rivista anarchica
anno 33 n. 293
ottobre 2003


neoriformismo

La finzione partecipativa
di Andrea Papi

 

I neoriformisti teorizzano la democrazia partecipativa per puntellare la democrazia rappresentativa che ha sempre più il fiato corto. Il rischio è che diventi un fattore della conservazione capitalista.

Da qualche anno, propugnato con forza soprattutto dai Social Forum di tutto il mondo, ha preso piede una nuova teorizzazione, non antagonista alle democrazie vigenti, di nuove forme di democrazia, che nelle intenzioni aspirerebbe a realizzare una diffusa situazione sociale non liberista ed anticapitalista.
Da chi l’ha concepita questa nuova opzione teorica è stata denominata democrazia partecipativa, con lo scopo precipuo di distinguerla dalla vigente democrazia rappresentativa. La denominazione non è casuale, ma meditata, in quanto intende sottolineare, fin dall’atto della propria definizione, che il carattere specifico che la distingue è appunto la partecipazione. Di chi? È ovvio! Degli stessi che eleggono i rappresentanti di quella rappresentativa, cioè i cittadini componenti la società di riferimento. Oggi non è più in uso, giustamente, parlare genericamente di popolo, termine ambiguo ed ormai obsoleto, che riconduce ad un’atmosfera risorgimentale velata di romanticismo, e che, oltre ad assemblare gli individui di un determinato territorio nazionale, comprende anche le loro specifiche caratteristiche culturali e le loro specifiche tradizioni. Oggi, epoca di globalizzazione e di continue contaminazioni culturali, si parla di società, che con più pertinenza inerisce ai componenti, tutti indipendentemente dalle diverse tradizioni, di un determinato contesto territoriale.

Alcuni punti imprescindibili

Prima però di addentrarmi in una breve analisi sul senso di questa neoproposta teorica, mi preme sottolineare alcuni punti che ritengo imprescindibili e altamente significativi, comprensivi del senso del concetto generale della democrazia.
Più che come un valore, la democrazia va intesa come un principio che indica una modalità di gestione dell’insieme sociale di riferimento. E ci dice che il potere, che è la possibilità e la volontà di decidere che investe l’insieme dei cittadini, oltre a riguardare tutti, soprattutto appartiene a tutti indifferentemente. Demos, cioè popolo, e kratos, cioè potere: secondo l’etimologia letterale, potere del popolo. Una delle tre forme possibili di governo secondo la classica tripartizione aristotelica, costituita da monarchia, o il governo di uno solo, oligarchia, o il governo di pochi, e democrazia, che per Platone corrisponde al governo dei più o della moltitudine. Geneticamente quindi l’ipotesi democratica ha preso origine dall’idea di un potere esercitato attraverso un governo direttamente gestito dal popolo. Per esserci democrazia allora, in qualche modo, le forme procedurali del suo esercizio devono, e sottolineo devono, comprendere l’insieme degli individui componenti l’assetto sociale. Se ciò non sussiste, almeno secondo il significato originario che ancora le è riconosciuto, non si tratta di democrazia, ma di un’altra forma di kratos.
La democrazia dunque si definisce e si qualifica per il tipo e per la qualità della gestionalità messa in campo, la quale, indipendentemente dalle forme procedurali prescelte, deve comunque essere esercitata dall’insieme societario. Appare evidente che, affinché si possa compiere, ha necessità strutturale della partecipazione di coloro che la devono attuare, i quali, come abbiamo visto per definizione, sono i componenti dell’insieme societario. La partecipazione così è un elemento indispensabile già compreso nella realizzazione e nel concetto originario. A livello di definizione perciò non potrebbe esistere una specifica democrazia partecipativa distinta da altre forme di essa, in quanto, a rigor di logica, non può che essere sempre partecipata, altrimenti non può che essere qualcosa d’altro. Anche nella democrazia rappresentativa, infatti, che per scelta ha eliminato la partecipazione diretta con la prevalenza della delega di potere, paradossalmente la partecipazione si esercita attraverso il voto. Ciò che distingue la tipologia democratica non è dunque la partecipazione o meno, bensì il tipo di decisionalità, perché, comunque intesa, per poter esserci ed esser definita tale, presume sempre da un minimo ad un massimo di partecipazione al meccanismo decisionale. Se ha dunque senso parlare di democrazia rappresentativa e all’inverso di democrazia diretta, ne ha invece molto meno sostenerne come nuova una che si qualifichi come partecipativa, in quanto qualsiasi democrazia non può che essere sempre partecipata.
Poi, a ben pensarci, partecipare esprime un concetto neutro, quindi contiene una valenza ambigua. Si partecipa infatti a qualcosa che è già fatto e definito e partecipandovi non lo si muta, al limite lo si può sia arricchire che impoverire. La partecipazione non può essere una qualificazione capace di attribuire un senso, in quanto non ha le caratteristiche per distinguere. Si può infatti essere partecipi indifferentemente sia ad un governo di destra che ad uno di sinistra, come ad una situazione libertaria, oppure ancora ad una caotica. La partecipazione cioè si esplica con una qualità ed un’intensità diverse, a seconda del fine contenuto nel tipo di democrazia cui deve render conto. Alla fin fine indica soltanto una qual certa connivenza, non un dato qualificante.
Chiariti questi concetti di base, cerchiamo ora di comprendere, dal punto di vista della qualità politica, che cosa vuole e che cosa propone questa autodefinentesi democrazia partecipativa.

Scissione tra economico e politico

Una prima cosa che mi sembra di notare è che si dichiara e tenta di porsi come alternativa al sistema capitalista, quindi alla struttura economica complessiva, ma nient’affatto al sistema politico storicamente determinatosi che questa esprime, la democrazia rappresentativa. Presuppone quindi a priori una scissione netta tra la considerazione dell’economico e quella del politico, evidentemente ritenendo che l’uno non sia conseguenza dell’altro e viceversa. Una simile considerazione rischia di essere un assioma se non viene supportata da un’adeguata dimostrazione, come a tutti gli effetti mi sembra che non ci sia. Ponendosi come un fondamento dato per scontato, corre pure il rischio di scadere in una nuova forma d’idealismo che si ammanta di pragmatismo.
Mi vien da dire che si tratta di un residuo della vecchia sinistra marxisteggiante, che rispolvera, non spetta a me dire se più o meno volontariamente, la classica divisione dottrinale tra struttura e sovrastruttura, dove la struttura è quella economica, mentre l’ambito del politico è considerato sovrastrutturale. Sempre secondo dottrina, ne consegue che l’ambito politico è essenzialmente strumentale alla conservazione della struttura, mentre può potenzialmente diventare funzionale al suo superamento, come pure alla messa in opera di una struttura alternativa. Secondo Marx la sovrastruttura statuale della borghesia era uno strumento utilizzabile dal proletariato vittorioso, al fine di gestirlo transitoriamente fino all’avvento del comunismo. Fu questa visione a dare a Lenin l’idea della presa del potere e dell’instaurazione dello stato socialista gestito dal partito unico. Non credo ci sia bisogno di dilungarmi in una trattazione argomentativa per sottolineare i danni cui ha portato un simile fondamento teorico. Riprenderne perciò il senso, sebbene non pari pari ma adeguatamente aggiornato, a mio avviso vuol dire intestardirsi più per un atto di attaccamento fideistico che per una vera consapevolezza sulla coerenza del da farsi.
La democrazia partecipativa però, che teoricamente continua a fondarsi sull’assunzione della prevalenza dell’economico sul politico, a differenza dei marxismi cui eravamo abituati, non si pone direttamente il problema della presa del potere, né ovviamente attraverso un’espropriazione rivoluzionaria, né attraverso l’uso elettorale per la conquista socialdemocratica del governo. Sempre all’interno della stessa dimensione analitica ipotizza un’altra strada, più vicina all’ipotesi socialdemocratica che a quella rivoluzionaria, in quanto ipotizza un’occupazione sistematica dello spazio politico ai fini di condizionare l’economico.
Il campo di battaglia sono gli enti locali (comuni, province, regioni) e la strategia politica è la costruzione dei Nuovi Municipi. Nuovi per modo di dire, in quanto la formazione dei consigli e dei governi locali continua ad essere esattamente quella vigente. La novità supposta non sta in una strutturazione di riferimento diversa ed effettivamente innovativa, bensì nell’incentivazione della creazione di organismi di base, composti da associazioni, sindacati, comitati, collettivi gruppi di lavoro volontari, ecc., che debbono trovare un ambito specifico in cui potersi confrontare e deliberare. In tal senso Alberto Magnaghi è estremamente chiaro: «Noi abbiamo bisogno di un processo partecipativo attraverso il quale, mobilitando energie locali innovative, il nuovo municipio sia in grado di decidere il futuro socioeconomico dei luoghi» (1). Successivamente chiarisce che si tratta del passaggio da «…forme consultive di partecipazione a istituti di co-decisione nel governo locale – democrazia deliberativa con i cittadini –…» (2), sostenendo al contempo, consapevole, che l’organizzazione e la definizione delle regole di questo processo non può che essere sperimentale e specifica per ogni contesto.

Indagando le modalità pratiche

La teoria partecipativa della democrazia ha origine in Brasile, dove ha preso forma da alcuni anni e continua ad essere sperimentata, in particolare nell’ormai simbolica Porto Alegre, che ne è diventato il centro irradiatore. I social forum di tutto il mondo, che erano alla ricerca di nuove forme di rappresentanza capaci di diventare modello per sé e per il mondo intero, una volta entrativi in contatto se ne sono innamorati e l’hanno fatta propria. Ma è proprio indagando nelle modalità pratiche di funzionamento brasiliane che i suoi limiti insiti saltano evidenti.
È sorta come ipotesi di coniugazione tra forma rappresentativa e forma diretta all’interno della partecipazione democratica, evidentemente non considerandole contrapposte. L’ipotesi è quella di creare a latere spazi strutturali assegnati alla partecipazione diretta, accanto e di supporto a quelli istituzionali, che abbiano la forza e la possibilità di premere, incidere e condizionare la capacità decisionale degli organismi ufficiali, i quali in tal modo non vengono messi in discussione, mentre allo stesso tempo trovano un’ulteriore legittimazione. Come sostiene sempre Magnaghi: «… dei «costituenti locali» che affrontino il problema concreto dell’attivizzazione di istituti di democrazia intermedia, che affianchino e trasformino gli istituti di democrazia delegata in profonda crisi» (3). C’è qui evidente la consapevolezza che la democrazia rappresentativa ha sempre più il fiato corto, che sia appunto «… in profonda crisi», che da sola a lungo andare non può farcela. Allora, da buoni riformisti, invece di porsi il problema di come dare il colpo di grazia delegittimandola, come invece per esempio avrebbe fatto un rivoluzionario, si sono posti quello di come salvarla ed hanno messo in piedi le stampelle per tentare di non farla crollare.
Ma quale relazione sussiste tra le due componenti? Nessuna formalizzazione. Nessuna di tipo strutturale, se non il riconoscimento ufficiale che esistono luoghi e momenti di deliberazione diretta, senza nessun potere decisionale, che però hanno la possibilità, volendo, di incidere sulle decisioni degli organismi istituzionali. Lo sguardo di Paolo Cacciari, assessore al comune di Venezia che ha potuto assistere in prima persona al loro funzionamento a Porto Alegre, trae queste considerazioni: «Partire dall’idea dell’assoluta autonomia (anche formale) della rappresentanza popolare da quella istituzionale, ma anche della sua volontà e possibilità d’incidenza sulle decisioni amministrative… emersione di una società civile che sappia autonomamente autorappresentarsi… e imporsi di fatto e di diritto, all’interno dei processi di decisione… del governo locale che, volendo o subendo, cede sovranità ad istanze di autoespressione popolare» (4). Come appare evidente, il significato e l’impatto sono soprattutto simbolici, dal momento che l’«autorappresentazione» popolare nella realtà dei fatti svolge, quando ci riesce e per «bontà loro», unicamente il ruolo di pressione e di incidenza nei confronti dei poteri costituiti.

L’esperienza brasiliana

Il presupposto su cui si fonda l’esperienza brasiliana è quello dell’ascolto degli organismi popolari (c’è da chiedersi quanto spontanei) da parte dei poteri costituiti. La partecipazione è soprattutto concepita come un modo di gestire lo stato tentando di relazionarsi continuamente con gli abitanti, un «esercizio continuo di tolleranza» per i rappresentanti istituzionali, come sostiene Iria Charão, assessore dello stato di Rio Grande do Sul. Interessante in proposito l’esperienza del bilancio partecipativo. Questi altro non è che una specie di verifica popolare del bilancio di spesa pubblica. Gli organismi istituzionali, come in qualsiasi altra parte del mondo, fanno il loro bravo bilancio e, prima di approvarlo definitivamente, sottopongono le scelte dei grandi investimenti alla consultazione degli organismi di partecipazione. In base alla loro sensibilità e disponibilità decideranno poi se tener conto dei suggerimenti che ne potrebbero scaturire. È uno spazio di dialogo per discutere, non per decidere, insieme agli abitanti sulle trasformazioni importanti del territorio che riguardano tutti.
Sempre Iria Charão, che vive in pieno quest’esperienza, fa una considerazione illuminante: «L’esistenza di una partecipazione deliberativa è un progetto politico, visto che, formalmente, questi istituti partecipativi non potrebbero avere che un potere consultivo: sta al patto d’onore tra istituzioni e cittadini renderli realmente dei «centri di deliberazione», le cui decisioni abbiano valore vincolante…» (5). Ci rivela il nesso fondamentale e verace che definisce il senso politico della relazione istituita tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Nessun nesso strutturale, perché formalmente inesistente e, forse, impossibile, bensì al suo posto un patto d’onore, tacito e vincolante solo moralmente, non definito giuridicamente all’interno di una cultura politica dove tutto deve passare attraverso la formalizzazione dei rapporti e degli istituti. Ciò vuol dire che il vero ed unico potere decisionale, consapevolmente, continua a risiedere esclusivamente nella struttura istituzionale di sempre e che, di conseguenza, la tanto sbandierata partecipazione non può che risolversi in un supporto delle decisioni istituzionali. Mi sembra a tutti gli effetti che il piatto della bilancia sia decisamente spostato tutto dalla parte del potere di sempre e che la partecipazione, in realtà mera consultazione, sia solo una finzione, nei fatti funzionale non agli organismi popolari ma alle strutture del potere della rappresentatività democratica, unica vera legittima.
Non abbiamo dunque la costruzione di organismi e strutture che si pongano decisamente in modo altro, finalizzate a tentare di mettere in piedi il governo alternativo della città gestito dai cittadini stessi. Le strutture e gli organismi decisionali, invece, sono sempre quelli vigenti, eletti con le stesse identiche procedure partitocratiche e clientelari. La differenza risiede nell’ipotesi di riuscire a mettere in piedi organismi collaterali, con la capacità e la possibilità di affiancare il normale lavoro dei tradizionali enti locali, in modo da venir loro in aiuto per non esser sganciati dall’umore e dalla volontà dei cittadini che dovrebbero rappresentare. In altre parole, è la messa in opera di una cogestione politica tra gli organismi dirigenti ed i diretti, in modo tale che gli elettori vengano coinvolti direttamente nella responsabilità decisionale.

I pochi dominanti

Il trucco sta nel fatto che mentre il potere decisionale continua ad esser conservato nelle stesse mani, a differenza di prima l’insieme della collettività, senza poter decidere veramente nulla, si trova invece direttamente coinvolta nelle responsabilità decisionali. Questa impostazione, in tutta evidenza incoerente dal punto di vista libertario, è però perfettamente coerente con l’assunzione dell’assioma di partenza sulla centralità dell’economico rispetto al politico. Dal momento, infatti, che l’obbiettivo fondamentale consiste nel «… decidere il futuro socioeconomico dei luoghi», che appartiene chiaramente all’ambito economico, il momento della decisione, che invece appartiene all’ambito politico considerato sovrastrutturale, non ha la stessa rilevanza strutturale. Ne consegue che, essendo ritenuto strumentalmente funzionalizzabile, l’ambito politico viene consapevolmente asservito allo scopo strutturale di fondo, cioè l’economico. Tutto ciò è conseguente alla logica scelta, in quanto in essa non c’è la minima intenzione di modificare in modo alternativo l’ambito del politico, ma di usarlo. Per costoro l’alternativa vera non può che essere collocata solo nella struttura che ritengono unica: la lotta è condotta esclusivamente per la conquista e la modificazione strutturale del sistema economico.
Eppure non mi sembra difficile comprendere ed assumere che l’ambito del politico, al pari di quello economico, ha una valenza strutturale. Il sistema politico, comprendente le gerarchie, gli apparati d’imposizione e le forme, i metodi e le procedure per decidere, è perfettamente in grado di condizionare l’insieme societario e di sottometterlo all’oligarchia dei gestori del potere, che hanno le leve del comando. Sia sul piano economico che su quello politico s’impone lo stesso identico diktat: la gestione e la conservazione del dominio dei pochi sulle moltitudini e sul mondo. In modo tale che i pochi dominanti possano continuare ad esercitare il privilegio di decidere per tutti gli altri, per usufruire dei benefici che ne conseguono. Continuare ad illudersi, anche se in modi e forme rinnovate ed aggiornate, com’è successo per le vecchie socialdemocrazie, le quali avevano teorizzato l’uso del possesso della gestione politica per la modificazione strutturale del sistema di sfruttamento economico, vuol dire non aver capito l’insegnamento delle esperienze storiche. Indistintamente, tutte le socialdemocrazie che si sono sperimentate, invece di diventare, come avevano dichiarato, dei fattori del cambiamento per l’alternativa sociale, sono diventate dei fattori di conservazione del sistema capitalista.
La modificazione radicale in senso libertario dei sistemi decisionali è fondamentale per la realizzazione della nuova società possibile. Il potere di decidere dev’essere trasferito senza trucchi e fraintendimenti dall’alto delle oligarchie parlamentari al basso delle collettività. Ogni compromesso tra la democrazia diretta, gestita dalla società, e quella parlamentare, gestita dagli eletti che hanno il mandato decisionale, è destinata a diventare esclusivamente uno strumento in mano alla seconda.

Andrea Papi

Tutte le citazioni sono prese da: La democrazia possibile, AA.VV., Cantieri Carta edizioni Intra Moenia, Napoli, 2002; (1) pag. 36; (2) pag. 41; (3) pag. 32; (4) pag. 97; (5) pag. 88.