rivista anarchica
anno 33 n. 293
ottobre 2003


galere & sanzioni

Per farla finita con il carcere
di Alain Brossat

Quando prendiamo posizione sulle carceri rimettiamo in gioco le scelte etiche e le decisioni razionali più antiche.

Con quale stato d’animo si ripoliticizza la “questione carcere”, prendendo le distanze dall’approccio umanitario all’istituzione penitenziaria? Non si tratta di assumere una posizione estremista rifiutando ogni lotta su obiettivi parziali e accontentandosi di proclamare contro tutto e contro tutti, come l’irriducibile Alexandre Jacob, “Abbasso le prigioni, tutte le prigioni!” (1) . In compenso, dobbiamo prendere le distanze dalla trappola tesa dallo Stato e dalle anime buone che, alle nostre critiche e denunce, finiscono sempre per opporre la solita replica: “Certo, si può cercare di migliorare i dettagli, ma per il resto non potete essere contro le prigioni in generale, nella loro essenza, dato che bisogna comunque punire e vi trovereste in grande difficoltà a dirci con che cosa vorreste sostituirle”.
A questo efficace ricatto che costringe al balbettio, paralizzandola, la coscienza umanitaria più agguerrita, Michel Foucault opponeva una risposta netta che ancor oggi conserva tutta la sua attualità. Ricordando la posizione del GIP (Groupe d’information sur les prisons, NdR), diceva: “Ciò che si dice è: basta carceri. E quando di fronte a questa critica le persone ragionevoli, i legislatori, i tecnocrati, i governanti domandano: ‘Ma che volete allora?’, la risposta è: ‘Non sta a noi dire di che morte dobbiamo morire; non vogliamo più giocare questo gioco della penalità; non vogliamo più giocare il gioco delle sanzioni penali; non vogliamo più giocare il gioco della giustizia’» (2).

Qual è la “tariffa” equa?

Quando prendiamo posizione sulle carceri rimettiamo in gioco le scelte etiche e le decisioni razionali più antiche, più fondamentali, affrontiamo una visione del mondo. E questa riguarda, fra l’altro, il valore che diamo alle cose, alla proprietà, soprattutto il valore che accordiamo in termini di sofferenza umana (quella del ladro che espia dietro le sbarre) ai nostri beni (quale «tariffa» ci sembra equa per il furto di una vettura?). Ma anche: è legittimo incarcerare i consumatori di cannabis? Si possono imporre i trattamenti psichiatrici raddoppiando la pena della reclusione per alcune categorie di criminali? Ecco, il carcere rivela quali siano le nostre posizioni generali sul bene e sul giusto. Ed è anche rivelatore delle nostre sensibilità politiche nella misura in cui questa istituzione si presenta come un punto di cristallizzazione dell’insormontabile disputa fra padrone e servo. Certo, è evidente che se ci si mettesse dalla parte dello Stato e dei guardiani dell’ordine, si accetterebbe quell’inattaccabile buon senso per il quale il carcere, in un mondo che ha messo al bando più o meno tutte le altre forme di punizione, è un male tanto necessario quanto ineliminabile. Ma se, come Foucault o Benjamin, ci si mette dalla parte dei perdenti, dei senza voce e dei vinti della storia, allora si percepisce il carcere come la reificazione della regola di un gioco che ci sconfigge (anche noi che non siamo reclusi) e come lo sbocco di ogni movimento contestatario (per poco violento che sia) messo in atto per sottrarci all’ordine vigente. In breve, in tutti i discorsi sul carcere c’è un sottofondo poco visibile nel quale s’indovina il nome di quello o di quelli di cui facciamo nostro il punto di vista; che sia quello di Marceau o quello del marchese de la Chesnaye, le cose sono rimaste più o meno le stesse fin dal tempo de La Règle du jeu di Renoir. La stessa cosa vale in letteratura: non potete stare contemporaneamente con Jean Genet e con Bertrand Poirot-Delpech.
L’ordine di cose che produce la divisione fra ladri e derubati, «asociali» e poliziotti, disoccupati a carico dello Stato e baroni Seillières, Tapie e Ghellam, e così via, non lo abbiamo votato. Dunque è un abuso intimarci di prendere posizione su ciò che è funzionale a mantenere quest’ordine e sui mezzi per punire coloro che quest’ordine infrangono. Prima di porci imperiosamente la domanda: «Con che cosa volete sostituire il carcere?», ci dovete porre tutte le domande che la precedono, cioè quelle che riguardano i tratti fondamentali di quest’ordine (la cui natura contrattuale si ritrova solo nelle dissertazioni filosofiche degli studenti dell’ultimo anno di liceo).
Cominciamo dall’inizio: vediamo quali sono le categorie dominanti nella popolazione penitenziaria, vediamo cosa li porta a infrangere l’ordine costituito, e approntiamo i mezzi per porvi rimedio; vediamo anche il modo mediante il quale le convenzioni sociali e giuridiche operano la separazione fra ciò che è delitto e crimine e ciò che non lo è (di cosa sono colpevoli i consumatori di cannabis, gli immigrati senza documenti?). Non dobbiamo rispondere a domande tendenziose che non sono altro che ingiunzioni per farci ammettere che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Ci sono molte altre questioni di primaria importanza sulle quali il nostro parere di semplici cittadini non è mai richiesto.
Accettare i termini dell’ultimatum – «Ammettete che le carceri sono necessarie perché niente potrebbe sostituirle» – vuol dire accettare di farsi garanti di quest’ordine di cose che produce le dicotomie fra vincenti e perdenti, inclusi ed esclusi, ricchi e poveri, superimpegnati e nullafacenti, e di quelle costanti sociali che alimentano il sistema penitenziario come luogo di ammasso, innanzi tutto, di poveri e di ignoranti.

Continuo incitamento al delitto

Sul piano sociale, la civiltà dell’automobile nella quale viviamo è un continuo incitamento al delitto per i poveri e i marginali. Essa mostra, nel modo più arrogante e perverso, la separazione fra la minoranza che accede al «sogno» feticista glorificato dalla pubblicità e dalla propaganda («la bella macchina») e tutti gli altri. Giorno dopo giorno, poveri diavoli a carico dello Stato e disoccupati subiscono pubblicità televisive di auto il cui prezzo unitario rappresenta anni e anni dei loro guadagni. Se dunque l’automobile condensa tutta la violenza simbolica della divisione fra coloro che hanno accesso al godimento dei beni di prestigio e gli altri, chi può stupirsi che tanti delitti e crimini abbiano a che fare con queste costose macchine e che le carceri accolgano un così grande numero di colpevoli di reati legati all’automobile?
La domanda «Che cosa mettereste al posto della prigione?» tende a fare occupare al cittadino ordinario il posto proprio allo Stato, tende a fargli adottare sulla società lo sguardo dell’autorità, della polizia, il punto di vista assoluto dell’ordine, ma senza concedergli per questo un’oncia di potere effettivo. Essa implica l’abbandono di ogni prospettiva critica su come quest’ordine è fatto e su ciò che lo sostiene, ed esorta a un ricondizionamento dello sguardo e dell’intelligenza il cui effetto è di rendere l’uomo ordinario incapace di gettare un altro sguardo (che non sia quello della polizia o dello Stato) su chi infrange l’ordine, sui reati e sui crimini. E chi infrange l’ordine ha molti pseudonimi: disoccupato, immigrato clandestino, folle, fumatore di cannabis, disperato, ecc.
Ciò che Hannah Arendt dice sull’irriducibilità degli spazi pubblici alle condizioni dell’Uno vale anche qui: l’uomo ordinario, in quanto elemento essenziale della cultura democratica, non deve smettere di avere presente il crimine anche dal punto di vista di colui che infrange l’ordine, della sua posizione, delle sue ragioni e dei suoi interessi. Il criminale, come il folle, il malato, il diverso per razza, per religione o per orientamento sessuale, non è costituzionalmente meno dotato sul versante dell’umanità, non è una belva, un mostro, un barbaro metà uomo e metà bestia... Non si attesta sul versante della pura aberrazione, le sue ragioni devono dunque essere ascoltate, qualunque cosa abbia commesso, e nessuna forma di punizione potrà violare la sua essenziale costituzione umana. È piuttosto la prigione che disumanizza. Il carcere è un test sulle facoltà immaginative dell’homo humanitarius di oggi. Il genocidio, i bagni di sangue, le carestie, i disastri epidemici, la disperazione dei perseguitati e dei rifugiati lo mettono in allarme e lo colmano d’orrore. Ma la violenza fredda del carcere spesso lo lascia indifferente, dato che non presenta alcuno dei tratti spettacolari che si associano alle grandi calamità e ai grandi crimini del nostro tempo. La scarsa visibilità della desolazione penitenziaria ha come effetto di non intaccare la sensibilità dell’uomo umanitario. Dal momento che i corpi non sono più direttamente maltrattati, violentati e squartati, la sensibilità contemporanea può riposare più o meno in pace.
Non sarebbe male se l’uomo ordinario apprendesse a misurare la sua distanza dallo Stato non meno che dal criminale. È davvero assodato che ciò che lo posiziona nel campo del primo debba avere la meglio su ciò che potrebbe avvicinarlo a quella plebe che, di propria volontà o no, non rispetta le regole del gioco? Mossi da un’inclinazione tanto deplorevole quanto sospetta per la postura virtuosa, i ricercatori che si occupano delle carceri generalmente tengono a sottolineare che la scelta di quest’oggetto sulfureo non avrebbe nulla a che fare con la fascinazione per il crimine. Anzi, ci tengono a chiarire che la posizione che hanno scelto non è né quella di Juliette né quella di Randal (3). Del resto i loro studi ne risentono, dal momento che ammettono come dato di fatto che il carcere è l’orizzonte insuperabile del nostro tempo punitivo e che solamente gli abusi più rivoltanti devono essere oggetto di riforma.

Siamo contro le prigioni

Noi siamo contro le prigioni esattamente come, trent’anni fa, le élite illuminate erano contro la pena di morte, cioè non tanto per ragioni morali o religiose, quanto piuttosto perché la loro stessa esistenza rinfocola costantemente desideri oscuri: odiare, far soffrire, punire, distruggere coloro ai quali tocca il peso opprimente d’incarnare il male e il pericolo, desideri che non smettono mai d’influenzare l’opinione pubblica. Dato che nel caso delle prigioni il gioco con la morte, il desiderio di morte, non fa che dislocarsi trovando nuove forme di cristallizzazione, coloro che oggi esigono che il tal criminale sconti inesorabilmente la sua pena di venti o trent’anni, e che non riveda mai più la luce del giorno, sono spinti da una passione mortifera non meno terrificante di quella che fino a qualche tempo fa faceva urlare: «A morte!». Il sangue non cola più ai piedi della ghigliottina, ma si è rappreso in quella muta, infinita, sofferenza evocata da quei rarissimi casi di detenuti che attraverso i loro scritti ci consegnano un pensiero non poliziesco sull’infrazione dell’ordine costituito. Le carceri occupano un posto centrale nei discorsi securitari degli uomini di Stato d’ogni tendenza, che governano tramite la paura non potendo far vivere la speranza. Tutte le volte che un uomo politico intona il ritornello che auspica «maggiore fermezza...», bisogna intendere: più carcerati. Ridotti ai loro ultimi argomenti, i difensori della carcerazione ricorreranno a questo inossidabile tema: «Ma che cosa ne farete di quei criminali mostruosi delle cui malefatte parlano le cronache, ovvero serial killer, violentatori abituali, pedofili incalliti?». Ma noi non siamo lo Stato; perché dovremmo avere una risposta per questa domanda quando le nostre opinioni su altre questioni altrettanto scomode (come sbarazzarci delle centrali nucleari, come liquidare la televisione spazzatura, come cancellare la monomania automobilistica, ecc.) sono ritenute del tutto inopportune? Ma, al di là di tutto, ciò che si svela qui è una vera e propria fantasmagoria: tutto tende ad accreditare l’idea che le carceri siano fatte per proteggere la società contro individui particolarmente pericolosi e irrecuperabili. Ebbene, nelle carceri francesi, che ospitano 50.000 persone, se ne contano solo alcune centinaia che rispondono a questo profilo, e comunque la loro incapacità di ritornare nei ranghi dell’umanità non dovrebbe mai essere decretata aprioristicamente. Sono i vari Pinochet, Milosevic, Bousquet e Papon, i vari burocrati del crimine, a essere incorreggibili, molto più di quei criminali (grandi o piccoli che siano) macchiati di sangue che, come ci dimostrano esempi recenti, talvolta possono rinascere e ricominciare una nuova vita anche nelle condizioni più sfavorevoli che ci siano, ossia quelle del carcere.

Disegno di Giovanni Battista Piranesi sulle carceri

Unità antipolitica

Dopo che è venuta meno l’evidenza, largamente condivisa negli anni Sessanta e Settanta, che l’élite illuminata e gli intellettuali progressisti dovessero schierarsi dalla parte degli operai, degli sfruttati e dei popoli colonizzati, ha preso corpo una nuova configurazione: possiamo vedere un pubblico umanitario, composto dalle più disparate categorie, schierarsi a fianco delle vittime e dello Stato, pensare la sua solidarietà verso le vittime con lo Stato nei termini propri del pensiero statuale (da telethon all’ingerenza umanitaria). In questa configurazione non si trova evidentemente più nessuno che opponga la figura del perdente, del vinto della storia, a quella della vittima. Quest’ultima s’impone come passe-partout per negare l’attualità di questa divisione e come tramite della sua depoliticizzazione. La vittima, in opposizione al perdente o al vinto della storia, è quella figura, buona per tutti gli usi, attraverso la quale si realizza la sacra unità antipolitica dello Stato con l’opinione umanitaria. Ora, per definizione, il detenuto è un perdente (anzi è colui che ha sempre perso in anticipo nel suo scontro senza speranza con la regola del gioco), non una vittima. Di fronte al tribunale dell’opinione pubblica, è colui che viene opposto costantemente alla vittima, da compatire perché ne subisce i misfatti. Non si troverà dunque più nessuno che oserà dire che gli intellettuali e le élite illuminate debbano schierarsi a fianco di questo pulviscolo d’umanità plebea, composta da perdenti e vinti, che popola le carceri, piuttosto che a fianco dello Stato che imprigiona e dell’opinione pubblica che reclama sempre più rigore e pene per questi perturbatori dell’ordine.
Perché oggi l’uomo dei sondaggi è animato da tanta ostinazione e tanto astio nell’insistere sulla insostituibilità dell’istituzione penitenziaria quali che siano i suoi limiti? Il fatto è che il carcere gioca un ruolo decisivo nel produrre effetti d’alterità fra l’uomo ordinario e il criminale. Laddove ognuno sperimenta più o meno distintamente la propria prossimità con il criminale (il ladro, lo stupratore, l’assassino), il carcere, separando violentemente un mondo aperto da un sub-mondo chiuso, produce la falsa evidenza di una differenza essenziale fra due specie umane: quella delle persone oneste e virtuose (che non conoscono il carcere) e quella dei criminali (di cui circoscrive, marca e definisce l’appartenenza al mondo penitenziario). Ora, nel suo intimo, l’uomo medio non ignora nulla dell’artificio insito in questa separazione. In quanto essere vivente costituito e attraversato dal desiderio, sa bene di essere esposto, proprio per la sua più intima natura, a commettere eccessi e gesti irragionevoli che lo spingono al crimine. Chi non è mai stato colto dall’impulso primitivo di godere di un altro senza curarsi del suo consenso, di impadronirsi di un bene che non gli appartiene, d’infierire sul nemico, inimicus o hostis poco importa?
La caratteristica del piccolo uomo contemporaneo, che rivolge la propria attenzione alla sua costituzione affettiva in quanto soggetto/oggetto del desiderio e civilizzato, è quella di rivelare l’estrema labilità della linea di separazione fra la sua esistenza im-punita (piuttosto che onesta e virtuosa) e quella del criminale. Dopo Nietzsche, Freud, Elias, anche se non li ha letti, egli non ignora più quel «superbo barbaro» in lui che ha dovuto soffocare e rinchiudere a tripla mandata per diventare un essere civilizzato (il vicino, il padre, il lavoratore) accettabile. In questo senso, non c’è nessuno di questi piccoli uomini (e donne) che non sappia di essere fratello (o sorella) di sangue del criminale. Non c’è nessuno che non abbia cognizione, foss’anche confusa, di questo fatto iscritto nel cuore stesso dell’esperienza storica del XX secolo: il divenire criminale collettivo, nei regimi totalitari, dell’uomo medio (i normali) in quanto massa. La frontiera fra il crimine e la sua assenza è messa in pericolo precisamente nell’istante in cui, in quanto normali, essi sono soggetti dei regimi totalitari chiamati a partecipare al crimine di massa.

Mosca, il carcere della Lubianka

Sottile involucro civilizzato

Questa fragilità della separazione fra il civilizzato e il selvaggio, l’innocente e il colpevole, il criminale e il giusto o il virtuoso, è iscritta nella trama stessa delle società post-totalitarie. I movimenti di imbarbarimento che hanno accompagnato le esperienze totalitarie dimostrano quanto sia sottile l’involucro civilizzato che protegge e allontana l’uomo occidentale del XX secolo dalla sua selvatichezza, inculcandogli costumi sempre più pacificati, ispirandogli un’avversione sempre più spiccata per le condotte violente. Ora, è precisamente perché sappiamo non solo che «gli assassini sono fra noi», ma anche che noi, uomini qualunque (ormai sottratti alla nostra natura violenta), non siamo che illusoriamente immunizzati contro le nostre potenzialità criminali, che siamo indotti a rendere eterno il rito attraverso il quale ci separiamo violentemente e simbolicamente dalla nostra parte selvaggia, proiettando nello spazio penitenziario questo «altro», questo intermediario, questo doppio: il criminale.
Il processo di conversione di questa parte essenziale di noi stessi in un altro assoluto è ciò che rende indispensabile la perpetuazione del carcere, affinché possa perpetuarsi anche la menzogna della nostra innocenza come esseri civili e pacificati: rito arcaico d’autopurificazione (ammesso che ne sia mai esistito uno) attraverso il quale ritorna, proprio là dove pensavamo di averla espulsa, la nostra atavica parte selvaggia, a scapito della nostra innocenza animale.
In un famoso passo di Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss scrive che non essendoci società perfette tutte «comportano per natura un’impurità incompatibile con le norme che esse proclamano, che concretamente si traduce in una certa dose di ingiustizia, di insensibilità e di crudeltà». Questa dose egli la chiama anche il «residuo d’iniquità» proprio di ogni società: nel mondo occidentale moderno il sistema punitivo fondato sull’esclusione sociale (il carcere) è la cristallizzazione di questo «rifiuto della società», il marchio stesso dell’infrazione alle norme. Opponendo due modelli di società, quelle che chiama antropoemiche (dal greco emein, vomitare) e quelle designate come antropofagiche, Lévi-Strauss scrive: «[Le nostre società] hanno scelto la soluzione consistente nell’espulsione di questi esseri terribili [delinquenti, criminali] tenendoli temporaneamente o definitivamente isolati, senza contatti con l’umanità, in istituzioni destinate a quest’uso. Alla maggior parte delle società che noi chiamiamo primitive, questo costume ispirerebbe un orrore profondo; ai loro occhi potremmo essere marchiati dalla stessa barbarie che noi saremmo tentati di attribuirgli a causa dei loro costumi simmetrici».
Per «costumi simmetrici» Lévi-Strauss qui intende la tortura come viene praticata nelle società primitive o anche il fatto di mangiare il corpo del nemico. E ribadendo il concetto, aggiunge che sarebbe «un’assurdità credere che noi abbiamo compiuto un grande progresso spirituale perché, anziché mangiarci qualcuno dei nostri simili, preferiamo mutilarli fisicamente e moralmente» attraverso la reclusione e la rottura dei legami sociali.

Inversione dello sguardo

Invitandoci a riflettere dal punto di vista del selvaggio o del primitivo su questo «residuo d’iniquità» rappresentato dal nostro arcipelago penitenziario, Lévi-Strauss sottolinea il carattere relativo – culturale – di quello che consideriamo, con sempre maggiore insistenza, come il criterio stesso della condizione civile: la disgiunzione della sanzione o della punizione dalla violenza viva esercitata direttamente sui corpi, di cui la forma estrema è la tortura; la proibizione assoluta di ogni forma di banchetto riparatore o di vendetta che includa il corpo del nemico o del criminale. Bisogna passare attraverso quest’inversione dello sguardo per comprendere come possa essere relegato nella zona d’ombra della nostra condizione civilizzata l’orrore di un sistema punitivo fondato sullo sradicamento dell’individuo dal tessuto comunitario, sulla distruzione del legame sociale e sulla solitudine affettiva. Da quando abbiamo rinunciato a martoriare i corpi, a far colare il sangue, a punire crudelmente (cruor = sangue), ci consideriamo finalmente a posto con le regole di civiltà, dimenticando, come diceva Beccaria, che ci sono molti castighi peggiori della morte, mediante i quali «i mali dell’infelice [il recluso], anziché finire, non fanno che ricominciare». Caratteristico del carcere è dunque di renderci indefinitamente insensibili alla sofferenza e all’infelicità inflitte attraverso la reclusione, l’isolamento, nella forma di un’antropoemia inflessibile ma «pulita». Assegnare il ruolo del barbaro a questi gruppi, popoli, Paesi, dove si continuano a combattere guerre sporche con la loro coda di crudeltà, dove resta in vigore la pena di morte, ha come finalità non solo di produrre divisioni convenienti e generatrici di coesione interna appunto nella separazione fra «loro» e «noi», ma anche di sottrarre alla vista i punti più deboli del nostro sistema di autovalorizzazione (in primo luogo i nostri dispositivi punitivi). Incitandoci a gettare sui nostri luoghi di reclusione lo sguardo dell’antropofago, per il quale il legame comunitario è tutto e l’espulsione dal gruppo è l’infelicità suprema, Lévi-Strauss ci invita a ritrovare, di fronte all’orrore penitenziario, la nostra piena capacità di stupirci inorridendo.
Con la reiterata ingiunzione a spiegare con che cosa intendiamo rimpiazzare le prigioni (mentre noi ne contestiamo il principio e l’esistenza stessa), è l’ideale di una società di polizia a emergere nella sua piena trasparenza: una società dove tutti e ciascuno sono chiamati ad assumere, su questioni fra loro molto eterogenee come la proprietà, la sicurezza, il crimine, la devianza, la delinquenza e il furto, esclusivamente il punto di vista del poliziotto, secondo il mandato affidatogli dallo Stato di proteggere il proprietario. Si tratta allora di opporre al punto di vista unico della protezione dei beni la constatazione che il sistema penale e penitenziario costituisce la più patente trasgressione del processo di civilizzazione dei costumi. Si tratta, per esempio, di esigere dal filosofo quanto Rousseau rammentava ancora nell’Emilio, e cioè che il «problema» fondamentale è la felicità dell’individuo; mentre oggi si chiede anche a lui di ragionare come un poliziotto non appena la sua riflessione si imbatte nei temi della proprietà (ovvero della difesa della proprietà) e della sicurezza (diventata ai nostri giorni una specie di ricettacolo, luogo d’ammasso ideologico...). Qui c’è, evidentemente, una sorta di omogeneizzazione e di egemonizzazione dei discorsi assolutamente insopportabile: chi si sognerebbe di domandare al poliziotto, il cui mestiere in effetti è di reprimere il crimine, di provare a sottrarsi radicalmente alla sua posizione per affrontare il problema anche dal punto di vista della felicità pubblica e privata?

La fortezza di San Leo

Intolleranza all’orrore penitenziario

Rifiutarsi di ridurre la questione carcere al punto di vista della polizia è dunque il più elementare dei diritti del cittadino avvertito. È suo diritto proclamarsi rigorosamente e definitivamente intollerante di fronte all’orrore penitenziario senza per questo dover proporre mezzi alternativi alla reclusione concepita come privazione del legame sociale: indicare che cosa deve sostituire una pratica o un’istituzione incompatibile con le nostre norme di civiltà è una questione che nemmeno si pone. Chi si chiede con che cosa rimpiazzare la tortura dei sospetti, la pratica di sgozzare i condannati o gli abusi della polizia...? Una volta respinta l’ingiunzione volta a neutralizzare ogni sforzo di riflessione attorno ai temi della sicurezza e del sistema penitenziario, si apre una lunga sequela di domande, tutte infinitamente complesse. Esse concernono in particolare la nozione di responsabilità (quale significato riparatore ha rinchiudere in carcere un criminale psicotico?), la questione del contratto sociale (un ladro o un delinquente può essere descritto, e lo si sente spesso, come «colui che ha infranto il contratto sociale»?), il problema della sicurezza (in che senso essa è un «diritto»?), il discorso su una proporzionalità fra delitti e pene (quale durata di sospensione dall’appartenenza comunitaria e quale intensità di sofferenza costituiscono l’equo «equivalente» per il furto di un telefono cellulare?).
Nei tempi di abbrutimento securitario senza precedenti che viviamo, queste domande sono rimosse con una sollecitudine che altro non è se non la manifestazione, cambiata di segno, della loro urgenza. La nozione stessa di crimine è legata a uno stato della società, a delle convenzioni sociali, a «finzioni» coesive. Quando vediamo, come hanno riferito i giornali durante l’estate 2001, che i furti senza violenza dei telefoni cellulari contribuiscono per circa due terzi all’aumento del numero di reati rilevato dalle più recenti statistiche di polizia (mentre il numero degli omicidi continua a diminuire), si coglie immediatamente che la questione demagogica dell’insicurezza-che-cresce nasconde una realtà contraddittoria. Ciò che le società contemporanee percepiscono come il problema maggiore – ossia la sicurezza (minacciata) e la criminalità (crescente) – ci appare essenzialmente come un prolungamento meccanico delle modalità di presentazione, diffusione e ripartizione delle merci.
Viviamo in effetti in una società sdoppiata e schizofrenica. Da una parte essa esalta tutte le forme del consumo e tende sempre più a sostituire alle figure tradizionali legate al lavoro (l’operaio, l’impiegato, il padrone...) o alla politica (il cittadino, il militante...) quella del consumatore universale. Dall’altra parte, essa istituisce e riproduce delle modalità di ripartizione così ineguali che l’accesso al godimento di un certo numero di oggetti o di beni diventa la posta in gioco di una lotta selvaggia e incontrollabile fra coloro che «li hanno» e coloro che si trovano invece nella condizione di un bambino nel reparto giocattoli di un grande magazzino, che si muove fra tutte quelle meraviglie senza avere il diritto di toccarne nessuna. Una parte determinante delle pratiche illegali contemporanee ha luogo in questo spazio dove la massa è sollecitata costantemente (con tutti i mezzi più raffinati della seduzione e dell’incitamento) a consumare beni e a godere di oggetti ai quali la sua posizione economica e la sua disponibilità di denaro le impediscono di avere accesso. Viviamo in una società nella quale non sono più l’indigenza e la fame che spingono al crimine, ma dove è il non-accesso al consumo che costituisce, in questo mondo-vetrina, una forma molto rigida non solo di marginalizzazione o, come si dice, di esclusione, ma quasi di morte sociale. Le odierne classi pericolose si ricostituiscono dunque in una configurazione dove non sono più (come nel XIX secolo di Louis Chevalier) formate da affamati che lottano per la loro sopravvivenza biologica e muoiono sulle barricate reclamando il pane. Esse sono invece formate da frustrati del consumo che sperimentano una sorta di «condivisione occulta», compensatrice, destinata a farli partecipare, come gli altri, al godimento dei beni che esercitano maggiore seduzione. Lungi dunque dal pensare che il ladro appaia qui come colui che si oppone violentemente alla norma sociale, esso si manifesta piuttosto come una sorta di conformista sociale pronto a tutto, o quasi, per occupare, come gli altri, la posizione del consumatore medio.

L’“ideale” di società poliziesca

Il conflitto, tutto sommato mediocre e monotono, che oppone il capitalista seduttore, desideroso di vendere a ogni costo ciò che la maggioranza non può comprare, a coloro che vanno in bestia per il fatto di non poter toccare le merci-feticcio se non «con gli occhi», non mette direttamente in gioco il cittadino attivo o il filosofo. Per loro, i ladri – che sono la maggioranza della popolazione penitenziaria – non sono evidentemente né amici né fratelli, ma ancora maggiore è la loro avversione per quei demagoghi e quegli «esperti» oscurantisti che desiderano trapiantagli l’occhio del poliziotto piuttosto che lasciargli esercitare la loro facoltà di giudizio.
Oggi l’ideale di una società di polizia non s’incarna nel piccolo uomo indottrinato, fanatico, reso cieco dal potere dittatoriale, ma molto più semplicemente nel cittadino che concepisce l’ordine sociale esclusivamente dal punto di vista del proprietario d’automobile e che, dunque, considera ogni oltraggio contro questo vitello d’oro come passibile del castigo supremo (amministrato dal poliziotto che, perdendo i nervi, ammazza il ladro cavandosela con una condanna a sei mesi con la condizionale). A questa fuga in avanti nell’immaginario securitario, il cittadino illuminato e il filosofo oppongono una prescrizione inoffensiva: vivete in modo da non avere molto da temere dal ladro e vedrete che sarete sollevati dalla maggior parte dei vostri timori securitari. E ogni volta che sarete in procinto di soccombere al richiamo delle sirene (più repressione, più sorveglianza e carceri!) domandatevi quanto vale nella moneta della sofferenza umana, e in termini di sradicamento dalla vita comune, la perdita di un telefono cellulare, di un’automobile, di una telecamera, ecc. Cosa ci possiamo attendere da una società che sempre più tende ad adottare sugli affari umani il punto di vista del poliziotto, che tende a liquidare la condizione stessa della pluralità (degli interessi, dei punti di vista, delle opinioni) quando è in gioco l’ordine sociale (come se ci fosse qualcosa che, da vicino o da lontano, non la riguardasse)? Strano paradosso quello di una società sempre più portata ad abolire le linee di frattura e le forme di divisione tradizionali, attraversata da forme di fluidità (economica, sociale, culturale e ideologica) sempre più marcata, e che simultaneamente sembra sempre più indotta a indurire il decreto di espulsione e d’esclusione contro gli «altri» (ladri, delinquenti...), che essa sradica dall’umano consesso inviandoli in carcere. In Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss racconta le pratiche di «polizia» e di giustizia degli indiani delle pianure nordamericane:
Se un indigeno contravveniva alle leggi della tribù, veniva punito con la distruzione di tutti i suoi beni: tenda e cavalli. Ma nello stesso tempo, la polizia contrattava un debito nei confronti del punito: alla polizia stessa toccava organizzare la riparazione collettiva del danno del quale il colpevole, per essere punito, era stato la vittima. La riparazione a sua volta faceva del punito il debitore del gruppo, al quale doveva dimostrare riconoscenza mediante regali offerti a tutta la collettività (compresa la stessa polizia), che lo aiutava a procurarseli in modo da invertire nuovamente i rapporti; e così di seguito fino a che, al termine di tutta una serie di regali e contro-regali, il disordine precedente fosse progressivamente eliminato e l’ordine iniziale restaurato.

Lo Stato di diritto e la classe media planetaria, i due maggiori attori della civiltà contemporanea, non avrebbero molto da apprendere da questi usi «primitivi» della polizia e della giustizia?

Alain Brossat

Note:
1. Le carceri sono «la vergogna della Repubblica», come ha affermato Act up, su «Le Monde», 6 novembre 2000.
2. Michel Foucault, La philosophie analytique de la politique, in Dits et Écrits, vol. III, cit., p. 544.
3. Marchese de Sade, Juliette, ovvero la prosperità del vizio, Newton Compton, Roma, 1993; Georges Darien, Le Voleur, Pauvert, Paris, 1955.

Il volume di Alain Brossat (Elèuthera, 152 pp., € 11,00) dal quale è tratto questo articolo