rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


politica internazionale

Segni di un tramonto
di Antonio Cardella

 

Tra smanie di guerre, crisi economiche, paura e instabilità.

Noi anarchici siamo sempre stati – e siamo – contro la guerra, non soltanto per le vittime e le immani sofferenze che procura, ma anche perché, armando la propria mano, l’uomo cede alle ragioni della violenza, rinuncia a esercitare la propria razionalità, soffoca la carica umana che gli è (o dovrebbe essergli) connaturata, acquisisce infine la cattiva coscienza di chi misura le forze non per aiutare i propri simili ma per entrare con loro in una competizione che, spesso, purtroppo, comporta l’eliminazione di chi è ritenuto avversario.
Ma se ripudiamo la guerra, non siamo mai stati e non siamo neutrali, nel senso che ci siamo sempre schierati dalla parte dei popoli, che, da qualsiasi versante militino, sono gli unici a soffrire le conseguenze dei conflitti e rimangono di norma estranei alle ragioni che li provocano.
Questa bussola che non abbiamo mai cessato di orientare correttamente, ci è di ausilio anche oggi, sebbene la dimensione dello scontro e la radicalità delle motivazioni che lo innescano sembrano trascendere le logiche tradizionali delle guerre tra stati.

Ottusa e armata planetizzazione

Il fatto del tutto nuovo e rischiosissimo è che si tenta di coinvolgerci nell’ottusa, e armata, planetizzazione dei valori del mondo occidentale, nella presunzione speciosa che siano gli unici a garantire progresso e libertà per tutti.
Nella realtà, almeno su alcuni di questi valori esiste un dibattito assai serio e serrato all’interno stesso del mondo occidentale e tocca innanzitutto l’equa distribuzione delle risorse naturali, e di quelle prodotte, tra tutti gli abitanti del pianeta, i cui quattro quinti sono attualmente o vittime del sottosviluppo, o addirittura languono al di sotto della soglia di povertà.
È – come tutti avrete capito – il problema della globalizzazione che, così come è impostato dai paesi dell’occidente, passa, come la guerra, al di sopra della testa delle genti e, come la guerra, produce vittime e miseria diffusa.
Vista con gli occhi di alcuni osservatori, anche assai qualificati, i processi e le istituzioni che regolano l’espansione del modello economico occidentale hanno imboccato una strada senza uscita, che non risolve (anzi, non affronta neppure) i problemi della povertà e per ciò stesso innesca conflitti a catena, che coinvolgeranno, nel tempo, tutte le aree del pianeta.
Nel mio piccolissimo, sono d’accordo con questa visione pessimistica della situazione e cercherò di spiegarne le ragioni.

Danni incalcolabili

Come modello teorico, la globalizzazione prospetta l’universalizzazione delle leggi del mercato, della libera circolazione dei capitali e della concorrenza.
A presiedere e a guidare la globalizzazione sono tre istituzioni principali: il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), tutti organismi da sempre egemonizzati dagli USA, anzi, dalle lobby economiche finanziarie americane.
Ebbene, queste istituzioni sino adesso hanno provocato danni incalcolabili e non soltanto nei paesi in cui sono intervenuti per modificare situazioni di collasso economico-politico pericolose per l’Occidente, ma nell’Occidente stesso, incapace di pararne i contraccolpi.
Le ragioni di questi disastri possono efficacemente sintetizzarsi nella pretesa di esportare modelli economico-finanziari del capitalismo maturo in contesti assolutamente impreparati ad applicarli.
Cerchiamo di capire meglio.
Il processo di formazione e di espansione del libero mercato ha impiegato circa due secoli per consolidarsi e per produrre, sia pure in un numero ristretto di paesi e a costi sociali elevatissimi, il sistema attuale vigente nei paesi a più alto tasso di industrializzazione.
Il lento evolversi delle teorie della concorrenza, della funzione del denaro e della struttura della produzione ha proceduto di pari passo con la creazione ed il costante adeguamento degli strumenti economico-finanziari e legislativi che assicurassero equilibrio all’intero sistema.
Così le banche hanno a poco a poco articolato meglio i loro servizi alla clientela, il sistema borsistico si è adeguato al volume della richiesta di finanziamento del settore produttivo ed i mercati hanno via via risposto meglio alle esigenze dei consumatori. Parallelamente si arricchivano la normativa che presiedeva alle transazioni, le leggi che perseguivano l’usura e l’aggiotaggio, le regole che tutelavano il lavoro e che assicuravano un sistema di sostegno per i più bisognosi
Ma vi erano soprattutto strumenti di compensazione dei flussi economici che consentivano agli Stati di attenuare i dirompenti effetti della concorrenza nei periodi di crisi che ciclicamente investivano ora l’uno ora l’altro paese del sistema: la flessibilità della parità tra le monete era uno di questi strumenti, ma non era il solo. C’erano anche il controllo dei prezzi delle materie prime, le misure antinflazionistiche e un’attenzione particolare ai livelli dell’occupazione.
Ripetiamo: siamo lontanissimi dall’esaltare il sistema di produzione capitalistico, ma gli riconosciamo una logica coerente ed il merito di aver comunque innalzato il livello di vita di intere aree geografiche, anche se spesso, imperdonabilmente, a spese di altre aree più lontane e meno privilegiate.
Cosa avviene adesso con la globalizzazione perseguita dal capitalismo internazionale e progettata ed attuata dagli istituti, di cui si è detto sopra: il FMI, la BM ed il WTO?
Avviene che l’Occidente, nel momento in cui ritiene esportabile il proprio modello di sviluppo, si trova a dover risolvere in paesi terzi, ad economie, regole di vita e culture assai diverse dalle proprie, problemi che furono della sua preistoria industriale, e tutto questo in tempi limitatissimi, per renderli compatibili con gli equilibri del proprio sistema.
E qui casca l’asino.

Il mito del mercato libero

Nel momento in cui si trovò ad affrontare la prima grande crisi dei nostri tempi, l’implosione dell’impero sovietico (1989), l’Occidente e le sue istituzioni economico-finanziarie sovranazionali mostrarono tutti i limiti della propria strategia di espansione. Il mito del mercato libero, della liberalizzazione dei prezzi e della circolazione senza regole dei capitali, tutte misure imposte al nuovo regime perché ottenesse aiuti dal FMI e dalla Banca Mondiale, crearono un disastro che sta ancora sotto i nostri occhi. In un paese in cui tutte le attività erano burocratizzate (cioè senza responsabilità dirette che non fossero quelle di attuare le decisioni del partito) e finalizzate prevalentemente all’industria bellica, liberalizzare i prezzi significò innescare un processo inflativo (a due cifre mensili) difficilmente controllabile se non con misure di alti tassi e di rivalutazione artificiale del rublo, che impoverirono ulteriormente il paese, mentre favorirono le speculazioni del capitale internazionale. I dollari finirono nelle mani degli alti burocrati, per lo più corrotti, che li portavano all’estero il più delle volte, o che alimentavano un mercato interno – parallelo a quello ufficiale cui forzatamente accedeva la povera gente – delle merci e dei servizi acquistabili in dollari. Miseria e disoccupazione, un’economia che non riesce a decollare sono i risultati più evidenti di quella che doveva essere la trionfale transizione del paese dall’economia pianificata a quella di mercato.
Né le cose andarono meglio quando il FMI e la Banca Mondiale si trovarono ad affrontare la grande crisi del sudest asiatico.
I paesi che insistevano in quest’area (la Malaysia, l’Indonesia, la Corea, le Filippine) erano riusciti ad attuare politiche di piano che consentirono di creare e consolidare strutture produttive avanzate, utilizzando al meglio le risorse derivanti dal risparmio interno e dagli aiuti esteri. I tempi furono quelli, fisiologici, di un’economia in crescita, che proteggeva adeguatamente le proprie realizzazioni, con il controllo rigoroso del mercato dei capitali, del tasso di cambio della moneta e con politiche che favorivano, con il decollo del PIL, la crescita generalizzata dei redditi.
L’improvviso crollo della moneta thailandese nel luglio del 1997 e il deflusso massiccio dei capitali (prevalentemente speculativi) dalle borse dell’area innescarono una crisi che coinvolse direttamente il Giappone e l’America Latina, finendo con il lambire le economie nord americane e, di riflesso, l’Europa.
Anche in questa circostanza l’intervento del FMI fu ispirato a motivi di ordine politico, condizionando ancora una volta i suoi sostegni finanziari all’adozione di misure liberistiche, controindicate per la soluzione dei problemi reali di quei paesi, alcuni dei quali, come l’Indonesia, continuano a pagare i costi dell’operazione.

Perversa visione

Non insisterò sui guasti provocati da questa perversa visione del processo di globalizzazione imposto dall’opulento Occidente ai paesi poveri o in via di sviluppo, perché, intanto, occorrerebbe ben altro spazio che non quello di un articolo per fornirne prove esaurienti, e poi perché, chi voglia davvero documentarsi su questi fatti, può accedere ad un’ampia bibliografia, che comprende, tra l’altro, autori niente affatto critici nei riguardi del principio generale del mercato globale.
A mio giudizio, l’equivoco in cui incorrono questi ultimi è quello di attribuire i guasti ad errori di natura tecnica del FMI, oltre che a ragioni di carattere ideologico ed a scarsa conoscenza dei problemi reali dei paesi in soccorso dei quali è chiamato ad intervenire.
La realtà di cui ci si rifiuta di prendere coscienza è che l’Occidente non riesce ad elaborare progetti credibili che rendano compatibili, pacificamente, le velocità dei processi economici dell’area del capitalismo maturo, con la velocità dei processi di un’area, assai più vasta e dolente, che vede un’infinità di popoli arrancare alla ricerca di modelli di sviluppo sostenibili dalle loro, svantaggiate, condizioni di partenza.
E tutto ciò in un contesto che vede alcuni di questi popoli detenere gran parte delle risorse energetiche, di cui l’Occidente ha estremo bisogno.
La scorciatoia che sembra avere imboccato il vertice del capitalismo mondiale è quella di scatenare guerre regionali per imporre protettorati in grado, non solo di garantirsi gli approvvigionamenti, ma di fare avanzare il più possibile i propri confini per fronteggiare i probabili conflitti mondiali futuri, del resto già scadenzati dal Pentagono: quello con la Cina, in primo luogo, previsto a metà del secolo in corso.
Per queste ragioni la guerra all’Iraq è inevitabile e inevitabili appariranno le guerre che ad essa seguiranno. Le conseguenze per tutti noi sono difficilmente valutabili, anche perché, nell’immaginario collettivo dell’Occidente, coloro che tenteranno di opporsi all’escalation con le armi che sono proprie dei diseredati, assumeranno sempre più le fattezze di mostri riottosi, incapaci di comprendere che la loro unica speranza sta nella benevolenza dei più ricchi e nell’accogliere acriticamente i loro modelli di sviluppo.
Posta così la questione, non si tratterà, per l’ottica occidentale, di fronteggiare conflitti di civiltà o di religione o anche soltanto di natura economica o strategica, ma di retrocedere alla logica che presiedette allo sterminio dei selvaggi popoli primitivi, al tempo della Conquista e, successivamente, all’eliminazione degli indiani del continente americano.
Tutto ciò è naturalmente insopportabile e cresce il numero dei mostri riottosi che popolano l’altra metà del cielo delle società opulente, i quali avranno ulteriori motivi di riflessione nel momento in cui il ricatto economico porta dalla parte dei guerrafondai popoli di grande civiltà e di natura assai mite, quali gli ungheresi, i polacchi, i cechi e gli slovacchi.
Infine, si parva licet..., due parole alla sinistra italiana.
Dal momento in cui, con l’acqua sporca della dittatura del proletariato, hanno buttato a mare anche il bambino dell’internazionalismo dei poveri e dei bisognosi, i politici di quest’area si trovano oggi appiattiti sulle logiche di una democrazia rappresentativa, che non rappresenta, nel suo complesso, se non interessi di bottega mentre è sorda ai problemi generali che riguardano il resto del mondo.
A testimoniare questo stato di torpore autarchico è la diffidenza verso tutto ciò che si muove al di fuori delle istituzioni consolidate, cioè la parte più vitale dei popoli dei cinque continenti.
Stiano attenti, perché questi sono segni di un tramonto, senza speranza di una nuova alba!

Antonio Cardella