rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


società

Una società nella società
di Andrea Papi

 

Bisogna tentare di trasformare alle radici, e in senso libertario, il contesto sociale pur continuando ad esserne parte. Trasformarlo dall’interno, ma da esterni ai suoi rituali politici.

Mi ha colpito udire Camus insistere sulla necessità di creare «una società nella società». Uomini legati da una solidarietà materiale spontanea conducono vita semplice e modesta (ma senza regole ascetiche o sospetti di «falansterismo») e si limitano, per lo meno all’inizio, a manifestare integralmente la loro opinione sui problemi della polis senza concedere nulla all’opportunismo politico, allo spirito di parte, o alla prudenza pratica in conformità ad un limitato numero di principi chiaramente definiti, i quali, tanto per iniziare, avrebbero probabilmente una forma «negativa». (Da una lettera di Nicola Chiaromonte ad Andrea Caffi, datata New York 10 aprile 1946, pubblicata in Quaderni dell’altra tradizione, ed: «Una città», Forlì, maggio 2002)

Un’idea tanto intrigante quanto affascinante, che da troppo tempo mi trotterella per il cervello, senza però esser mai riuscito a farla assurgere alla dignità di un’idea cui dedicare abbondanti elucubrazioni. Volteggiava sul mio cranio solleticandomi e piacevolizzandomi come un insetto, senza infastidirmi; anzi! Semplicemente gironzolava su di me, senza mai una vera serietà di ricezione. Quando ho appreso che Camus, a differenza di me, l’aveva invece pienamente assunta fino a farne un’alta proposta teorica da realizzare in pratica, mi son sentito graziato come da un’attesa illuminazione. Ne ho finalmente compreso la bellezza e la serietà, come fino allora non avevo osato. L’autorevolezza di cui ai miei occhi ha sempre goduto Camus in quest’occasione mi è servita da stimolo per sbloccarmi. Scherzi del nostro profondo, col quale in qualsiasi società continueremo ad avere un rapporto difficilmente gestibile.
Ciò che me la rende affascinante è che non si pone sul piano del comunitarismo alternativo classico il quale, seppure indubitabilmente continui a conservare una carica di coerenza sovversiva non sottovalutabile, purtroppo troppe volte ha rischiato e continua a rischiare di essere visitato superficialmente per troppi usi e consumi. Concetto purtroppo superinflazionato da una miriade di adesioni spurie, la comune frequentemente è stata ed è buona per troppi abusi.

Superare il presente

Ispirandosi all’esperienza rivoluzionaria dei comunardi parigini del 1871, tutte le comuni che sono state fondate e presumibilmente quelle che lo saranno in futuro si concepiscono come il luogo altro, il tentativo di realizzare l’utopia che vorrebbe scavalcare e superare il presente. La comune si pone sempre al di fuori, conseguentemente contro, la società che desidera combattere. Si concepisce come tentativo di rappresentare un esempio, se non addirittura l’esempio, delle forme di società alternativa nuova, al di fuori e contro quella vecchia. Chi sposa la logica comunarda, al di là di quello che dichiara e delle sue consapevoli intenzioni, a chi ne è fuori pone inevitabilmente un aut-aut che più o meno suona così: o scegli la comune, luogo di purezza societaria capace di realizzare al suo interno l’eguaglianza, la giustizia, la fratellanza e la solidarietà tra i suoi membri, oppure ti devi rassegnare allo schifo di società corrotta, iniqua, ingiusta e sfruttatrice (chi più ne ha più ne metta) nella quale le lobby di potere imperanti ci costringono a vivere. Per lo sguardo esterno rischia di non esserci altra possibilità di emancipazione concreta, così difficile e complicata da scegliere però che non può che rimanere un sogno, una via praticabile solo per gli asceti della rivoluzione, solo per coloro, ben forniti dei cosiddetti, che non temono nulla ed hanno la forza di sfidare il destino di questo sporco mondo che sta andando inevitabilmente in malora.
Quella sostenuta da Camus invece, non è affatto equiparabile ad una proposta che contenga l’obbiettivo di fondare una nuova comune che, mi sento di aggiungere al di là delle sue parole, inevitabilmente finirebbe per autoalienarsi, come mi sembra sia sistematicamente successo. La comune è sempre autopensata come luogo antisocietà vigente, al di là delle sue intenzioni fondative completamente immersa nel contesto del nemico da cui non riesce a non dipendere. Per questo in breve quasi sempre si trasforma in un ghetto. Per questo immancabilmente poi non trova né la forza né il modo di ampliarsi, com’era negli intenti originari, di dilatarsi come propensione culturale ed ideale all’insieme della società esterna, cui rivolge il proprio esempio ed il proprio messaggio di vita collettiva. Scegliere la comune comporta di per sé scegliere un luogo alternativo in cui, a torto o a ragione, alla fine si ritrovano solo quelli che lo desiderano, senza riuscire ad elevarsi a momento diffuso capace di estendersi nel sociale circostante, per infonderlo culturalmente e per portarlo progressivamente al superamento del presente. Al di là di ogni cosa, la comune rimane il luogo separato della comune e tutto ciò che avviene al suo interno rimane limitato al suo interno.
Nella proposta di Camus, invece, non ci si pone al di fuori, ma si rimane dentro la società. «Una società nella società», appunto. È la riscoperta della comunitarietà, quale senso della convivenza sociale, dove l’essere società acquista una valenza ecologica, dove cioè la propria appartenenza è fortemente sentita da ogni individuo come prioritario momento di costante integrazione, come parte componente dell’insieme societario cui ha senso partecipare attivamente, con la propria volontà e la propria intelligenza. La comunità estesa, non la comune separata e tendenzialmente autarchica. Una società altra che nasce e si forma all’interno dell’assetto sociale in cui ci troviamo ora e non se ne distacca, ma vi rimane dentro pur rifiutandone i presupposti etico-politici.

Elemento modificatore

Si potrebbe obiettare che anche la comune al suo interno tende a creare una qualità di rapporti interrelazionali di questo tipo e che, probabilmente, si è ampiamente realizzata in moltissime esperienze comunarde passate e presenti. Concordo e, per quello che ne so, è effettivamente così. Ma quest’argomento non riesce a rappresentare un’obiezione a ciò che sto sostenendo, perché il problema è un altro. Come affermavo più sopra, infatti, ciò che avviene all’interno della comune rimane limitato al suo interno e non riesce a rappresentare un elemento di modificazione sociale in grado di diffondersi al resto dell’insieme societario. Nella società nella società, invece, se trova piena e congruente realizzazione, non abbiamo una componente separata dal resto che forzatamente agisce per conto suo, bensì un rafforzamento libertario dei legami interrelazionali che sorge, prende forma e si rafforza dentro il contesto politico-sociale attuale e continua ad esserne componente pur non sentendosene politicamente ed eticamente parte. Anzi, sorge proprio per modificarlo, ma non come ariete dall’esterno, bensì come elemento modificatore, portatore e propagatore dall’interno di nuovi valori e di un nuovo modo rivoluzionario di essere società.
Presumo che l’ipotesi camusiana di una società nella società si dovrebbe realizzare nel prestare attenzione soprattutto alla qualità e al modo delle relazioni e delle regole, non alla struttura politica complessiva. Dalle sue parole mi sembra che si evinca quasi il formarsi di una specie di specifico corpo sociale con caratteristiche proprie, distinte dal resto del corpo sociale in cui siamo immersi, anche se in realtà si sviluppa al suo interno e continua ad esserne parte. La nuova forma politica complessiva, di cui è potenzialmente portatrice, assumerà forma e senso, se avverrà, come conseguenza della qualità ineludibile del livello interrelazionale che sarà capace di esprimere, irradiandosi irresistibilmente ed esercitando un seducente magnetismo attrattivo verso il resto del corpo sociale. La comunità della società nella società rimane a tutti gli effetti dentro l’insieme generale della società che le è preesistente, vi continua ad operare e ad esserne pienamente parte, anche se dichiaratamente in forma alternativa e distinta. È un’alternativa che cresce da dentro, che, soprattutto, tende ad allargarsi e ad occupare il contesto generale con la sua energia, la sua potenza magnetica, la sua pregnanza etica.
Nell’idea di Camus, almeno mi sembra, ha importanza soprattutto l’atteggiamento etico, il rigore intellettuale, lo scambio d’idee per un elevamento spirituale condiviso, vissuto comunitariamente. Forse nell’illusione che la comunitarietà dello spirito, unita ad una solidarietà materiale spontanea e ad una vita semplice e modesta, come egli stesso specifica convinto che la forza insita di cui è portatrice sia irresistibile, possa portare di per sé ad un’alternativa anche sociale e politica. Dalle sue parole traspare anche però che per lui questo livello non è necessario. Mi viene in mente che, forse, per Camus, pur anch’egli dichiaratamente libertario, quello politico complessivo sia un problema molto meno interessante ed impellente di quello che invece è per me. La sua attenzione e, quindi, la sua preoccupazione, è soprattutto rivolta alla qualità etica ed all’elevazione spirituale che possano scaturire dal modo in cui prendono forma le relazioni, gli scambi di qualsiasi tipo, la voglia di esserci e di condividere l’esistente comunitariamente.

Meravigliosa intuizione

Prendendo spunto da questa meravigliosa intuizione, personalmente la vivo e me la immagino in modo differente, pur concordando in pieno sul livello qualitativo interno che dovrebbe essere in grado di suscitare. Indispensabile senza dubbio, come sottolinea lo stesso Camus, manifestare apertamente la propria opinione sui problemi della polis... Indispensabile perché evidenzia la qualità della partecipazione individuale alla vita sociale, all’interno però di un contesto che, oltre a favorirla, permetta anche di valorizzarla pienamente, che trovi cioè senso e collocazione quale prezioso contributo alla condivisione della vita collettiva. La qual cosa oggi è continuamente e bellamente bandita. Allorché si verificasse concretamente, ne risulterebbe un costante e sereno alto confronto attorno alle problematiche ed ai problemi della politica e della società, cui tutti i componenti avrebbero la possibilità e la voglia di parteciparvi paritariamente. Ma soprattutto penso alla definizione concordata e sperimentale, quindi permanentemente sottoposta a verifiche ed aggiornamenti, di regole comportamentali e di convivenza, le quali non potranno che essere diverse da quelle che siamo costretti a subire quotidianamente, dal momento che siamo immersi in società fondate sul ed innervate dal principio del dominio.
Un organizzarsi progressivo, da parte di quegli uomini e di quelle donne legati/e da una solidarietà materiale spontanea, che permetterebbe loro di vivere una propria esperienza comunitaria dentro la società preesistente, al punto che il patto e le regole che stabilirebbero per sé diventerebbero il riferimento fondamentale della convivenza collettiva. Non si riconoscerebbero più nelle leggi dello Stato, considerato esterno, cui parteciperebbero progressivamente sempre meno, lo stretto necessario cioè per non offrire occasioni inutili e controproducenti di essere repressi. Continuando ad essere formalmente parte della società istituzionalmente costituita, appare evidente che non potrebbero sottrarvisi del tutto, almeno fino a quando, e se, non saranno riusciti a dilatarsi al resto del contesto sociale, fino al punto rilevante che permetterebbe di realizzare la rottura definitiva con lo Stato, spinti dal bisogno rivoluzionario, che nel tempo prenderebbe piede spontaneamente, di affossarne la pregnanza e la possibilità dell’esercizio statuale del potere politico.
Si tratterebbe di fondare dall’interno del mondo consolidato tuttora costituito una situazione di autogestione, diffusa e tendenzialmente diffondentesi al resto della società, alternativa alla vigente e imperante eterogestione. Autogestione perché si fonderebbe su presupposti di vera autonomia da qualsiasi tipo di governo centralizzato. Le decisioni riguardanti i componenti comunitari, tutti aderenti volontariamente, vorrebbero essere e verrebbero prese concordemente da tutti sulla base di una concreta paritarietà e solidarietà. All’interno non si definirebbero né imposterebbero strutture in qualche modo riconducibili ad un ordine gerarchico, secondo cui una stretta minoranza di individui è considerata più importante di ogni altro individuo e viene perciò fornita del potere di decidere per tutti gli altri, dandole la prerogativa, sostenuta con la forza e la prepotenza delle armi, d’imporre le proprie scelte. Le procedure di applicazione e realizzazione non sarebbero filtrate da elefantiache ed autoritarie strutture burocratiche, che hanno sempre la caratteristica di essere anonime, ingiuste, impositive e di scaricare le responsabilità individuali delle continue inefficienze che generano.

Corpo sociale sorgente ed insorgente

Una condizione fondamentale per la riuscita di questo nuovo corpo sociale, sorgente ed insorgente al tempo stesso, sarebbe che tutti, o perlomeno la stragrande maggioranza di coloro che ne fanno spontaneamente parte, si sentano partecipi a tutti gli effetti della gestione collettiva condotta concordemente attraverso i metodi dell’autogoverno. A tal proposito, mi sento di poter affermare con sicurezza che il livello di partecipazione diffusa ed estesa dovrebbe essere assicurato, dal momento che l’esserne parte non è determinato da codici coattivi fondati sui presupposti degli obblighi e dei divieti, ma da una limpida presa di coscienza individuale.
Una società nella società. È un tema ed un sogno affascinante, perché equivale a tentare di trasformare alle radici in senso del tutto libertario, più che di riformare, il contesto sociale di appartenenza, pur continuando ad esserne parte. Trasformarlo dall’interno, ma da esterni ai suoi rituali politici, alle sue finzioni di rappresentanza, alle sue gerarchizzazioni democratiche, alle sue mafie protette di clientele politiche. Rifiutando il più possibile le sue regole, snobbando la sua decisionalità di dominio, attaccando ed intaccando la sua endemica e cronica ipocrisia. Con le armi dell’onestà intellettuale, della coerenza etica, della determinazione politica, dell’umiltà della ricerca e della pratica costante ed inalienabile di un inarrestabile libertarismo. Dove libertà non vuol dire libertà dei mercati capitalisti di sfruttare ed opprimere, bensì libero confronto spregiudicato e creativo, coraggio dell’intelligenza e della voglia di verità qualunque essa sia, libero sfogo alla poesia delle emozioni, del sentire e della gioia di vivere. Libertà insomma, nel suo significato più profondo, più puro, più libero da fraintendimenti e strumentalizzazioni.

Andrea Papi