rivista anarchica
anno 33 n. 293
ottobre 2003


 

Il cervello di Passannante

Leggerlo è un piacere. Ascoltarlo ancor più. Soprattutto se è proprio lui, l’autore, – sornione e caustico potentino – a recitarlo. Sì perché, ciò di cui stiamo recensendo non è soltanto un libro (Ulderico Pesce, L’innaffiatore del cervello di Passannante. L’anarchico che tentò di uccidere Umberto I di Savoia, PianetaLibro Editori, Possidente (PZ), pp. 59, € 5,00.) che ha la grazia di un racconto sussurrato e gridato al contempo, ma – ancor più – è una sceneggiatura, una pièce teatrale, ed in modo particolare un monito a far presto, a non più sopportare l’infamia, il sopruso, l’offesa. E lui, Ulderico Pesce, un attore/autore che presta la sua poetica per far sì che il ricordo sia il motore di una pacifica, ma ferma, protesta. Quella di dare, finalmente, degna sepoltura al cranio e al cervello dell’anarchico lucano, Giovanni Passannante, che la sera del 17 novembre del 1878, a Napoli, attentò alla vita di Umberto I di Savoia, e che imprigionato sino alla fine dei suoi giorni, fu in seguito decapitato così da porre in bella mostra – nel museo criminologico di polizia a Roma, costo dell’ingresso 2,00 euro (sic!) – il cranio e il cervello di chi ebbe il coraggio e l’avventatezza di farla pagare al Re d’Italia per tutti i soprusi e le vessazioni contro i diseredati.

Ulderico Pesce

Protagonista del racconto è Mariuccio, di professione carabiniere come i tanti del Sud Italia alla ricerca del posto sicuro senza porsi alcun perché e nessun ma, il quale dopo una breve e disastrosa esperienza per le strade e le piazze del settentrione – impegnato più a schivare che a dar botte e manganellate da ogni dove – viene definitivamente trasferito a Roma con il compito di fare la guardia alle bacheche e agli strumenti di tortura del Museo di Polizia, in via Gonfalone al 29. Cosi tra la «Gabbia di Milazzo» (gabbia di ferro a forma di uomo che si apre a metà per rinchiudere il condannato) e la «Vergine di Norimberga» (statua di legno a forma di donna, apribile e contenente punte di chiodi da entrambi i lati), il nostro si trova occupato ad innaffiare il cervello di Passannante ogni qual volta la formalina che lo conserva nella teca scende di livello.
Finché un giorno – proprio «quel» giorno della visita del Presidente Ciampi col Guardasigilli Castelli – la sua vita cambia…e per merito di Giovanni Passannante. O meglio: del suo cervello. Beh… non esattamente… piuttosto… grazie al suo cervello… e soprattutto all’amorevole interesse di Lucia – splendida creatura – che impressionata dal veder così da vicino ciò che rimane di un uomo, colpevole di aver graffiato la chiappa al Re con un temperino dalla lama di quattro dita, dimentica lì appresso le carte del suo lavoro su Giovanni Passannante.
Siamo all’antivigilia di Natale. La mattina seguente la famiglia Savoia sarebbe andata a far visita a Giovanni Paolo II, preludio del loro prossimo rientro dall’esilio in Italia. Quella notte – che come «quel» giorno cambiò la vita al carabiniere lucano – Mariuccio non dormì. Lesse le «carte di Lucia» che raccontavano la vita del giovane anarchico, di sua madre e dei suoi fratelli che come lui furono rinchiusi in manicomio, umiliati, torturati fino alla morte. No! Per Giovanni anche dopo; costretto – il suo cervello – a restare sotto formalina per esser osservato, rimirato, soppesato quale pezzo unico della macabra galleria del museo di polizia. Con tanto di guardia, preposta ad innaffiarlo alla bisogna. Poteva continuare, Mariuccio, dopo aver conosciuto Passannante grazie alle «carte di Lucia», e dopo aver conosciuto Lucia grazie al «cervello di Passannante»?
Il «crescendo» del racconto lo affidiamo ai lettori. A noi basti riportare a chiare lettere il sito dell’autore – www.uldericopesce.com – e con l’autore (che per chi non lo sapesse ha lavorato come attore e aiuto regista con Luca Ronconi, Giorgio Albertazzi, Gabriele Lavia, Carmelo Bene e altri) farci promotori di un gesto di umana civiltà e cultura, esigendo che Giovanni Passannante abbia degna sepoltura al suo paese, il cui cartello stradale non riporta il suo antico nome – Salvia –, ma Savoia di Lucania, a dimostrazione di un affronto che ormai è giusto cancellare per sempre.
I Savoia non si preoccupino. Ad ucciderli ci ha già pensato la Storia.

Benjamin Atman

 

American Nightmare

A chi non è mai capitato di trascorrere parte del proprio tempo a tratteggiare tra loro i punti numerati di un gioco enigmistico la cui soluzione è – alla fine – svelata attraverso il contorno della figura precedentemente ipostatizzata? Ebbene, la lettura del libro di Sbancor (uno pseudonimo dietro il quale si cela un noto e stimato esperto di finanza internazionale, di cui solo pochi conoscono l’identità) American Nightmare (Incubo americano), Nuovi Mondi Media, Bologna 2003, pp. 176, € 12,00, è del tutto simile a questo gioco, tanto è vero che alla fine della lettura il “disegno” che compare è un incubo. Precisamente un incubo americano: American Nightmare.
Ma vi è di più. Nel redigere il proprio lavoro l’autore stesso si presta con impegno a unire – collegando tra loro aspetti e situazioni casuali – i contorni di uno scenario geopolitico internazionale che tra i suoi punti figura anche il numero “11”. Quell’undici settembre 2001 che se per alcuni ha segnato una data storica a partire dalla quale “niente sarà più come prima”, per Sbancor rappresenta – al contrario – l’evento storico da cui tutto sarà più di prima. O, per meglio dire, la conferma che quello che è successo prima dell’undici settembre 2001 non solo ha reso possibile e necessario l’attentato terroristico alle Twin Towers di Manhattan, ma ne ha determinato il suo prosieguo in Afganistan, in Iraq e prossimamente in Iran.
Certo: Sbancor non svela nessun retroscena che già non sia stato reso noto e divulgato attraverso Internet ed altri libri di questo tenore. Che l’undici settembre sia da considerarsi un colpo di Stato interno all’Amministrazione Bush, più che un attentato terroristico compiuto dall’organizzazione di bin Laden, altri lo hanno supposto; non ultimo Maurizio Blondet, inviato speciale per il “Giornale Nuovo” e attualmente per “Avvenire”, tanto da intitolare il suo ultimo libro “Colpo di Stato in USA”. Ugualmente la guerra in Afganistan, per la sua repentinità con la quale è stata preparata, ha immediatamente fatto ricordare gli interessi nel tracciare nuove pipe-line per far affluire il petrolio del Caspio, scavalcando la regione del Golfo senza per questo utilizzare gli oleodotti russi, al punto da considerare la lotta al governo talebano di Kabul un tassello del wargame a suo tempo immaginato da Samuel Huntington, Zbigniev Brzezinsky, e da quella vecchia volpe di Henry Kissinger. E che dire poi di bin Laden, agente segreto in forza alla CIA?
Allora perché “American Nightmare” fa la differenza rispetto all’innumerevole mole di informazioni, che è possibile reperire sulla Rete, su ciò che è realmente accaduto e sta realmente accadendo? Bene lo ha espresso Valerio Evangelisti nella prefazione al libro: «Sbancor è una straordinaria macchina della memoria o, se vogliamo usare un esempio più pittoresco, il guardiano di uno di quei pannelli su cui, negli uffici o in qualche scuola, vengono fissati gli appunti con puntine da disegno. Normalmente, dei più ingialliti tra quegli appunti ci si scorda. Sbancor invece li ha tutti presenti e, quando occorre, interviene ad illustrarcene una possibile coerenza.»
La coerenza, di cui parla Evangelisti, non è altro che la capacità di costruire uno scenario nel quale gli avvenimenti – tra loro sparsi – hanno una consequenzialità. Così la brutale repressione poliziesca avvenuta a Genova durante i giorni del convegno del G8, non è tanto frutto di inesperienza e impreparazione nel “tenere la piazza”, ma una strategia pianificata a tavolino tra gli agenti dell’antisommossa della L.A.P.S. (la Polizia di Los Angeles: I you remember Rodney King) e i “nostri” del Tuscania, sì proprio gli stessi carabinieri che in Somalia, in Bosnia, in Kosovo hanno dato prova di perizia e competenza collegando gli elettrodi ai genitali di presunti terroristi. Per non parlare della stretta correlazione tra interventi militari e ripresa dell’economia americana, così stretta da mettere in serio dubbio il fatto che la “Grande depressione” fu effettivamente risolta grazie al Welfare keynesiano, e non piuttosto dall’intervento americano nella Seconda guerra mondiale, in una coerente logica di Warfare che in seguito determinò – ad ogni crisi di sovrapproduzione – la guerra in Corea, nel Vietnam, in Afganistan ed ora (e per il momento) in Iraq. E in tutto questo il petrolio, la cui “variabile esplicativa” del suo prezzo non è certo il rapporto tra domanda e offerta, quanto piuttosto la Storia: quella degli imperi europei – prima – e quella dell’impero americano – poi –, da sempre proiettata al dominio ed al controllo dei giacimenti minerari e delle risorse energetiche.
Perché se la Storia sono gli uomini a farla, il più delle volte – come insegna Sbancor – essa diventa un incubo quando gli uomini, per farla, devono farsi ammazzare.

Benjamin Atman

 

La voce di dio parla in assenza

Come compendiare tre libri in un titolo che ne rispetti la dissonanza e la risonanza?
Perché i libri, rivelando l’originalità da cui irradiano, sono – ed è bene che in tal modo si mantengano e li si riconosca – sempre diversi tra loro e sempre aperti all’altra proposta.
La filigrana che li accomuna, nel caso a me presente, è la loro autorialità. Ne sono autrici due donne e un gruppo di donne della comunità filosofica ‘Diotima’.
Usciti a breve distanza l’uno dall’altro i libri lasciano circolare ricchezza da cui ho attinto l’elemento, intrinseco ed estrinseco al contempo, dell’autorialità: testi infatti dell’esperienza femminile a beneficio – gratuito – del mondo, piccolo e grande, della cultura e del sé.
C’è sempre una dose di emozione intorno all’attesa e alla sorte di questi doni scritti, che scrivono cose vere, che comunicano parti di verità senza obbligo di condivisione, lontani e vicini proprio come i doni gratuiti.
Dire elemento nel tessuto di queste opere è per non saper dire l’invisibile traccia che si lascia intravedere soltanto dalle apparenze.
Passione, raffinata accurata libera come la passione alla fonte dell’anima creativa, viene rimandata dalle tre scritture alla lettura. Passioni interdette, ma non proibite, nell’esplicitazione discorsiva agiscono, aprendo panorami simbolici traducibili a quella umana e precaria misura che tende a librarsi oltre il mondo già dato, pur facendone parte.
La voce di Dio parla in assenza mi sembra sufficientemente adatto ad articolare insieme filosofia della narrazione, politica della parola e teologia sorgiva che i tre libri contengono: ognuna inverata dall’amore per la verità e per le sue finzioni, secondo andature diverse e comuni tratti sotterranei.
Il Dio delle donne di Luisa Muraro (Mondadori, Febbraio 2003) testimonia il senso di una ricerca, sulla mistica in lingua materna, a partire da sé; Approfittare dell’assenza, saggio collettaneo di ‘Diotima’ (Liguori, Luglio 2002), inscrive l’agente invisibile a posizione politica e A più voci di Adriana Cavarero (Feltrinelli, Gennaio 2003) rilancia la mediazione del corpo sull’espressività vocale, sottaciuta e tacitata dalla storia del pensiero.
Tra i non facili passaggi che compongono il libro di Muraro si fa luce un sentire-pensare vicino ai luoghi della (mia) memoria, mai però coincidente nella storia delle esperienze. Si tratta di qualcosa, sentito-pensato, alla radice dell’essere e riguardante le costruzioni fatte per le mediazioni tra sé e l’altro da sé quando quelle, da leve necessarie per far presa sulla realtà, ostacolano il lasciar «semplicemente che altro possa avvenire sul filo dell’amore e della contingenza storica».
Da qui una storia che, della mistica in lingua materna, fa pensiero di libertà nella differenza sessuale. Scrive Muraro: «Ma a questa stregua, cioè senza apparati, senza legge, senza poteri costituiti, la cosa non durava, non poteva durare, è l’obiezione. Quante volte mi è capitato di riascoltarla, da quando ho scoperto la politica delle donne, che non si organizza, non ha rappresentanti, non mira al potere, agisce per contagio, si affida, non separa, sopporta l’impotenza, cura le relazioni. “Non può durare”. Suppongo che sia vero, ma c’è un altro modo di essere nella storia, che non ha bisogno di durare, un esserci come possibilità di essere che comincia».
Quale guadagno maggiore ricevere da un libro dove il discorso ragionante dell’autrice illumina un tratto della mia stessa esperienza? Quella dell’impresa sulla strada anarchica, nella differenza che ha per me: ossessionata e libera dall’invasiva ideologia che restringe la vita sulle etichette. Del resto il nome ‘anarchia’ è quanto di meno definente abbia offerto e possa offrire l’assodato linguaggio, falsamente neutro, al mio senso politico avvalorato, oggi, dal riconoscimento che l’essere io una donna non è più indifferente.
Quale superiore politica si riversa da un insegnamento che smuove lo sguardo, che dice essere ciascuna e ciascuno il seme che radica l’area pubblica delle relazioni?
Senza enfatizzarlo, il silenzio di chi si sottrae, si astiene e si congeda dai luoghi canonici del potere costituito non è soltanto letto come il risultato scontato di un’estromissione imposta o come un insuccesso delle aspirazioni. Esso regge anche una strategia di libertà che non può non sortire altri effetti, che non può non fare mondo.
Dio è una risposta o una domanda al mistero? Il Dio delle donne induce a esserLo, a dirLo anche nei limiti del silenzio; sollecita ma non forza, orienta senza obbligare, riconosce e non ha bisogno di dimostrare; non ha intenti edificatori né elogiativi. Fa spazio, lascia aperta la domanda, anche quella teologica, dove si possono diramare altre vie di scampo per la dicibilità della propria esperienza.
Con la sua scrittura piana e distesa, ma pensosamente accesa e appassionata, il testo rimanda l’immagine di una spiaggia, la cui desolata mancanza, patisce l’essere accolita del mare.
Sulla scena politica dischiusa dal libro di ‘Diotima’ Approfittare dell’assenza, la mancanza si profila condizione libera di tradurre amore nell’esperienza di vita. Al di qua di una testimonianza di fede, è la fiducia del sapere d’amore a esporre la parola sul riflesso del pensiero.
Come si può pensare l’esperienza ineffabile dell’amore sul palcoscenico della politica?
Si ‘può’ (e non importa tanto ‘come’) invita a dire, attraverso il testo e il contesto del libro, la politica delle donne i cui punti di avvistamento sulla tradizione – come il sottotitolo segnala – non sono ingombrati da progetti prefissati rispetto alla contestualità delle pratiche. I punti di avvistamento non prevedono astrazioni procedurali a discapito della contingenza viva del presente; riguardano, per loro parte, le effettive condizioni di esistenza, la sostanza delle relazioni umane piuttosto che le direttive etiche che ‘debbano’ durare nel tempo come valori assoluti.
«Ho fiducia che il tessuto di relazioni e di parola tra donne, anche tra donne di diverse età ed esperienze[…] porti a riconoscere il filo di continuità con antiche e meno antiche pratiche femminili che in autonomia hanno saputo creare civiltà di rapporti e nuovi sguardi sul mondo»- afferma Anna Maria Piussi nel suo scritto Sulla fiducia, appunto.
Approfittare dell’assenza significa, nell’insieme dei singoli contributi, la potenza simbolica del ‘disfare’. Annarosa Buttarelli scrive su un fare di Tabula rasa fuori dalla «tradizione testuale che si arrovella a riprecisare o distruggere i canoni con relative iperboli critiche e autocritiche[…] Una tabula rasa che scarta le forme distruttive segnalate dallo schema mitico e sostanzialmente patriarcale per cui il figlio deve uccidere il padre, deve far meglio del padre, per conquistare il proprio spazio».
La tabula rasa cui allude Buttarelli – quale attenta lettrice dell’opera di Carla Lonzi – viene rintracciata nelle pieghe dell’agire politico e nella storia delle donne. Essa rappresenta una scaturigine di lavoro interiore, alimentata dal ‘coraggio’ per cui una donna crea orizzonti di libertà decostruendo l’identità data, al suo essere già qualcosa o qualcuno ed essere, di fatto, in un movimento di trasformazione. La pratica d’amore e l’amore della pratica dispiegano un universo di tutt’altro mondo da quello dove la ‘tabula rasa’ coincide con lo schema logico del nichilismo.
La vocazione politica del corpo Adriana Cavarero l’ha già esposta con grande maestria e curata con forza d’amore nei suoi lavori filosofici. Basti ricordare fra gli altri il libro Corpo in figure.
La ricerca si è fatta ancor più sapiente e chiara nel suo recente saggio di filosofia dell’espressione vocale intitolato A più voci.
«Il primato della voce rispetto alla parola, o se si vuole, la voce inarticolata sta all’inizio di molte culture che riconducono, in vario modo, alla sfera acustica la presenza del divino» – si legge nelle prime pagine. Spaziando – con colto e raffinato linguaggio – dai racconti di Calvino ai dialoghi di Platone, dai canti aedici dell’epica greca alla filosofia di Derrida, dalla lettura biblica di Lévinas alle ‘performance’ caraibiche di Edward Kamau Brathwaite, Cavarero rintraccia, nel suono peculiare della voce, la filigrana politica dell’unicità nella moltitudine, che fa di ogni essere umano un essere irripetibile.
Estromessa dal logos filosofico, la voce rimanda effetti non indifferenti sull’essere, stare e fare mondo, come l’autrice sottolinea, interloquendo nel suo ‘excursus’ sia con la filosofia politica di Arendt, sia con le linee di contributo psicanalitico alle teorie del linguaggio. Da quella che la linguista Hélène Cixous chiama la lingualatte e da quanto la semiologa Julia Kristeva, rivisitando la chora materna, considera la rivoluzione del linguaggio poetico affiorano le linee di un ordine simbolico, nel quale il suono della voce fa sapere più di quel che il semantico tenti di codificare controllando il significato.
Per una politica delle voci – la terza parte che compone lo studio di Cavarero – viene dischiuso, oltre la risonanza della parola che fa Eco al già detto, un comunicarsi delle voci in base al quale «secondo Arendt la parola non diventa politica per via delle cose della comunità che è capace di significare, bensì per l’autorivelazione di chi, qualsiasi siano i contenuti specifici del suo discorso, parlando esprime e comunica se stesso, la sua connaturata unicità». In questa dimensione Cavarero prosegue: «La valenza politica del significare si sposta quindi dalla parola – e dal linguaggio come sistema della significazione – ai parlanti. Questi non sono politici per quel che dicono, ma perché lo dicono ad altri che condividono uno spazio interattivo di reciproca esposizione». In altri termini la politica, di cui Cavarero mostra il sottile senso profondo, ha luogo ma non è in nessun luogo. Essa si intesse su una matrice relazionale e sul desiderio di esistenza simbolica. A cui i tre libri in questione, frutti del ‘pensiero della differenza sessuale, sanno dar voce e mondo.
Nessuno di essi ha la pretesa di dare risposta a domanda che impone soluzioni a lei implicite, a conferma del ‘già dato’. E neppure descrive scenari utopici a futura realizzazione, a conferma del ‘così sarà’. Ogni testo però sporge verso mondi possibili, verso cose di altro mondo che è già qui e ora, necessariamente invisibile.
Se il libro di Muraro rivela la domanda – su e/o di Dio, dalla quale si può anche sorvolare - alla presenza di altre donne, quello di Cavarero pone la necessità di un’altra domanda indagatrice, espulsa dal tessuto del discorso dominante, che dia conto nei termini della peculiare corporeità.
Infine il volume collettaneo di ‘Diotima’ gioca sui confini di un’affascinante tautologia. Proietta il luogo della risposta verso l’area della domanda.
I tre libri offrono altrettante perle di preziosità, risorte dal mare insondabile del pensiero e della parola ed attestano, con le loro differenti andature autoriali, che l’amore dirige una bizzarra amministrazione: quel che spende guadagna.

Monica Cerutti Giorgi

 

Un giallo come si deve

Potrei suggerire al lettore di leggere il capitolo finale di questo libro (Marco Sommariva, Vorompatra, Sicilia Punto L, pp. 176, € 8,00) e scoprire d’un tratto tutte le risposte che invano cercherà di scorgere nelle centosettanta pagine colme di insidie e diversivi che lo precedono. Perché questo è un giallo come si deve, costruito con abilità geometrica, disseminato di tasselli senza collocazione, che solo in quel capitolo ritrovano un loro ordine. Ma questo è un film visto per la prima volta, e la sorpresa fa parte del gioco cui gli amanti della lettura, i cultori della letteratura, sono invitati a partecipare, consumando il romanzo per intero, godendone tutte le misture, di modo che l’arrivo all’ultima pagina abbia il sapore vero e genuino dell’ultimo sorso di una bevanda fresca e desiderata sotto il cocente sole di un mezzogiorno afoso di un luglio qualsiasi.
Il mal di vivere disseminato sin dalle prime righe, le caricature dipinte con pennellate quasi distratte ma sicure, il susseguirsi di scene e sequenze in continuo frenetico movimento, la fotografia di paesaggi mutanti, di città e di ambienti esterni ed interni rappresentati nel loro squallore o nella loro imbarazzante normalità, fanno da sfondo all’enigmatico vorompatra che affiora finalmente a un certo punto della narrazione, dopo che già dal titolo si è insinuato con tutta la sua penetrante curiosità nella testa di chi legge.
Vorompatra è un giallo più un mistero, è un romanzo esistenziale e un saggio di sociologia della resistenza umana nell’epoca del neoliberismo.
Qui Sommariva che già avevamo avuto occasione di conoscere con Il cristallo di quarzo, batte ogni record personale e riesce a riproporci i suoi quadri grigi e i suoi tristi personaggi, ancora più rafforzati nel profondo del loro grigiore e nella loro tristezza, pur in presenza di giornate estive che avrebbero dovuto essere solari e abbagliare di luce le pagine del libro. La forza descrittiva è così marcata da mandare all’aria gli schemi, da condizionare ogni logica e trascinarci tutti nel vortice della narrazione.

Pippo Gurrieri