rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


guerra e propaganda

La foto strappata
di Maria Matteo

Ricordando la “buona amicizia” tra l’amministrazione USA e la coppia Osama Bin Laden e Saddam Hussein.

Il quotidiano inglese “The Independent” un paio di mesi orsono pubblicò una vignetta in cui erano raffigurati Saddam Hussein e Bin Laden, i due pericoli pubblici numero 1, quelli contro i quali George II, il presidente dei petrolieri e dei mercanti d’armi, ha scatenato la guerra santa contro il terrorismo, la guerra permanente, la guerra, minaccia Bush, destinata a durare 30 anni.
Nella vignetta del giornale inglese i ritratti di Saddam e Bin Laden erano incollati insieme alla meno peggio, come in un fotomontaggio mal riuscito. In altre due vignette si vedevano le immagini «originali», quelle nelle quali i due erano ritratti accanto al presidente degli Stati Uniti durante un colloquio amichevole. Il vignettista di “The Independent” raffigurava così un fatto universalmente noto: la trascorsa buona amicizia tra l’amministrazione USA e due personaggi le cui innegabili malefatte in altri tempi erano taciute o giustificate in nome della lotta con il satanasso dell’epoca, rappresentato dai regimi dell’Est europeo. Tramontato l’impero del male, gli scenari sono cambiati e le alleanze di un tempo sono state a gran velocità messe nell’archivio in cui giacciono le cronache ormai muffite.
Non è certo abitudine dei libertari scandalizzarsi per il cinismo dei potenti, della loro sfacciata disinvoltura, di un’etica le cui coordinate variano velocemente nel tempo e nello spazio a seconda delle alleanze e degli interessi del momento. Vale comunque la pena in questa tragica vicenda della seconda guerra irachena o, per meglio dire, della seconda fase di un conflitto ormai ultradecennale, osservare la doppia morale delle argomentazioni con le quali gli Stati Uniti hanno preteso di giustificare il massacro. Si sono moltiplicate le biografie di Hussein, gli articoli volti a dimostrare la natura perversa e criminale dell’uomo. Non sono neppure mancate le cronache dell’infanzia infelice, dura, povera, di un bambino dai natali oscuri. Come non di rado accade il nemico è sempre in qualche modo affetto da una patologia: il suo attaccamento al potere, la sua ferocia, la sua volontà predatoria «devono» essere connotate patologicamente. In questo modo, il proprio attaccamento al potere, la propria ferocia, la propria volontà predatoria assumono le vesti rassicuranti della necessità. Una necessità magari dolorosa ma ineludibile: come il bisturi di un chirurgo.

Quei 100.000 morti nascosti

Intendiamoci. Il presidente iracheno è indubbiamente un lestofante di prima caratura. Peccato che, nel lontano 1988, quando le sue truppe gasavano a morte gli abitanti dei villaggi del Kurdistan iracheno, solo pubblicazioni e riviste underground fossero disponibili ad ospitare i reportage e le impressionanti immagini della strage perpetrata. Rammento con quale fatica gli studenti curdi nel nostro paese facevano circolare le notizie di quel genocidio. Secondo Amnesty International le vittime toccarono le 100.000. Oggi quei morti anonimi, in una regione di cui i più allora ignoravano persino l’esistenza, sono saliti alla ribalta delle cronache, come tassello, tra i tanti, della macchina propagandistica statunitense. Naturalmente, come nella foto strappata dell’“Independent”, il governo degli Stati Uniti omette di dire che nel periodo dei massacri perpetrati dal governo di Saddam nelle regioni curde, così come nella precedente guerra tra Iran ed Iraq, il sostegno politico, militare ed economico al regime iracheno non è mai venuto meno. A dire il vero il milione di morti nel feroce conflitto tra Iran e Iraq resta per lo più sepolto nella sabbia della memoria, poiché, non dimentichiamolo, l’Iran continua a far parte dell’asse del male e, quindi, quei morti non hanno valore propagandistico.
Tutti oggi ricordano che la prima guerra del Golfo ebbe inizio a seguito dell’invasione irachena del Kuwait, i più dimenticano tuttavia, che gli USA, fieri paladini della sovranità kuwaitiana, non molto tempo prima avevano mostrato ben altro atteggiamento nei confronti di Panama e della sua sovranità. Le ormai famose «pistole fumanti» sono giuste se nelle mani degli autoproclamati difensori della libertà e della democrazia. Armi nucleari, missili intercontinentali, ordigni batteriologici o chimici divengono strumenti del diavolo o «portatori di pace» a seconda di chi li impugna. La guerra degli USA è giusta perché sono giuste le sue ragioni. Come dice il Cavalier Berlusconi, dopo averci liberato dal nazismo e dal comunismo, i prodi americani ci solleveranno dalla minaccia del feroce Saladino, dalla barbarie islamica. Costi quel che costi, noi tutti e il popolo iracheno in primis, gusteremo i frutti della pax americana. Una pace che per 13 bambini su 100, nei dieci anni dopo la prima guerra nel Golfo, ha significato non arrivare a 5 anni, raddoppiando il tasso di mortalità infantile registrato prima dell’inizio del conflitto. La stessa pace che ha portato a 6.000 casi di leucemia al mese tra i bambini. Una pace che ha visto drasticamente ridursi l’accesso all’acqua potabile, alle cure, ai medicinali, al cibo per una popolazione massacrata dalle bombe e stremata dall’embargo.
Nella fase guerreggiata del primo conflitto in Iraq vennero sganciate 88.500 tonnellate di bombe. Il “Washington Post” lo definì il bombardamento più concentrato della storia. Di queste bombe, solo il 7% era costituito da «ordigni» intelligenti, ossia il fiore all’occhiello della propaganda americana, quella cui si deve la mirabile invenzione della guerra chirurgica, quella che interviene per asportare il male senza danneggiare il paziente. In realtà oggi sappiamo che i proiettili all’uranio impoverito, usati massicciamente in Iraq, ne hanno gravemente contaminato l’aria e il suolo e sono all’origine di quella che è stata definita la «Sindrome del Golfo». Oltre a decine di migliaia di iracheni, ne sono stati colpiti diversi militari statunitensi reduci dal Golfo che si sono ammalati o hanno generato figli deformi. Quale tipo di «chirurgia» gli USA avessero applicato in Iraq viene chiarito già pochi mesi dopo la fine della prima guerra del Golfo sulle pagine del “Washington Post”: «Anche se molti dettagli sono stati chiariti, le interviste a coloro che sono stati coinvolti nella scelta dei bersagli, svelano tre principali contrasti con la precedente posizione dell’amministrazione Bush, incentrata su una campagna mirata unicamente alla distruzione delle forze armate irachene, dei loro mezzi di rifornimento e del loro comando. Alcuni bersagli, soprattutto nella fase finale della guerra, furono bombardati principalmente per determinare degli effetti post bellici sull’Iraq, non per influenzare il corso del conflitto in sé. Gli strateghi ora dicono che il loro intento era distruggere o danneggiare strutture preziose che Baghdad non avrebbe potuto riparare senza assistenza da parte di paesi stranieri... A causa di questi obiettivi, i danni agli interessi e alle strutture civili, invariabilmente descritti dai relatori durante la guerra come ‘collaterali’ e involontari, a volte non lo sono stati affatto».
Gli USA hanno usato armi di distruzione di massa, massacrato indiscriminatamente la popolazione civile, affamato e assetato un intero paese in una guerra feroce. Oggi Bush II si accinge a finire il lavoro iniziato da suo padre, si prepara alla soluzione finale, all’ultimo atto della «tempesta nel deserto». Quando è «giusta» la guerra è pace, come nella sin troppo spesso inverata distopia del buon vecchio Orwell.

Maria Matteo