rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


ricordando Giorgio Gaber

L’uomo spappolato
intervista di Luciano Lanza
a Giorgio Gaber

Nel 1976 “A” intervista Gaber. Rileggendo oggi, 26 anni dopo...

A partire dal 16 novembre Giorgio Gaber ha iniziato, al Teatro Lirico di Milano, la rappresentazione del suo nuovo spettacolo “Libertà obbligatoria”, scritto in collaborazione con Luporini.
Da diversi anni gli spettacoli di Gaber rappresentano un fatto culturale rilevante e ogni nuovo spettacolo suscita un ampio dibattito. In questi giorni molte radio libere hanno ospitato Gaber per dibattere le sue scanzonate critiche alla società dei consumi, per trasmettere le sue canzoni e i suoi divertenti monologhi che mettono a nudo i problemi sommersi da pseudovalori. Gaber, al di là del divertimento, trasmette allo spettatore la sua angoscia di artista e di uomo che vede la distruzione dell’individuo in questa società massificata tutta protesa nell’adorazione del nuovo Moloch: la produzione, a cui tutti più o meno inconsciamente ci immoliamo.
La ricerca di Gaber sull’individuo è arrivata a maturazione, e “Libertà obbligatoria” ha uno spessore di contenuti e di analisi decisamente superiore agli spettacoli precedenti. Dopo aver assistito a una rappresentazione, abbiamo voluto incontrare Giorgio Gaber. Con lui abbiamo discusso a lungo delle tematiche sviluppate in questo suo ultimo lavoro.

Facciamo un discorso generale sullo spettacolo. Mi sembra che negli altri spettacoli che hai fatto, sempre puntati sull’esame dell’individuo, ci fosse però anche un discorso più generale sulla società. In quest’ultimo spettacolo, invece, mi sembra che tu sia andato ancora più verso l’individuo e il discorso sociale, che pure è presente, è ormai solo fatto in rapporto all’individuo.

Non condivido molto quello che hai detto perché mentre negli spettacoli precedenti i problemi individuali erano scissi da quelli sociali, in questo spettacolo non c’è differenza tra il politico e l’esistenziale. Mi pare che il discorso sia continuo. Parte con i reduci del ’68 e descrive la crisi dell’individuo con la sua perdita di identità, il suo non sapere chi è, il suo bisogno di avere una carta di identità per riconoscersi e lo segue in tutti gli sforzi che fa per togliersi di dosso questo peso della produzione che lo schiaccia, la sua ricerca di libertà che troppo spesso si rivela non antagonistica al sistema e alla produzione. Quindi ho abbandonato in un certo senso il discorso teorico staccato, e ho tentato di inserirlo nella nostra esistenza. Ecco, a parte Lona, la canzone del cane, che è più legata agli spettacoli precedenti, mi sembra che lo spettacolo abbia una sua continuità, nello sforzo dell’uomo di trovarsi.
D’altra parte, parlando dell’individuo spappolato di oggi non si poteva non parlare della sua impossibilità di avere dei rapporti umani validi.

Nella canzone Lona c’è un discorso che è strettamente legato alla coppia, c’è questo senso di oppressione causato dagli affetti dove l’amore è una “cambiale che prima o poi la paghi” e che finisce con una dichiarazione di impotenza perché alla fine Lona la porteresti sul camion se tu fossi un camionista. È il vecchio ricatto dell’amore che chiede senza chiedere.

Io tenderei a fare una grossa distinzione fra l’isolamento e la solitudine perché mentre il primo ti viene sempre imposto dal sistema, la solitudine è una cosa fondamentale nella vita di un individuo perché nella solitudine ciascuno di noi deve conoscersi e accettarsi per quello che è. Altrimenti ognuno porta le sue angosce, le sue nevrosi, la sua difficoltà ad accettare se stesso all’interno della coppia, del gruppo o della comune e, inevitabilmente la coppia, il gruppo, la comune risentono di tutti questi problemi e te li ributtano in faccia. Ecco, io credo che solo dopo essersi accettati nella solitudine si possa poi riuscire ad avere un rapporto di coppia.
Nello spettacolo concludo il primo tempo con L’uomo che muore. Dopo aver analizzato l’individuo sotto molteplici aspetti arrivo alla sua morte, all’accettazione della morte per la vita, per la vita dell’uomo nuovo. Oggi tutti parlano… il sistema parla di ricomporre quest’uomo che è a pezzi, che il sistema stesso ha mandato in pezzi, perché il sistema capitalistico è quello che brucia di più, che consuma anche i valori dell’uomo. Oggi tutti dicono rivalutiamo in modo nuovo il lavoro, la famiglia ma questo non è più possibile perché non si possono ricomporre i pezzi in cui l’uomo è ridotto perché l’uomo vecchio non è più proponibile. L’unica soluzione è reinventarsi, attraverso l’accettazione di se stessi per quello che siamo. È un discorso un po’ incasinato, ma che mi piace perché dà questo senso positivo alla morte, cioè dà la capacità di rinnovarsi, di andare avanti.
La seconda parte dello spettacolo è invece più positiva. Da una visione, anche se confusa, dell’uomo spappolato, si passa alla ricerca dei mezzi per uscire da questa situazione, l’uomo cerca la sua identità rivoluzionaria.

Il monologo La coscienza è molto bello, con quella immagine della coscienza individuale che è un salvagente e la coscienza collettiva che è un canotto. Bisogna quindi ricongiungere queste due coscienze perché altrimenti da una parte continuiamo a preoccuparci solo dei nostri foruncoli personali e ad andare in India e dall’altra diamo un calcio nel sedere alla moglie perché siamo impegnati politicamente, siamo sul canotto, abbiamo la coscienza collettiva. Ecco, questo discorso del personale e del politico è un po’ di moda, non ti sembra?

A me non piace per niente questa divisione che è assolutamente artificiosa. Non esiste il personale e il politico. Esiste l’individuo che è l’uno e l’altro insieme, e non può essere diversamente. Non si tratta quindi di ricomporre il personale e il politico, ma si tratta di vivere ogni momento come momento politico, globalmente.

E qui arriviamo al discorso più strettamente politico che si fa nel secondo tempo, sui partiti e sul loro slittamento. E mi sembra che i partiti si siano abbastanza risentiti per la tua presa in giro, vedi la critica apparsa sull’“Unità”. Tu critichi i partiti, ridicolizzi le elezioni e poi passi al discorso sulla libertà e sulla massificazione. E nel monologo Il tennis tu dici: “non giocate al tennis, giocate al calcio”, che è come dire rivendicate la vostra cultura di classe. Ma oggi esiste una cultura popolare di cui ci si potrebbe riappropriare?

No, non è possibile. Ma quello che mi premeva di sottolineare è che da un lato esistono individui che accettano passivamente tutto quanto viene loro propinato dal sistema e dall’altro esistono quelli che credono di porsi in modo antagonistico al sistema, ma il loro antagonismo è fasullo e nel giro di breve tempo viene subito recuperato. Vedi la moda dei jeans che ormai alimentano vere e proprie industrie. Questi due tipi di individui vengono comunque massificati, non esiste più alcun tipo di differenza né nei gusti né culturale. Siamo arrivati all’appiattimento.
“Panorama” e “L’Espresso” non sono reclamizzati da Carosello eppure tutti comprano queste riviste. Nessuno ci ha imposto di vestirci in un certo modo, siamo noi che lo scegliamo credendo di essere antagonisti, ma in realtà non lo siamo per niente perché tutte le nostre scelte sono comunque funzionali alla produzione. Siamo quindi liberi e schiavi allo stesso tempo.

Siamo arrivati alla critica dell’America.

Tutto questo appiattimento, di gusti e anche di personalità, ci deriva, secondo me, dal modello americano importato di “libertà”. Il divorzio, l’aborto legalizzato, non sono conquiste che possono veramente cambiare la nostra vita, servono solo a rendere più funzionale il sistema. Come non cambiano la qualità della nostra vita la scelta di andare in India, di portare un orecchino, di mettersi i jeans. Noi crediamo, i giovani credono in questo modo di diversificarsi ma in realtà cadono in un altro tipo di conformismo e di massificazione di derivazione americana.
Il fatto più tragico, è che oggi non sappiamo più niente, non sappiamo chi sono i nostri nemici perché ce li ritroviamo anche dentro noi stessi e quindi non sappiamo contro chi e come combattere. Io ad un certo punto dico paradossalmente che mi piacerebbe avere un dittatore. È ovvio che si tratta di una sparata, ma in questo modo voglio far scaturire un desiderio di chiarezza, quella chiarezza che oggi non esiste. Quando c’era il fascismo tu potevi accettarlo passivamente, accettarlo attivamente o potevi ribellarti sapendo a quali conseguenze andavi incontro. Ma sapevi sempre contro chi combattevi, con chi avevi a che fare. La situazione era chiara. Un regime dittatoriale ci può togliere la libertà, mai le nostre idee. Il regime socialdemocratico di stampo americano e italiano ci toglie le nostre idee, i nostri gusti, la nostra personalità. È come un cancro che ti entra nel corpo e che non riesci più a toglierti. È una “libertà obbligatoria”, e questo è un po’ il senso di tutto lo spettacolo.

Nel monologo Incontro con Marx, infatti, Marx dice “i padroni stanno diventando impersonali” e questa analisi mi fa venire in mente Paul Sweezy. Mi sembra che qui ci sia l’operazione politica più precisa che tende a mettere in ridicolo i marxisti attuali; ma tu cosa ti proponevi con Il sogno di Marx?

Io riconosco a Marx, nella mia ignoranza, un certo senso del movimento della storia. Ho citato lui per prendere in giro la figura del militante marxista di oggi che si muove spinto da una fede vera e propria nei dogmi marxisti che ritiene intoccabili, che crede in Marx come in un Dio. Poi mi interessava approfondire il discorso sulle classi, sui padroni, sull’imperialismo, che è un imperialismo di pace e non di guerra, e sulla produzione vista non più come un nemico individuabile ma come un nemico che si infiltra nelle tue fibre si tramuta in cancro sociale.

Abbiamo discusso finora dello spettacolo che, tra parentesi, è molto bello, che scava a fondo nell’individuo e nella società portandone alla luce molte magagne; però quando lo spettacolo finisce hai l’impressione che l’individuo Gaber, in definitiva, non prenda posizione.

Non saprei rispondere a questa tua impressione. Quello che è certo è che la mia posizione è quella che emerge dallo spettacolo; lo spettacolo mi rappresenta, se lo spettacolo è sfumato vuole dire che la mia posizione è sfumata. Non ci sono strategie precise dietro lo spettacolo. Io dico quello che penso, le cose che mi interessano e attraverso lo spettacolo cerco di spiegarmi il più possibile. Direi proprio che lo spettacolo sono io.

Luciano Lanza
(ripreso da “A” n. 52 del dicembre 1976-gennaio 1977)

Dal monologo I partiti:

…E mia madre, la mamma, una santa…
Azione Cattolica… destra della DC, nel dopoguerra…
Ha votato PCI.
E allora uno dice: com’è cambiata la mamma!…
Che dialettica!…
No lei è rimasta uguale, tale quale.
Sono i partiti che…ssvvtt!…slitten…slittano! Viva!…
E se i partiti slittano, da vecchio uno si trova a essere
più rivoluzionario…nominalmente.
Io ci ho un figlio…extraparlamentare.
Non beve, gente seria che non scazza.
Ecco, se rimanesse lì…
DP…quella roba lì…tra tre o quattro anni…
Un partito di centro!…ssvvtt!…
Capito lo scivolo?
Bisognerebbe saltare sempre,
come fa la lepre…
E chi ce la fa?

*Le foto che accompagnano l'articolo sono di Reinhold "Deny" Kohl