rivista anarchica
anno 33 n. 291
giugno 2003


etimologia

Stupidario di guerra (1991-2003)
di Piero Brunello

 

Ecco un piccolo campionario di definizioni che ricordano la «neolingua» di orwelliana memoria.

Non sapevate che nella parola guerra sono contenute, come in una coppa trasparente e fragile, tutte quelle altre parole: assassinio, mutilazione, rapina, saccheggio, flagello, accecamento, pidocchi, avvelenamento, bruciare vivi, soffocare, morire di sete e cento altre ancora [...] Si dice: è morto da eroe. Perché non si dice mai: ha subito una splendida, eroica mutilazione? Si dice: è caduto per la patria. Perché non si dice mai: si è fatto amputare entrambe le gambe per la patria? (L’etimologia dei potenti!) Il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici e dai poeti”.
A. Schnitzler, Pensieri sulla vita e sull’arte [1914], a cura di G. Farese, Mondadori, Milano 1996, p. 60.

“Da dove si trovava Winston era possibile leggere, ben stampati sulla bianca facciata in eleganti caratteri, i tre slogan del Partito:
la guerra è pace
la libertà è schiavitù
l’ignoranza è forza

[…] Fine specifico della neolingua non era solo quello di fornire […] un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”.
G. Orwell, 1984, in Romanzi e saggi, a cura e con un saggio introduttivo di G. Bulla, Mondadori, Milano 2000, pp. 884, 1218.

“Solo alcune, assai poche, delle persone che abitano qui, sentono quel che succede come un incubo confuso; per tutti gli altri – la maggioranza – si tratta solo d’una scenografia teatrale, un vago fondale – in entrambi i casi, qualcosa di irreale”.
S. Weil a Joë Bousquet, 12 maggio 1942, in Lettere della guerra, a cura di L. Coppola, La Locusta, Vicenza 1988, p. 33.

Espedienti linguistici

Nel corso della guerra del Golfo del 1991 vengono introdotte, e da allora si affermano, espressioni come “bombe intelligenti” e “operazione chirurgica”. La guerra viene giustificata e resa accettabile da una serie di espedienti linguistici. Nei giornali e in televisione prende forma un lessico volto a “rendere impossibile – come scriveva Orwell – ogni altra forma di pensiero”. Si usano metafore rassicuranti tratte dalla meteorologia, dal teatro, dal cinema, dal lavoro, dall’attività “umanitaria”, dalla religione cristiana, dalla tecnologia, e infine dalle pratiche igieniche e dal sapere medico: “tempesta nel deserto”, “scenario del Golfo” o “scenario di guerra”, “top gun”, “professionisti”, “dovere”, “missione”, “con l’aiuto di Dio”, “precisione millimetrica”, “bonifica dell’area”, “effetti collaterali”. Si utilizzano eufemismi come “uso della forza”, “conflitto”, “successo dell’operazione”.
Per convincere che l’incontrollabile è sotto controllo e per dare l’impressione di sicurezza, efficienza e rapidità, i bombardamenti vengono suddivisi in fasi numerate, ciascuna con un proprio nome. La previsione e i calcoli del numero delle “perdite” e delle “vittime” addomesticano l’orrore e annullano gli scrupoli morali. Si discute di cifre, si quantificano “danni” e “perdite”, si aggiornano bilanci economici: “colpiti 70 obiettivi strategici”; “l’operazione Desert Storm si svilupperà in 4 fasi della durata di 96 ore”; “l’intero costo dell’operazione ammonta a 78 miliardi di dollari”.
La guerra viene fatta rientrare nelle cose di tutti i giorni, tra “i nostri ragazzi” e donne-soldato che ricordano “la ragazza della porta accanto”. Presentata come “inevitabile” e “naturale”, la guerra abitua a pensare che siano “naturali” gli ambiti ai quali viene paragonata, e cioè i poteri e i saperi in cui siamo immersi: nel lavoro, nel tempo libero, nei rapporti di vicinato, tra i sessi, nella religione, nella scienza, nella cura della salute. Quando ci dicono che “la voce del pilota prigioniero è stata riconosciuta in tv dalla madre”, non ci parlano solo della guerra, ma della famiglia. Il figlio maschio fa la guerra, il padre ne è orgoglioso perché compie il proprio “dovere” e adempie alla propria “missione”. La madre piange alla partenza del figlio, teme per la sua vita, e può succedere che ne accolga il corpo cadavere. Nei monumenti funebri la madre esprime il lutto, mai l’ira.
Si dice “l’America”, “l’Iraq”, “la Francia”, “Israele”. Esistono solo Stati, che si identificano con altrettanti eserciti. Chi dissente è un “traditore”. Gli individui sono cancellati. Gli Stati hanno bisogno della guerra: combattendo un nemico, impongono sui propri cittadini un potere di vita e di morte, e sopprimono ogni autonomia e ogni forma di libera vita associata. “Le bandiere non sono sacre se non tinte del sangue dei cittadini, e l’Altare della Patria è il sepolcro di un morto ignoto”, ha scritto Carlo Levi nell’angoscia dei primi mesi della seconda guerra mondiale. Lo Stato-idolo vive del sangue “dei propri figli e dei nemici”; “il senso idolatrico dello Stato richiede la guerra, totale e continua, una con lo Stato e la sua esistenza, inscindibile dalla vita del dio” (C. Levi, Paura della libertà, in Id., Scritti politici, a cura di D. Bidussa, Einaudi, Torino 2001, pp. 175, 177-178).
Nella propaganda di guerra, morte e corpi fatti a pezzi sono censurati. Perché l’uccisione e la morte possano essere santificate nel culto dei “caduti” e degli “eroi”, i cadaveri dei soldati, in primo luogo dei “nostri”, vengono nascosti. Il calcolo numerico dei morti – l’unico modo consentito di parlarne – fa tacere le loro grida. Solo i “nostri” soldati morti vengono contati. Quelli “nemici”, no. Le “vittime” sono “civili”, occasionalmente: e anch’esse si possono solo contare. “Mi sembra che non ci resti altro da fare che ognuno di noi tenti di celebrare un morto, uno solo”, disse Günther Anders nel Discorso sulle tre guerre mondiali rivolto nel 1964 a quelli che chiamava “cari compagni del Tempo della Fine”. “Uno ricordi un bambino distrutto dalle radiazioni a Hiroshima. L’altro una donna bruciata a Dresda. Il terzo un ebreo ucciso dal gas ad Auschwitz. Il quarto un marinaio americano annegato nell’oceano. Il quinto un uomo picchiato a morte in una cantina della Gestapo. Il sesto un algerino torturato. Il settimo un russo assiderato a Stalingrado. L’ottavo un bambino che domani morirà ucciso dalle radiazioni. Il nono un marinaio che domani annegherà. Il decimo un bambino che domani non verrà più alla luce del mondo” (in Discorso sulle tre guerre mondiali, a cura di E. Mori, Linea d’ombra, Milano 1990, pp. 58-59).

Lessico

Sulla base di un diario delle mobilitazioni tenuto nel 1991, e di appunti presi dai giornali italiani di quel periodo, ecco un dizionarietto della propaganda di allora. Parlo della “nostra” propaganda, ma bisognerebbe analizzare allo stesso modo quella del “nemico”.

Ad oltranza. Lo sono i pacifisti e i bombardamenti.
Aeronautica americana. Padrona incontrastata dei cieli.
Aerei. I nostri tornano tutti alla base, tranne…; quelli iracheni sono colpiti.
Alleati. Di Bush, o degli Stati Uniti. Per Saddam dire: i fedelissimi di, gli uomini di.
Armi chimiche. Le possiedono gli iracheni. Micidiali. Ricordare “gli ebrei gasati dai nazisti”.
Arsenale bellico. Iracheno. Immenso.
Arsenali missilistici. Iracheni. Sorprendenti.
Attacco. Se è nostro, è chirurgico.
Aviazione militare americana. Cavalleria del cielo.
Bombardamenti. Dire piuttosto: missioni, lavoro, operazione chirurgica, raid.
Bombe. Farmaci che occasionalmente possono causare effetti collaterali. Intelligenti. Tonnellate di.
Bush. È fiero. Dura replica di.
Cavalcata. Dei marines e dei mezzi corazzati. Travolgente.
Carri armati. Dilagano nelle fertili pianure del delta dell’Eufrate.
Cieli. Conquista dei.
Coalizione. Anti-Saddam. Democratica.
Comunità. Internazionale.
Cruise. Missili. Mezzo per evitare di colpire la popolazione civile.
Deserto. Vi si trovano o scudi o tempeste. Gli iracheni vi hanno bunker e nascondigli.
Dio. Benedica gli Stati Uniti. Con il Suo aiuto vinceremo.
Guerra. Giusta, legittima, legale, necessaria, inevitabile, sacrosanta. Triste necessità. Breve, rapida. Limitata. Praticamente incruenta. Scenario di. Sotto l’egida dell’ONU, nel nome del diritto internazionale, nel segno della legalità. Ricordare il diritto internazionale, e il nuovo ordine mondiale. Non è una guerra ma un’operazione di polizia internazionale. Preferire comunque: uso della forza, conflitto, tempesta nel deserto, scudo nel deserto, operazioni, intervento, operazione chirurgica.
Inevitabile. Lo è sia la guerra, sia il carico delle vittime civili.
Intelligenti. Bombe americane quando sono lanciate da un aereo.
Iraq. Prima del 27 febbraio 1991: quarta potenza militare del mondo. Dopo il 27 febbraio: in ginocchio; un’armata Brancaleone.
Iracheni. Stanare gli iracheni dai bunker o dai loro nascondigli nel deserto.
Macchina bellica, macchina da guerra. Ce l’ha l’esercito iracheno. Gli Stati Uniti hanno una task force.
Mamma. È americana. Riconosce in tv la voce del figlio prigioniero.
Marea. Nera.
Massacro. Dire piuttosto: successo dell’operazione.
Mercenari. Dire piuttosto: professionisti.
Militarismo, militarismo a senso unico. Termine assente.
Morte. Termine assente.
Obiettivi. Solo strategici o militari.
Operazione. Chirurgica. Ha avuto successo.
Pacifismo. Unilaterale. Indiscriminato. Dogmatico. A senso unico. Pregiudiziale. Strabico. Ripudia l’Occidente. Pseudopacifismo. Sfoga i suoi umori anticapitalistici.
Pacifismo responsabile. Sostiene la guerra.
Pacifisti. Ad oltranza. Disfattisti. Alleati di Saddam. Difensori di Saddam Hussein. Sostenitori del rais. Utili idioti al servizio di (a scelta: Saddam Hussein, Cremlino, comunismo).
Pianure. Nel delta dell’Eufrate. Fertili.
Paura. Ce l’hanno i deboli.
Piloti. I nostri. Preferire: top gun. Reduci da una missione. Tutti hanno fatto ritorno alla base, tranne.
Pregare. Per la pace, e per la salvezza delle nostre truppe.
Presidente. Degli Stati Uniti d’America. Per l’Iraq dire: il rais.
Prigionieri. In mano agli iracheni. Usati come scudo; scudi umani.
Ragazzi. I nostri.
Saddam Hussein. Fino all’autunno 1990: leader iracheno. Dopo l’autunno 1990: dittatore, dittatore iracheno, rais di Baghdad, Hitler, folle, mostro, criminale di guerra, despota, califfo. Ha i suoi fedelissimi. Non gli resta che la resa.
Sbarco aereo. Spettacolare; il più spettacolare dai tempi della seconda guerra mondiale.
Scenario. Può essere del Golfo, del deserto o di guerra.
Soldati americani. I ragazzi; i nostri ragazzi. Uomini d’acciaio. Lavorano duro. Scoppiano di salute.
Stanare. Vedi Iracheni.
Task force. La nostra. Formidabile. Per l’Iraq dire: macchina bellica, o macchina da guerra.
Tecnologie. Americane. Sofisticate. Risparmiano il sangue. Attenuano le nostre preoccupazioni.
Televisione. Guerra in diretta. Per la prima volta la CNN. Citare il villaggio globale e Marshall Mc Luhan.
Tragedia. Inevitabile.
Truppe irachene. Del califfo. Coriacee.
Umori. Anticapitalistici.
Uomini. Di Saddam. Per Bush, dire: alleati.
Vittime. Civili. Preferire: effetti collaterali.

Ordine e polizia, dio e democrazia

Questo dizionario risale all’epoca di Bush I. La propaganda di Bush II e dei suoi alleati del 2003 ha usato molto meno eufemismi e reticenze, ha attinto senza troppi pudori alla retorica militarista, e si è richiamata maggiormente “all’aiuto di Dio”. Nel 1991 non si faceva una guerra, ma “una operazione di polizia internazionale”. Nel 2003 si proclama la “guerra preventiva”, “del Bene contro il Male”, “nel nome di Dio”, “in nome della democrazia”. In quella che ora si chiama “prima guerra”, le “fasi” si chiamavano “Tempesta del deserto” o “Cammello Notturno”; nella “seconda”, “Colpisci e terrorizza”. La prima guerra rivela quale idea di “ordine” e di “polizia” ci sia sotto. La seconda rivela l’idea di “Dio”, e di “democrazia”. Lo slogan orwelliano “La guerra è pace” è nell’aria.
Anche il movimento contro la guerra è cambiato dal 1991 a oggi. Sarebbe perciò importante ricostruire il lessico del pacifismo e dell’antimilitarismo, con le sue varianti, e le sue trasformazioni negli ultimi anni.

Piero Brunello