone molto coinvolte nell’impegno politico lasciano Gaber quando non vi ritrovano più le proprie convinzioni, o quando sentono che i suoi testi mettono in dubbio il senso della militanza e degli ideali. Ornella, come dicevo, ha lasciato Gaber presto: “Ho amato il Gaber di Non arrossire e delle primissime canzoni, poi basta. La sua famosa Libertà non è star sopra un albero mi ha sempre urtato per la sua banalità. Non ho più ascoltato le canzoni di Gaber, e neppure so quali sono”. Claudio ha smesso quando gli sembrò che anche Gaber si fosse adattato al coro di quanti, alla fine degli anni Settanta, dichiaravano chiusa la politica: “Si andava da un posto all’altro in cinquecento e si cantava Libertà non è star sopra un albero, Shampoo e altre. Anche se devo dire che la canzone che mi piace di più è Dall’altra parte del cancello sui malati di mente nei manicomi e sul concetto di normale. A un certo punto non ho più comperato niente. Con la crisi della politica, la fine degli ideali che avevamo, sentire anche lui che girava il coltello nella piaga delle mie illusioni, sull’inutilità della politica, sulla crisi esistenziale della mia generazione non mi è più piaciuto”.
L’esistenza di dischi e cassette permette uno scambio tra generazioni: i giovani imparano dai vecchi, ma anche viceversa. Nadia, trentaquattro anni, ha trovato delle cassette in casa. Erano di sua sorella, più giovane di lei, che le aveva ricevute in regalo dal fidanzato. Le ha ascoltate e ha scoperto Qualcuno era comunista. “La canzone mi aveva colpito forse perché, non ancora trentenne e uscita dalla Fgci dopo il crollo del muro di Berlino, mi sentivo orfana. Ho continuato ad ascoltarla ed è uno di quei pezzi che mi fanno venire i brividi e il magone ogni volta”. Qualche tempo dopo, in un viaggio in macchina con i suoi genitori, Nadia e il suo compagno si portano dietro anche le cassette di Gaber. «I miei genitori – racconta Nadia – hanno un passato di militanti comunisti dentro al Pci: la domenica diffusione porta a porta dell’Unità, le ferie a montare gli stand alle feste del partito, il primo maggio cortei di macchine piene di bandiere rosse a colpi di clacson per paesi e paesini, le campagne elettorali in salotto a ripiegare fogli ciclostilati e poi farsi chilometri a imbucarli nelle buche delle lettere, la bandiera col nome “Sezione Di Vittorio” cucita in casa… Ma ritorniamo al nostro viaggio in macchina. Quando è arrivata l’ora di Qualcuno era comunista ho chiesto ai miei di ascoltare. Loro non l’avevano mai sentita. Alla fine della canzone, ascoltata in silenzio, mi sono voltata. Non potevo vedere mia madre che era dietro di me, ma potevo vedere mio padre. I suoi occhi erano rivolti al finestrino, lucidi. Allora volsi anch’io gli occhi al finestrino». Non parlo di partiti o di gruppi politici, e dei loro errori anche gravissimi, ha aggiunto Nadia: “quello che ho visto negli occhi di mio padre è la vita quotidiana spesa con molte altre persone a inseguire un sogno di giustizia, di uguaglianza, di libertà”.
Le canzoni di Gaber vengono contrapposte da un lato a quelle sentimentali, per esempio di Baglioni, dall’altro lato alle canzoni di lotta, da coro, per esempio di Guccini. La contrapposizione con Baglioni esprime il contrasto tra impegno e disimpegno; quella con Guccini esprime il contrasto tra individuo singolo e gruppo organizzato.

Anarchico, cane sciolto

Anche quando viene sentito “dalla propria parte”, si capisce che Gaber non lo è mai fino in fondo. Negli anni Settanta si poteva cantare La libertà (“Libertà non è star sopra un albero…”), e Shampoo; poi basta. Le successive canzoni di Gaber sono fatte per un ascolto individuale. Da allora, le sue canzoni sono la colonna sonora del contrasto amaro tra ciò che si dice e si crede di fare, e ciò che si è. Raccontano non la parte teatrale che recitiamo, quello che sembriamo o vogliamo sembrare in pubblico, ma ciò che siamo quando siamo soli e ci guardiamo allo specchio.
La critica ai generi di discorso della sinistra e la dimensione individuale, fanno sì che le canzoni di Gaber piacciano negli ambienti libertari. Questo vale non solo per le canzoni scritte più di recente per il teatro, assieme a Sandro Luporini, ma anche per quelle degli anni Settanta. Davide, trentacinque anni, ha scoperto Gaber, assieme agli altri cantautori impegnati, grazie alle radio libere e alle cassette dei fratelli, di parecchio più vecchi di lui. Allora era piccolo e ricorda Libertà obbligatoria e Polli d’allevamento. «Ascoltavo Tennis, in cui un gruppo di mucche si alzano in volo e cagano su dei giocatori di tennis e sulle loro bianche magliette con il coccodrillino, e pensavo alla mia insegnante di italiano di allora, fanatica di Montanelli e del “Giornale”, e che ci parlava del figlio maestro di tennis. E ricordo anche un pezzo in cui Gaber esponeva la sua teoria sui partiti che scivolavano verso destra, per cui la nonna che votava Dc nel dopoguerra si trovava a votare Dp senza aver cambiato idea”. Gaber gli sembrava diverso dagli altri, anche perché ricorda un libro di testi di Gaber in cui “nell’introduzione, credo di Michele Straniero, lo si definiva un anarchico, un cane sciolto”.
Quando ho detto a Claudio che sarebbe venuto Gaber, mi ha detto: “Gaber a Mestre? Dimmi quando, perché quando c’è lui, la vendita militante del nostro giornale anarchico ha dei picchi”. Claudio, che collabora a un foglio anarchico, mi ha spiegato che “il pubblico di Gaber compra il nostro giornale”. Per capirne di più, ho voluto allora sentire Paolo, della mia generazione, che mi ha risposto così: «Due flash. Milano, Teatro dell’Arte, primi anni ’70. Gaber sul palco attacca con la durezza del suo sarcasmo la buona borghesia progressista, le sue ipocrisie, i suoi tic. Mi ritrovo ad applaudire. Mi guardo intorno: è uno scroscio generale di applausi. Aguzzo lo sguardo: sono proprio loro, l’oggetto dei suoi strali, a spellarsi le mani dagli applausi. Boh!
Milano, redazione di “A”, 1976. Gaber, con un suo amico (non ne ricordo il nome, era un docente dell’Università di Cosenza), ha accolto l’invito a venire a fare quattro chiacchiere con noi anarchici della rivista “A”. È anche l’epoca del Comitato Spagna Libertaria, da noi costituito per aiutare gli anarchici spagnoli nella difficile stagione di trapasso dal franchismo al post-franchismo. L’impressione che a me, allora venticinquenne, fa quell’uomo è forte. È timidissimo, ha dei suoi codici molto diversi dai nostri militanti, ma sento che a suo modo è “uno dei nostri”. Spiega il suo no alla nostra proposta di una serata politica con lui in teatro, stacca un assegno per la Spagna libertaria, se ne va. Un quarto di secolo dopo, continua a piacermi. Anche a farmi incazzare. E pone interrogativi scomodi».
Tutte le testimonianze concordano su una cosa: “scomodo” è un aggettivo che va bene per parlare di Gaber.

Piero Brunello

*Le foto che accompagnano l'articolo sono di Reinhold "Deny" Kohl