rivista anarchica
anno 33 n. 291
giugno 2003


dopoguerra

Tra l’incudine e il martello
di Andrea Papi

 

La guerra in Iraq è finita, ma la guerra continua... Considerazioni un po’ amare su democrazia, Islam e possibilità di costruire un mondo migliore.

Durato 21 giorni, lo scontro armato in Iraq è finito! In realtà la guerra continua, perché permane lo status guerrafondaio e perché ormai la guerra è uno strumento indispensabile della politica globale e globalizzata.
È finita la serie delle battaglie campali, degli attacchi aerei, dei bombardamenti devastanti e dei cannoneggiamenti incessanti, insomma dello scontro diretto tra i due eserciti contendenti. Quello iracheno sembra essersi disgregato, metaforicamente liquefatto, lasciando sul campo ammassi di armi, divise abbandonate, macerie e pezzi di ferraglia. Mentre quello angloamericano, trionfante, si è insinuato nelle città. Per qualche giornata di troppo ha dovuto sbaragliare le inevitabili irritanti sacche di resistenza, poi per qualche attimo si è illuso di aver preso possesso del territorio e di riuscire a tenerlo, con qualche difficoltà prevista, ma sostanzialmente a dominarlo con la forza della sua superpotenza. Il regime di Saddam Hussein è finito, definitivamente annichilito, ma la pace è lontana dall’essere a portata di mano, il terrorismo, soprattutto di matrice fondamentalista islamica, è lungi dall’essere sopito, mentre la complessità del riassetto politico-istituzionale-strategico sta prendendo piede e contiene il rischio di diventare difficilmente controllabile.
La polemica tra il concetto di liberatori, sostenuto dalla coalizione vincente e dai suoi alleati, e quello di occupanti-colonizzatori, sostenuto fin dall’inizio da chi si è opposto a questa guerra, è del tutto irrisolvibile e per molti versi fuori luogo. Come sempre, dipende dall’angolatura con cui si guardano le cose e dagli interessi di vario tipo che sono in campo. La congerie dei fatti li contiene entrambi. Da un lato è innegabile che gli angloamericani, con la loro aggressione militare, abbiano effettivamente liberato l’Iraq e il mondo intero da una delle più feroci tirannie conosciute dalla storia. Dall’altro è altrettanto innegabile che per farlo si sono appropriati con la forza delle armi di quel territorio e che ora da vincitori, occupandolo militarmente, si sentano del tutto in diritto di impostarlo politicamente come loro aggrada. Le cose non sono linde e nette come desidererebbero le opzioni ideologiche. Non lo permette l’intreccio intricatissimo dei fatti, delle situazioni, delle volontà, delle intenzioni dichiarate e di quelle non dichiarate, degli interessi, delle spinte di parte; un amalgama estremamente contorto, districabile ai fini di potere, finora unica molla reale dei fatti storici, soltanto con l’imposizione e la vittoria della prova di forza.

L’indifferenza del popolo iracheno

Cerchiamo d’identificarne alcuni, quelli che consideriamo più rilevanti. Innanzitutto bisogna sottolineare che la liberazione dalla sanguinaria dittatura di Saddam Hussein non è stata richiesta, almeno per quello che ci è dato sapere, dal popolo iracheno, che da troppo tempo ormai sembrava rassegnato ad accettarla, quindi non può essere attribuita alla manifesta volontà popolare in loco. Il che non vuol dire che non sia ben accetta, come hanno dimostrato le immediate manifestazioni di giubilo a Baghdad. Detta liberazione, secondo la lettura delle contorte vicende politiche che hanno preceduto l’attacco, è avvenuta soprattutto per scelta e per volontà degli USA, determinati a regolare una serie di conti sul piano internazionale. Ne consegue che la liberazione dell’Iraq, da parte degli Usa, è pretestuosa per giustificare una loro esigenza strategica di gestione dei destini del mondo, indipendentemente che in effetti abbiano fatto un gran piacere al popolo iracheno e, per quel che mi risulta, a tutto il mondo arabo e islamico.
È significativo il fatto che, a parte qualche immediata manifestazione di esultanza nella capitale e in poche altre città, come a Bassora capitale del sud Iraq, dopo che si è avuta la certezza della caduta del regime di Saddam, non ci sia stata da parte della popolazione l’accoglienza esultante e trionfale che i “liberatori” si aspettavano e sulla quale contavano. Addirittura in città importanti come Najaf e Kerbala, sacre per gli sciiti, per volontà degli imam nei primi giorni dopo la vittoria gli americani non sono neppure entrati. Non potevano e non dovevano occupare il suolo sacro dell’Islam. L’impressione è che nella generalità dei casi il popolo iracheno sia rimasto indifferente, in alcuni casi ostile, davanti alla vittoria, tutto sommato veloce e chirurgica, delle forze alleate occidentali che pretenderebbero di essere i suoi liberatori.
Su “La Repubblica” del 20 aprile, Leonardo Coen riporta la testimonianza estremamente significativa di un pellegrino sciita diretto a Kerbala: “Vi sfido a trovare un musulmano che ami gli americani. Non ci hanno dato acqua, né elettricità, né sicurezza e quindi che se ne ritornino a casa”. Il commentatore sottolinea che “questo è il filo comune che lega le tre anime dell’Iraq: quella sciita, quella sunnita, quella curda”. A sostegno il fatto che immediatamente dopo la presa di Baghdad, la capitale in particolare, ma anche altre importanti città, siano state abbandonate ai saccheggi, alle rapine, alle giustizie sommarie. Una vera e propria messa a ferro e fuoco. Probabilmente le truppe occupanti e vittoriose, oltre ad essere rimaste sorprese dalla violenza e dalla velocità del saccheggio generalizzato, hanno anche scelto di non intervenire con la repressione per non dare subito l’idea di essere i nuovi padroni; in fondo i novelli distruttori erano gli stessi abitanti delle città liberate. Il clima che ne è derivato in pochissimi giorni è stato quello di un rifiuto generalizzato delle truppe vittoriose, chiaramente vissute come occupanti.
In questo crescendo di tensione gli imam non ci hanno messo molto a propagandare il loro credo, cioè di cominciare ad instaurare nell’Iraq liberato da Saddam una struttura politica ispirata ai dettami del corano. In un’intervista sul Corriere della Sera del 22 aprile Daniel Pipes, esperto d’islamismo cui la Casa Bianca statunitense ha affidato l’Iniziativa speciale per il mondo musulmano, afferma che per prevenire in Iraq l’instaurazione di un regime musulmano serve una fase di “autoritarismo democratico di 5-10 anni, forse più, sul tipo del modello turco”. Al di là dei tentativi del governatore Jay Garner, generale in pensione incaricato dall’establishment statunitense di amministrare il dopoguerra per un periodo di tempo non ancora determinato, non è difficile capire che gli iracheni in cuor loro stanno accettando la presa del potere da parte degli imam di ispirazione sciita, collegati al governo di Teheran, i quali hanno tutta la volontà di riuscire ad instaurare nell’Iraq desaddamizzato un regime teocratico. E non è passato molto tempo che, di fronte alle sempre più frequenti manifestazioni di popolo con sentimenti dichiaratamente antiamericani, i “liberatori” abbiano cominciato a perdere la testa. Così il 28 aprile a Falluja, a circa 70 km da Baghdad, provocate, le truppe americane hanno uno scatto di nervi e falciano con le armi la folla ostile: 13 morti, di cui più della metà bambini, e una settantina di feriti.
La scelta dichiarata dei vincitori di indirizzare il nuovo Iraq verso una democrazia all’occidentale non è affatto scontata come riuscita. Non a caso le infiltrazioni dell’intelligence iraniana per portare la situazione postbellica a proprio favore hanno creato da subito attriti, con minacce neanche tanto velate, tra il governo USA e la teocrazia di Teheran. Ma non è l’unico motivo di tensione nella regione mediorientale e nel mondo. Con la Siria gli USA sono entrati in collisione, tuttora non risolta, subito dopo la vittoria per il pericolo giustificato che possa ospitare dei gerarchi di Saddam in fuga ed abbia nascosto delle armi irachene “proibite”. Con la Corea del Nord, che appena circa dieci giorni dopo la fine dello scontro bellico con l’Iraq ha ammesso ufficialmente di possedere armi a testata nucleare funzionanti, sfidando gli Stati Uniti con una dichiarazione beffarda del negoziatore nordcoreano Li Gun: “Abbiamo la bomba atomica. Che cosa volete farci?”. Ma soprattutto col problema endemico della Palestina. Subito dopo che con grande fatica e uno scontro di potere tutto interno con Arafat è riuscito ad instaurarsi il governo palestinese di Abu Mazen, le brigate Al Aqsa ed il FPLP hanno rivendicato l’attentato vicino a Ramallah del martire di Allah Khatib. L’attentato kamikaze, che probabilmente è il primo di una lunga serie, è una chiara intimidazione nei confronti di Abu Mazen: lo avverte che la sua volontà di giungere ad un compromesso con Sharon, passando sulla testa dei militanti armati della nuova intifada, sarà sabotato con tutti mezzi.

Una visione del mondo antitetica

Soprattutto incombe il costante pericolo, esteso all’intero occidente, del terrorismo di matrice fondamentalista islamica. Bin Laden è il simbolo di uno scontro estremo, che trova il sostrato teorico in un’escatologia della morte eroica, della guerra ai valori ed alla presenza della civiltà in cui s’incarna il mondo occidentale. Trova il suo terreno fertile nelle enormi sacche di miseria e di disperazione di cui è costellato l’universo islamico, ma non ne è la causa. Le sue ragioni risiedono in una visione del mondo e della politica antitetiche a quelle in cui ci riconosciamo noi e sono a priori rispetto alle condizioni esistenziali. Per noi l’obbiettivo e lo scopo risiedono nella conduzione dell’esistente, cui tentiamo di dare risposte materialmente soddisfacenti e condizioni sociali fondate su principi di libertà. Per loro l’obiettivo è escatologico, finalizzato completamente all’aldilà, mentre la conduzione dell’esistente non è importante in sé, bensì asservita ad Allah, per cui non ha molta importanza la libertà individuale, mentre ne ha tantissima quella comportamentale secondo i dettami del Corano. Ne consegue che sul piano politico aspirano a governi impostati sul piano religioso. Non sono interessati alla democrazia, ma propugnano regimi teocratici.
Insomma, la politica neoimperiale della democrazia esportabile ed imponibile con le armi fa acqua da tutte le parti. Vista dal punto di vista degli amanti veri della libertà c’è qualcosa d’insano in questa fanatizzazione della democrazia, quale modello universale ritenuto unico vero metro di misura per giudicare se una strutturazione di gestione del potere sia giusta o da sostituire, per esempio con l’uso supposto legittimo della forza. E non tanto perché non sia giusto lasciare piena libertà di espressione, di riunione, di propaganda a tutti indistintamente, quanto perché da troppo tempo ormai tutto ciò rappresenta solo un paravento, un alibi per una gestione oligarchica del potere che ha ben poco a che fare con i presupposti conclamati. Da troppo ormai le democrazie operanti sono ridotte ad una pura finzione, in quanto, mentre la gestione democratica dovrebbe essere gestita dal basso, perché secondo dottrina in essa il potere dovrebbe appartenere al popolo, nei fatti nessuno che non detenga leve di comando politiche, economiche o militari ha la minima dignità decisionale, di decisioni che contano ovviamente. Ciò che si vuol esportare, fra l’altro attraverso la cosa più antidemocratica come la guerra, non è perciò tanto la libertà propagandata, bensì un modello collaudato di potere, che per sussistere usufruisce dell’ipocrisia di procedure formali che si autodefiniscono garanti delle libertà, ma che nei fatti garantiscono soltanto la libertà di manovra dei potenti di turno.
Siamo immersi in una fase di transizione. Noi, masse di individui esclusi dalle decisioni, stiamo subendo, assistendo impotenti, la ridefinizione e la ridistribuzione globali dei poteri per il dominio del mondo. Usciti giocoforza dall’assetto bipolare, durante il quale l’equilibrio politico planetario era assicurato dalle reciproche deterrenze militari delle due superpotenze USA e URSS, ora gli Stati Uniti, unica delle due rimasta, in un certo senso si trovano costretti a reimpostare gli assetti politici e militari, in modo tale da consentirsi di conservare, ancor più di prima, lo stato di superpotenza in grado di gestire e dominare il pianeta.
Impostato in seguito alla vittoria degli alleati contro il nazifascismo, l’assetto bipolare assicurava ad ognuna delle due superpotenze un’equa spartizione d’influenze politiche e militari tra le diverse aree mondiali. In qualche modo rappresentava una garanzia di equilibrio rassicurante. Ma mentre l’Unione Sovietica è sempre stata soprattutto una superpotenza militare, ininfluente sul piano degli equilibri economici, gli USA invece hanno sempre rappresentato anche un riferimento planetario di enorme condizionamento ed accaparramento delle risorse economiche e finanziarie. Ad osservare con lo sguardo del dopo, oggi appare quasi ovvio e conseguente che l’impero sovietico prima o poi dovesse crollare. Non a caso la sua rovina non è affatto avvenuta in seguito ad una sconfitta dopo un conflitto contro la superpotenza nemica, bensì perché non è stata in grado di sorreggersi e di portare avanti l’alternativa concreta credibile che avrebbe dovuto far argine al continuo sopravanzare del capitalismo. Incapace di essere e di rappresentare ciò che pretendeva di propagandare, a un certo punto della sua storia è implosa per incapacità a sopravvivere.
Rottosi il “naturale” equilibrio bipolare, in un certo senso, dal 1989 in poi gli americani si sono trovati loro malgrado orfani del bipolarismo e, rimasti unici interlocutori di se stessi nella possibilità di definire e di gestire le sorti del dominio nel mondo, si sono trovati tra le mani degli strumenti di gestione planetaria spuntati, nati come l’ONU per gestire un ormai superato bipolarismo, del tutto inadatti a portare avanti le necessarie ed impellenti ridefinizione e ripartizione dell’assetto strategico, economico, politico e militare del mondo. In tal senso l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 ha funzionato da detonatore e da superacceleratore per la messa in moto di una strategia di riassetto politico e militare per la gestione del dominio globale e globalizzato. Questa è la ragione principale per le scelte degli attacchi prima all’Afghanistan poi all’Iraq e di tutte quelle successive che verranno, indipendentemente che tali scelte abbiano l’approvazione, il consenso e la partecipazione dei rappresentanti governativi della cosiddetta “Comunità Internazionale”. Se devi vuoi, e puoi essere il padrone, non puoi permetterti di dipendere dalle minori esigenze dei tuoi sudditi, formalmente alleati e sostenitori.

Un’opposizione sempre più reattiva

Ci troviamo veramente tra l’incudine e il martello. Da una parte abbiamo l’aumento del dominio mondiale di un sistema capitalista a gestione globale, che ha come gestori indiscussi gli USA accanto agli stati dell’area del cosiddetto benessere, dominato e impostato dallo strapotere delle multinazionali e delle lobbies finanziarie, causa permanente di un costante aumento dell’iniquità nella spartizione delle risorse, dell’aumento delle sacche di povertà, della perdita di senso delle cosiddette libertà democratiche, dell’inquinamento selvaggio che sta vieppiù depauperando e degradando le risorse naturali del pianeta. Il sistema di valori occidentale, al di là della propria autoreferenza, è perciò sempre meno credibile come riferimento salvifico e come possibilità concreta di realizzare un mondo a misura delle libertà dichiarate e di un benessere reale che non sia in conflitto col sistema ecologico integrato in cui la specie è collocata. Dall’altra parte invece prende sempre più piede il rifiuto totale dell’occidente come sistema di valori, portato avanti da un fondamentalismo religioso, in particolare di matrice islamica, sorretto da un credo assiomatico e propugnatore di un mondo all’insegna di teocrazie assolutiste, intolleranti e totalitarie.
Di fronte a tutto ciò come si pone l’opposizione radicale che afferma di proporre l’alternativa di un’altra società possibile? È un’opposizione sempre più reattiva, sempre più consapevolmente invischiata nei meandri teorici ed operativi delle scelte pragmatiche del potere, forse sorretta dall’antica illusione che il mondo altro, erede dell’altrettanto antica scelta rivoluzionaria, sia possibile aspirando ad agire all’interno dei palazzi dove quotidianamente si consuma l’erosione del potere. Aspira sempre più a porsi come alternativa istituzionale nella gestione del potere in atto. Un movimento eterogeneo, sia teoricamente sia come componenti più o meno organizzate, tutto interno all’area del benessere, che finora sembra avere abbracciato un pacifismo puramente antibellicista, in particolare in chiave antiamericana, incapace di porre seriamente i problemi inerenti alla democrazia ed alla politica vigenti, dalla quale politica in auge, anzi, sembra farsi intrappolare, annullando in tal modo le spinte verso tipi di società non del dominio, realmente alternative, che pur ne hanno contraddistinto la genesi.

Andrea Papi