rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


italietta

Il fascismo insinuante
di Massimo Ortalli

 

Il disegno del potere, complesso e raffinato, poggia anche sulla cosciente strumentalizzazione delle piccole meschinità che affliggono gran parte dei nostri connazionali.

Usciva, nell’ormai lontano 1966, un corposo volume intitolato Perché andammo in Spagna. Scritti di militanti antifascisti 1936-1939, edito dall’Anppia (l’associazione che raccoglie i perseguitati politici del ventennio) e curato da Adriano Dal Pont e Lino Zocchi, due fra gli storici «ufficiali» del resistenzialismo di osservanza ortodossa. In quel libro erano raccolte le testimonianze di molti dei maggiori esponenti della sinistra italiana accorsi in Spagna per combattere il franchismo: da Togliatti a Nenni, da Rosselli a Garosci, da Longo a Vidali, da Saragat a Valiani. E così via, un tot di comunisti, un tot meno qualcosa di giellisti, una discreta presenza di socialisti e socialdemocratici (ma senza esagerare in quei primi anni di centrosinistra), un qualche «senza partito» che non guasta mai, e il gioco era fatto. A stare con gli estensori dell’antologia, comunque, di anarchici in Spagna non ce ne dovevano essere, ma se proprio ce ne fossero stati, o erano là come turisti oppure i vari Berneri, Tommasini, Marzocchi, Cieri, e le altre centinaia di nostri compagni accorsi per primi a fianco dei rivoluzionari spagnoli, non lasciarono scritto nulla di rimarchevole, motivando così la decisione dei solerti Dal Pont e Zocchi di non prenderli in considerazione.
In questi tempi si parla molto, e con ottime ragioni (l’esempio riportato, antico ma emblematico, è una di queste), della esigenza di liberare la ricerca storica dalle scorie dell’ideologia; quindi non può che essere salutato con favore lo sviluppo di una storiografia capace di indagare scientificamente le cause e le dinamiche degli avvenimenti senza essere debitrice, come troppo spesso è successo, di tesi precostituite. Questo, ovviamente, non significa negare agli storici il diritto di «appartenenza», anzi, proprio questa appartenenza può e deve trasformarsi in ulteriore stimolo per risultati obiettivi. Per rimanere nel campo degli esempi, voglio ricordare le fatiche dei due storici anarchici Pier Carlo Masini e Gino Cerrito i quali, convinti della necessità di correggere tanto la vulgata marxista quanto quella liberale, che con sospetta sintonia negavano preconcettualmente la presenza dell’anarchismo anche là dove l’anarchismo era stato fra i protagonisti, iniziarono un’operazione che oggi si chiamerebbe «revisionista», e che ha permesso, fonti e documenti alla mano, la corretta ricostruzione del ruolo che effettivamente il movimento anarchico ebbe. Fonti e documenti alla mano, dicevo, ed è questo che contraddistinse il loro lavoro.

Ripetizione speculare

Oggi, invece, essendo cambiati i rapporti di forza nella società e quindi anche nelle accademie, ci troviamo di fronte a un «nuovo» ceto intellettuale, espresso dalla destra, intenzionato a ripetere, in maniera speculare anche se di segno opposto, le identiche sbavature di cui fu colpevole quella che una volta era l’egemone intellighenzia comunista. La quale, come in parte ho illustrato, compilò per oltre quarant’anni una storia dell’Italia contemporanea al centro della quale si ponevano, con monotona insistenza, il partito comunista e i suoi illuminati dirigenti. Operazione, tra l’altro, tanto più gratuita e strumentale in quanto l’importante ruolo del comunismo nazionale e internazionale nella recente storia d’Italia non aveva neppure bisogno di essere ingigantito dai megafoni dei suoi corifei. Ma tant’è.
Oggi, dicevo, in nome di una quanto mai sospetta ed equivoca obiettività della ricerca, si è data mano a una riscrittura giustificazionista, se non addirittura «negazionista», della storia del fascismo, e questa operazione vede massicciamente impegnati individui di varia provenienza, pronti, pur di rifarsi dei passati ostracismi accademici, ad assecondare i desideri dei nuovi padroni nascondendo od esaltando la natura intrinseca di quel regime. Si riciclano così, ribaltandoli, i medesimi criteri di valutazione imputati al «nemico», e tutta la storia dei conflitti sociali e delle questioni internazionali che hanno segnato il secolo scorso viene letta, con desolante piattezza, solamente in chiave anticomunista, esaltando di conseguenza l’innegabile ruolo di avversario del comunismo che ebbe il regime fascista. Lo stesso stereotipo, quindi, usato in precedenza, allorché le innumerevoli deviazioni dall’ideale socialista e dalla «retta via» dei partiti della sinistra trovavano l’immancabile scusante delle incombenze della lotta al fascismo. Sia quel che sia, pur tralasciando, per carità di patria, le colpe del passato, anche se queste potrebbero motivare le colpe del presente, diventa comunque inaccettabile questa volontà di offrire la falsa immagine di un regime che, avrebbe saputo conservare, anche tra innegabili momenti di duro autoritarismo (del resto nessuno è perfetto!), un fondo di umanità bonaria e paterna. E, a esemplare testimonianza di questo trend, stanno le ricorrenti stupidaggini con le quali Berlusconi traduce in vulgata, da par suo, gli articolati arzigogoli mentali degli intellettuali iscritti sul suo libro paga.

L’arroganza dei repressi

Del resto questa operazione, che alcuni pretenderebbero di definire culturale, non si propone tanto di convincere delle sue tesi coloro che per anni le hanno considerate come le pericolose paturnie dei nostalgici di una storia criminale, quanto, piuttosto, e con ben altra determinazione, di confermare, nelle sue opinioni, quel piccolo popolo che ha sempre creduto, ma solo nel chiuso del suo cuore, che un po’ di fascismo, in fin dei conti sarebbe anche sopportabile. Un vero e proprio invito all’outing, dunque, la liberatoria offerta, per chi è stato «costretto» per anni a rimuginare nell’ombra e a celare, più per vergogna che per viltà, il suo inconscio attaccamento al fascismo, di uscire allo scoperto e acquistare una nuova consapevolezza priva dell’imbarazzo dato dal vivere nella repubblica nata dalla Resistenza. Ecco riemergere il borghese piccolo piccolo che negli anni sessanta leggeva di nascosto «Il Borghese» e che protestava, ma fra le mura domestiche, perché i baristi del Cantagallo si rifiutavano di fare il caffè all’onorevole Almirante, eccolo, armato di nuovo coraggio e dell’arroganza dei repressi, pronto a rivendicare il suo fascismo latente e a inneggiare, ancora una volta, all’Uomo forte che gli insegna, giorno per giorno, come pensare e come comportarsi.
Ed è davvero copiosa la pesca di questa strategia revisionista nel mare magnum del qualunquismo nostalgico, là dove vegeta chi, dopo più di cinquant’anni di democrazia e di libertà formali infinitamente maggiori delle poche che concedeva il fascismo, ancora esprime un irrazionale, ma insopprimibile bisogno di autorità, di ordine e di «treni che arrivano in orario». Queste sono le certezze che vuole, e reclama a gran voce, l’eterno reazionario, smarritosi di fronte al «permissivismo» della società aperta e desideroso della spavalda gaglioffaggine del regime forte, e queste sono le certezze che gli offrono quei signori che governano il paese. La rivalutazione del fascismo e la riscrittura della storia d’Italia non preludono, come da più parti si denuncia con equivoca faciloneria, al ritorno degli squadristi e dei loro funerei gagliardetti, quanto, ben più pericolosamente, alla progressiva chiusura di tutti quegli spazi di libertà che siamo riusciti faticosamente a conquistare. Il disegno del potere, portato avanti anche da questi nuovi «intellettuali» organici, è più complesso e raffinato e si propone di creare forme di controllo sempre più coercitive, che poggiano non solo sui soliti strumenti repressivi, ma anche, e con buona sostanza, sulla cosciente strumentalizzazione delle piccole meschinità che affliggono così gran parte dei nostri connazionali. Se abbiamo chiaro questo stato di cose, magari potremmo mettere anche il nostro granello di sabbia nell’ingranaggio.

Massimo Ortalli