rivista anarchica
anno 33 n. 293
ottobre 2003


Medioriente

Meno Stato, più “contaminazione”
di Francesco Codello

 

A fronte dei muri e delle soluzioni militari, prospettate dai «falchi», vi sono associazioni che lottano a favore della smilitarizzazione dell’intera società israeliana.

Ancora tanto sangue versato in Medioriente. La vera e propria mattanza di vittime assolutamente innocenti e indifese, continua ad occupare le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo.
Ancora una volta si sprecano le analisi, le prese di posizione, gli auspici, le preghiere, le minacce, gli ultimatum, ecc.
La situazione si presenta sempre più difficile e ingarbugliata, le implicazioni di ogni scelta sono sempre più variegate, contorte, ingestibili anche e soprattutto da parte dei tradizionali attori. Diplomazie statali e governative di tutto il mondo, servizi segreti e «intelligence» (?!) sembrano talvolta trovare nuove strategie, nuove strade, nuove idee attorno alle quali costruire un presunto equilibrio, quando puntualmente un drammatico fatto di sangue rimette nuovamente tutto sottosopra e ricomincia la solita tragica e aberrante sequela di reazioni. E allora ancora nelle pagine dei giornali, nelle immagini delle televisioni di tutto il mondo, riappaiono loro, i protagonisti del terrore, di volta in volta con i loro proclami più o meno esilaranti, con le minacce, gli ultimatum e nuovi attentati o attacchi militari.
E noi, spettatori impotenti, ormai assuefatti alle morti in diretta, spesso ci rifugiamo nell’accettazione di tutto ciò senza ormai più voglia di reagire o speranza di uscire da questo tunnel dell’orrore. Si, ormai le guerre e le violenze sono entrate nuovamente nel nostro pane quotidiano, sono parte della nostra rassegnata esistenza.
Ormai non ci indigniamo quasi più, non ci spostiamo dalle nostre talvolta comode esistenze, non abbiamo quasi più la forza di alzarci e urlare tutto il nostro sdegno e il nostro deciso e risoluto rifiuto per ciò a cui assistiamo anche grazie a come e quanto tutto ciò ci viene imposto.
Così la cosiddetta informazione si sbizzarrisce nel mostrare le morti, le urla di disperazione, le vendette, le ritorsioni che Israele e Palestina continuano a farsi reciprocamente. Da un lato si alzano muri sempre più lunghi in nome della sicurezza, si occupano sempre più vaste aree militarmente, dall’altro si alimentano le stragi e le guerre sante, in nome di dio, della patria e del potere.
La supremazia della logica militare e dello Stato trionfa a scapito delle popolazioni e della sempre più richiesta pace.
Pochissime informazioni, in un mondo per definizione sempre più informato, giungono a noi su chi resiste in questo deserto di barbarie e giornalmente, con tanti piccoli gesti, con azioni sporadiche sempre più diffuse, con segni evidenti di pace, costruisce un mondo diverso. Così, scavando tra le righe semi-nascoste di qualche coraggioso servizio, possiamo invece scoprire che una vera e solida resistenza, minoritaria sicuramente nei numeri, ma maggioritaria nei sentimenti e nei desideri, sta crescendo faticosamente, giorno dopo giorno, e si manifesta talvolta in piccole storie, talvolta in manifestazioni di esplicito dissenso, insomma esiste e si intreccia al di la dei confini e delle barriere della religione e del potere.
E allora scopriamo che amicizie e rapporti stretti, tra israeliani e palestinesi, esistono e anzi si rafforzano nonostante tutto, ma proprio tutto, vada nella direzione opposta. Donne ebree e palestinesi divise da lutti, cultura, territorio diventano amiche in nome di un comune sogno di pace che riesce a sconfiggere la realtà dell’orrore. Persone che hanno perso famigliari, figli, compagni/e sfidano la logica del potere religioso, economico, politico, costruiscono rapporti diretti e veri attorno ai quali sperano ardentemente di poter edificare un mondo migliore, spazi di reciprocità e di solidarietà.

Desiderio di normalità

Uomini e donne, che sfidano giornalmente non solo il pericolo della morte, ma anche le estenuanti reciproche limitazioni alla propria libertà di movimento e le restrizioni burocratiche, che scoraggerebbero chiunque, per incontrarsi e ridare alla loro esistenza una serenità che sembra sempre irrimediabilmente persa. Ma non si tratta solo di un desiderio, più che legittimo, di normalità, ma anche di gesti e azioni che testimoniano nei fatti il rifiuto alla rassegnazione, la disobbedienza esplicita ad un sistema intrecciato e incancrenito di violenze e sopraffazioni.
Ne sono testimonianze concrete e note, ad esempio, il rapporto di intensa amicizia e solidarietà tra Tamara Rabinowitz, israeliana di origine sudafricana e di religione ebraica, professoressa di inglese e la dottoressa Rihab Essai, palestinese e musulmana, docente di sociologia all’Università El Kuz a Gerusalemme, che sfidano i rispettivi mondi per testimoniare ogni giorno la loro amicizia e il loro impegno per la pace e la solidarietà tra i due popoli.
Oppure, solo per ricordare i fatti più eclatanti che ci sono giunti nei paesi europei dai media (in questo caso attraverso il quotidiano spagnolo «El Pais»), il coraggio del dissenso manifestato dal grande musicista ebreo Daniel Baremboin, che a 61 anni sfida tutte le regole e le norme per continuare a suonare assieme a giovani palestinesi a Gerusalemme, con un pubblico ristretto ma partecipe, in assenza di ogni autorità palestinese e, in aperto contrasto con il potere, annuncia progetti di scuole di musica comuni e lancia un appello affinché uomini e donne di entrambi i paesi si uniscano e creino direttamente e autonomamente progetti di pace e di convivenza nel rispetto reciproco, nella convinzione che non vi può essere una soluzione militare e violenta al problema.
Ma testimoniano questa volontà le attività e i progetti che animano le scuole democratiche e libere che in diversi paesi di Israele e persino in Palestina operano giornalmente anche con questi intenti, così come è significativa la nascita di una radio comune che trasmette i propri programmi in tre diverse lingue: arabo, israeliano, inglese.
Piccole cose conosciute, assieme a tante altre altrettanto piccole quotidiane manifestazioni di reciprocità diretta in contrapposizione ad una Politica reciprocamente ostile e guerrafondaia.
Ma, forse per le dimensioni, oppure per il significato dirompente che viene ad assumere, la più eclatante manifestazione di dissenso arriva proprio dall’interno di Israele. Ormai numerose sono state le manifestazioni pacifiste pubbliche di cittadini ebrei che rivendicano il loro diritto ad una vita più libera ed egualitaria, manifestazioni molto più difficili in Palestina, paese sicuramente più dominato e totalizzante di Israele.
In particolare è sul fronte della lotta antimilitarista che maggiori sono le manifestazioni di dissenso e di rifiuto della logica statale e guerrafondaia propria del premier israeliano Sharon.
Una cinquantina di donne israeliane e palestinesi, aderenti a «Bat Shalom» e ad altre organizzazioni femministe, hanno recentemente occupato simbolicamente uno spazio del muro che il governo israeliano sta edificando per dividere Israele da una zona della Palestina. Lo slogan usato, molto efficace ed esplicito, è stato: «Separation Wall = Ghetto not Secutity. No peace without Prisoner Release». Così come esplicita è la «Dichiarazione dei riservisti israeliani contro la guerra» quando denuncia «il prezzo di sangue che l’occupazione impone su entrambe le parti di questa divisione», oppure quando si dichiara che gli ordini ricevuti di occupare i territori palestinesi sono in contraddizione con i valori e i principi di rispetto e tolleranza propri della tradizione ebrea e di Israele stesso, fino alla disobbedienza vera e propria: »Noi dichiariamo che non continueremo a combattere in questa guerra per la pace delle colonie, che non continueremo a combattere oltre la linea verde per dominare, espellere, affamare e umiliare un popolo».

Smilitarizzare la società

La lotta antimilitarista si estende sempre più e si coniuga con altre significative rivendicazioni anche perché la crisi economica che attraversa il paese è il frutto anche di una politica e di una ideologia che in questi ultimi tempi ha esaltato il ruolo dell’esercito e degli armamenti, compromettendo anche un settore importante quale quello turistico.
«Donne in nero», «Bat Shalom» e altre associazioni, rivendicano sempre più il diritto a condividere «le risorse di questa terra, la sua acqua, i suoi vigneti e i suoi luoghi sacri», sempre più ampie fasce di popolazione rifiutano di risolvere i problemi attraverso la guerra, contestano una concezione della sicurezza basata sulla forza. Chiamano a raccolta altre persone chiedendo a tutti di concentrarsi su come vivere, adesso e lì, in pace e in solidarietà. Sempre più cresce la convinzione, non solo in medioriente, ma nelle popolazioni e negli intellettuali degli altri paesi, che solo un’azione diretta e spontanea delle popolazioni può costruire un mondo diverso che preveda una maggiore meticcizzazione tra arabi ed ebrei. Finalmente si pensa, seppur ancora timidamente, che solo una soluzione voluta e scelta liberamente dalle popolazioni e non imposta dagli Stati, può costituire una vera alternativa a questo terribile stato di cose. In questa direzione, esemplificativo, seppure ancora timido perché troppo fiducioso nelle virtù del potere, è stato l’intervento di Amos Oz (noto intellettuale ebreo) dalle pagine di un quotidiano italiano.
Da due anni, da quando è iniziata la seconda intifada, è aumentato in Israele il numero di obiettori di coscienza, e questo in un paese nel quale l’esercito ha sempre avuto una considerazione straordinariamente importante, e di coloro che si sono rifiutati di prestare il servizio militare nei territori arabi occupati. Il dissenso verso la società israeliana così militarizzata è ormai più di un fenomeno isolato e si va definendo sempre più come vero e proprio movimento di contestazione globale (tra i disobbedienti c’è addirittura il nipote dell’ex primo ministro Netanyau).
Un altro caso emblematico è quello di Avia Atai che si è rifiutata di prestare servizio nei territori occupati pur essendo in servizio di leva obbligatoria e tutta l’attività di associazioni come «New Profile» o di «Talayush» che lottano a favore della smilitarizzazione dell’intera società israeliana. Insomma gli esempi si moltiplicano e dimostrano che «come il seme sotto la neve» anche qui cova il desiderio spontaneo e irrefrenabile di libertà, pace e giustizia sociale e cresce, seppur molto faticosamente, la consapevolezza che occorre meno Stato (la soluzione dei due stati non risolverebbe il problema) e più contaminazione tra uomini e donne che si riconoscono in quanto tali prima che come «appartenenti».

Francesco Codello