rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


fascismo

Al Confino della realtà
di Patrizio Biagi

 

La sparata sulla dittatura «buona» di Mussolini fatta da Berlusconi non merita nessuna risposta. Giova però ricordare che il fascismo gronda sangue da tutte le parti e che il confino fu tutto tranne che un periodo di villeggiatura.

Il sig. Berlusconi che, oltre ad essere come il dio dei cristiani uno e trino (presidente di Mediaset, del Milan e del Consiglio nell’ordine), purtroppo ci rappresenta agli occhi del mondo intero, se n’è uscito con un’altra delle sue tradizionali boutade. Secondo il di lui pensiero la dittatura di Saddam sarebbe stata peggiore di quella di Mussolini perché quest’ultimo non avrebbe ucciso nessuno, anzi i suoi oppositori lui li mandava in vacanza al mare.
Sapevamo da molto tempo che lui e la cultura sono due cose incompatibili, e che la sua non va più in là della semplice conoscenza di alcune operazioni matematiche. La moltiplicazione (dei propri averi), l’addizione (di capitali a capitali), la sottrazione (ai meno abbienti) e la divisione (del bottino con i suoi compari). E quindi che non conosca la storia del proprio Paese non ci scombussola più di tanto. O sarebbe forse meglio dire che un po’ la conosce e quel che dice ha più un significato di nostalgia per «un bel tempo che fu»!
Tecnicamente penso abbia ragione, i delitti e le nefandezze di cui si è macchiato il fascismo, in effetti, non sono stati commessi da Mussolini bensì dai suoi sgherri prima e dalla macchina statale fascistizzata poi, lui si è solo limitato a emanare ordini. Per cui il nano (inteso qui non tanto per la sua statura fisica bensì per quella morale) di Arcore ha detto una cosa abbastanza vera.
Probabilmente il malvagio Saddam usava strangolare, dopo averli personalmente torturati, i propri oppositori altro che mandarli al mare! A volte questi satrapi orientali hanno delle strane perversioni.
Per ritornare invece ai morti che Mussolini
non ha fatto si potrebbe, lasciando a parte i morti negli scontri che contrapposero gli antifascisti ai fascisti, citare una lista abbastanza lunga di persone che non sarebbero morte a causa della dittatura «buona» di Mussolini.

Linciaggi, sequestri e omicidi

Cominciamo con il ricordare Anteo Zamboni, di famiglia anarchica e presunto attentatore del duce, massacrato in piazza dalla canaglia fascista. Ricordiamo la morte di don Minzoni, di Piero Gobetti, di Giovanni Amendola e di Pietro Ferrero (anarchico e segretario della FIOM di Torino), solo per citarne alcuni.
Ricordiamo il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti. Il rapimento fu eseguito dalla
Ceka, una specie di polizia segreta (che aveva mutuato il proprio nome da quella sovietica!), capeggiata dal delinquente comune Dumini.
Ricordiamo i fucilati su sentenza del tribunale speciale, due nomi per tutti: gli anarchici Michele Schirru e Angelo Sbardellotto. Gente che nella maggior parte dei casi aveva solo avuto l’
intenzione di attentare alla vita del tiranno.
Ricordiamo i fratelli Nello e Carlo Rosselli rapiti e uccisi dai
cagoulards francesi su istruzione del regime fascista e la morte di Antonio Gramsci nelle carceri italiane.
Ricordiamo la guerra d’Abissinia in cui venne lanciata sui soldati abissini, male armati e male equipaggiati, una quantità enorme di iprite (gas vescicante messo al bando dalla Società delle Nazioni).
Ricordiamo l’intervento nella guerra civile spagnola a fianco del futuro dittatore e fucilatore (con buona pace del sig. Sergio Romano) Francisco Franco.
Ricordiamo le leggi razziali del 1938 che emarginarono e resero la vita difficile all’intera comunità ebraica. E ricordiamo l’entrata, di un’Italia male armata, nella Seconda Guerra Mondiale. Tutti avvenimenti che colpirono duramente le popolazioni civili e non solo gli oppositori al regime.
Quanto poi alle vacanze fatte fare agli oppositori politici augurerei al lillipuziano di passare un periodo vacanziero in una colonia del tipo di quelle che venivano usate per il confino di polizia, invece di spassarsela nella sua villa di Porto Cervo.

Mordere o sputare?

Per finire mi torna alla mente un altro presidente, Pertini, un Gulliver al cospetto del lillipuziano arcorese. Il ricordo non va tanto a quando fu presidente della Repubblica ma al 1969 quando era, se non erro, presidente della Camera. A seguito della strage di piazza Fontana egli venne a Milano e quando il questore fascista Marcello Guida, che era stato direttore del confino di Ventotene (cioè di quel confino in cui Pertini era stato «villeggiante»), gli si fece incontro per stringergli la mano egli chiese se dovesse mordergliela o sputarci sopra. Altre paste d’uomini e altre epoche!
Per concludere non è tanto per rispondere alle farneticazioni fascistoidi del lillipuziano, ma per ricordare e ricordarci di ciò che è stato il fascismo, che pubblichiamo di seguito un articolo di Alfonso Failla (che «villeggiò» per ben tredici anni), originariamente apparso su «Almanacco Socialista» del 1962, e ripreso nel libro curato da Paolo Finzi,
Insuscettibile di ravvedimento, La Fiaccola, Catania, 1993. In questo articolo Failla racconta di quanto fosse tranquilla e riposante la vita dei «villeggianti».

Patrizio Biagi

 

“Ricordi dal confino”
di Alfonso Failla

Nel 1937 la guerra di Spagna aveva moltiplicato il numero degli antifascisti attivi. L’isola di Tremiti, che allora ospitava ancora una colonia di confinati comuni, veniva riaperta ai politici. Dall’isola di Ponza, in Luglio, un gruppo di confinati sospettati di mantenere relazioni clandestine in Italia e all’estero tramite cittadini ponzesi, furono trasferiti a Tremiti. L’isola adriatica era piena di ricordi cari, specie agli anarchici. Tra gli abitanti era vivo l’eroico comportamento del compagno Argante Salucci di Santa Croce sull’Arno che nel 1898 era stato assassinato dalle guardie carcerarie, allora adibite alla sorveglianza dei coatti politici, per essersi ribellato alle loro imposizioni. Una vecchietta isolana di origine umbra, la «Regina», volle regalarci alcune nostre vecchie stampe, come La conquista del pane di Kropotkin, che lei aveva avuto dai nostri compagni che erano stati al domicilio coatto nel 1894 e nel ’98 e dei quali serbava, insieme ai vecchi isolani, vivo e rispettoso ricordo. A Tremiti erano arrivati ottimi e combattivi compagni che, come Stefano Vatteroni, compagno di processo di Gino Lucetti e Bernardo Melacci di Foiana della Chiana, erano stati da poco dimessi dal carcere dopo avere scontato lunghi anni ed inviati direttamente al confino invece che in libertà come era già accaduto a Paolo Schicchi e Filippo Gramignano. Grande fu il nostro sdegno quando dopo alcuni giorni dal nostro arrivo leggemmo, affissa alle porte dei cameroni, una ordinanza, che imponeva a tutti i confinati l’obbligo del saluto romano «durante gli appelli, quando si entrava negli uffici e tutte le volte che si incontravano persone rivestite di autorità». Non era la prima volta che in carcere e al confino avevamo dovuto affrontare simile oltraggiosa pretesa degli aguzzini fascisti, in camicia nera o no. Nell’isola di Lampedusa il compagno Rossi di Roma si era persino buscato una pugnalata. Tutte le volte, però, la resistenza decisa dei confinati e dei carcerati politici aveva vinto.
Credeva davvero il signor Fusco, commissario di polizia e direttore della colonia di Tremiti, di riuscire a piegare i veterani delle carceri e delle isole? Erano ordini venuti direttamente da Mussolini per avviare il sistema di vita al confino sul modello dei campi di concentramento tedeschi? Oppure, come si diceva nell’isola, il direttore succube dei capricci della moglie e della figlia, voleva guadagnare prestigio pubblico e privato emettendo «grida» di manzoniana memoria?

Alfonso Failla, visitato dalla madre, nel villaggio vacanze di Ventotene (1942)

Il “fosso”

Era fresco l’episodio di Ustica.
In quell’isola, allora destinata ai confinati comuni, erano stati condotti mesi prima Vincenzo Capuana, anarchico spezzino e Menghestù, un giovane antifascista eritreo studente di ingegneria a Roma. Vi avevano incontrato il compagno Antonio Sicilia di Agrigento.
La Direzione di Ustica non tollerava che Sicilia rifiutasse di fare il saluto romano come i confinati comuni e perciò lo condannava a lunghissimi periodi di permanenza al «Fosso», una cella sotterranea di dolorosa memoria per quanti soggiornarono in quell’isola. Ma Antonio Sicilia teneva duro, come fece fino alla fine, con grave e irreparabile danno della sua salute. All’arrivo di Capuana e Menghestù, Sicilia non fu più solo a rifiutare di salutare fascisticamente ma dopo alcuni mesi di sacrifici Capuana e Menghestù vennero trasferiti a Tremiti.
Qui noi politici eravamo già oltre cinquecento tra antifascisti generici che la guerra di Spagna aveva entusiasmato alla resistenza al fascismo, soprattutto giovanissimi, e veterani delle carceri e delle isole, anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani, giellisti, ecc.
La sera dell’affissione dell’ordinanza si discusse animatamente in tutti i dormitori, i vari gruppi politici decisero unanimemente di respingere l’imposizione e furono esaminate le possibilità di fuga dall’isola in sede di comitato ristretto di azione. Il piroscafo che collegava l’isola alla terraferma, proveniente da Manfredonia, gettava l’ancora nella rada non essendoci porto a Tremiti. Nell’isoletta di Capraia del gruppo di Tremiti c’era una stazione radio della Marina da Guerra perciò si scartò l’idea di impossessarsi del piroscafo e di fuggire in massa e si decise la resistenza ad oltranza. L’indomani all’appello delle ore 9 che coincideva con la distribuzione della «mazzetta» – come era chiamato il sussidio giornaliero di lire 5 – accaddero i primi e più gravi incidenti. La guardia Varia, addetta alla chiamata, mal sopportava che i confinati rispondessero solo «presente» come al solito. Così ad un certo momento, innervosito, scese dal tavolo da cui faceva l’appello, afferrò il confinato Andrini, che alla sua ingiunzione aveva sarcasticamente risposto nel nativo dialetto lombardo di non sapere salutare «romanamente», e cercò di condurlo in camera di sicurezza per intimorire gli altri confinati. Anzi ci mise tanto zelo che cominciò ad alzare le mani sull’Andrini: fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dopo l’oltraggio morale, del tentativo di mortificarci nei nostri sentimenti, anche la violenza fisica! Per primo fu il nostro caro e compianto compagno Bernardo Melacci a lanciarsi in difesa di Andrini, gli agenti presenti intervennero a dare man forte al loro collega e la mischia divenne generale. In pochi momenti il grande piazzale prospiciente la Direzione del confino di Tremiti diventò campo di battaglia; da una parte carabinieri e agenti correvano ad allinearsi caoticamente per fronteggiare i confinati dei quali alcuni gruppi avevano bloccato la casermetta dove si sapeva essere depositate armi leggere, casse di bombe a mano e alcune mitragliatrici. In linea di massima i confinati controllavano la situazione. Il direttore Fusco non aveva certamente previsto gli effetti della sua provocazione perché quando scese in piazza dai suoi uffici era in preda ad orgasmo e non sapeva fare altro che implorare la calma.

Quotidiane provocazioni

A complicare la situazione un gruppo di confinati fascisti e provocatori comparve al fianco degli agenti. Ne presero da ricordarsene per l’eternità; uno di essi, certo Evangelisti, stava in aria in posizione orizzontale senza un punto fisso di appoggio. Essi con le loro quotidiane provocazioni rendevano più amaro il nostro soggiorno nell’isola e quel giorno raccolsero ciò che avevano seminato. Dopo qualche ora di colluttazione fummo invitati a ritirarci nei cameroni con la promessa che non ci sarebbero state rappresaglie. Invece tanto più avevano tremato durante la mischia, i provocatori della sommossa, più cattivi furono nella repressione.
A varie riprese un centinaio di confinati vennero arrestati e nei giorni seguenti furono condotti nelle carceri di Foggia e di Lucera.
L’ordinanza non venne ritirata e la polizia organizzò squadre, armate di nervi di bue, per terrorizzare i recalcitranti. Come in tutti gli agglomerati umani una parte cedette e accettò la vergogna di salutare gli aguzzini, e per giunta col gesto degli schiavi. Dopo la partenza degli arrestati denunziati per incitamento alla resistenza e ribellione, a non salutare romanamente restammo un centinaio. Ebbe inizio così un lungo periodo di resistenza passiva dopo l’opposizione violenta della sommossa. La tattica che porta il nome di Gandhi è stata largamente usata alternativamente nelle lotte dell’antifascismo. La ribellione violenta può essere causata dallo sdegno per la provocazione immediata ma l’opposizione continuata richiede forza morale indubbiamente superiore.
Anche la Direzione cambiò tattica. Non appena un confinato rifiutava di fare il saluto romano veniva rinchiuso insieme agli altri resistenti in cameroni isolati dal resto degli obbedienti e deferito al Consiglio di disciplina, dopo che un pretore di Manfredonia mandò assolti a Tremiti i primi confinati che gli furono mandati in stato di arresto con l’imputazione di «rifiuto a un ordine della Direzione». Quel coraggioso pretore sentenziò che non si poteva imporre ai confinati atti che ripugnavano alle loro coscienze. In pratica però la situazione nostra peggiorò perché la Direzione dapprima ci consegnava per 10 giorni dopo ci mandava, a gruppi, a scontare mesi di isolamento nelle varie carceri senza più disturbare la magistratura. Di tanto in tanto alcuni venivano trasferiti nelle altre isole dove non esisteva l’obbligo del saluto romano mentre a qualcuno che aveva già terminato il periodo di confino fu regalato un supplemento di anni di permanenza nelle isole senza averlo fatto passare davanti ad alcuna commissione provinciale per il confino. Per vincere la resistenza di quel forte gruppo di valorosi si negò loro perfino la razione di acqua potabile. Il comunista Ferrari di Reggio Emilia ammalatosi di tifo, condotto all’ospedale di Foggia morì in corsia dopo alcuni giorni dall’arrivo senza essere stato nemmeno visitato. L’anarchico veneto Ferdinando Perencin ammalato di gravissima forma di ulcera gastrica segnò in quell’agitazione, con la sua resistenza, la sua condanna ad una morte prematura. Per circa due anni restarono in una dozzina a fare la spola tra le carceri della provincia di Foggia e l’isola di Tremiti.

Vitto ridotto per inasprire la punizione

In carcere venivano inviati in punizione amministrativa ordinata dalla Direzione del confino per periodi fino a tre mesi durante i quali il vitto, già scarsissimo per il carcerato di allora, veniva maggiormente ridotto per inasprire la punizione. Debilitati nel fisico ma inflessibili nel morale i componenti di quella pattuglia appena sbarcati a Tremiti ogni volta che tornavano dal carcere, invitati a salutare romanamente tornavano a rifiutarsi e venivano ricondotti nuovamente in carcere. Un giorno però la solita scorta di carabinieri sbarcò a Tremiti l’anarchico tarantino Giuseppe Messinese, confinato fin dal 1926. Siccome era ammalato di tbc e arrivò febbricitante venne condotto direttamente all’infermeria dell’isola. Il direttore Fusco andò a trovarlo subito come faceva ad ogni arrivo da quando aveva emessa l’ordinanza del saluto. Dopo alcuni ipocriti convenevoli pretese che Messinese si alzasse dalla branda e lo salutasse romanamente. Ne ricevette schiaffi sul viso di aguzzino ed una mezza persiana sulle spalle. La resistenza del gruppo dei dodici durata due anni aveva reso impopolare il commissario Fusco anche tra gli isolani di Tremiti che gli avevano detto: «Se tra i politici che oggi sono confinati a Tremiti ci sono dei compagni di Argante Salucci non li sottometterete».
La lezione inflittagli dal compagno Messinese lo mise in condizioni di non comparire più in pubblico. Così venne trasferito mentre Messinese fu deferito in stato di arresto al Tribunale e condannato a due anni di carcere. Il gruppetto di valorosi tra i quali ricordo i compagni Antonio Vari e Olivieri, romani, venne trasferito a Ventotene dove non si parlava di saluto romano. A Roma dovettero tirare le conclusioni e, al posto di Fusco, a Tremiti fu mandato a dirigere la Colonia il commissario Coviello che altre macchinazioni governative aveva eseguite contro i confinati a Ponza negli anni precedenti. Nello stesso tempo, agosto 1939, un forte gruppo di confinati fummo da Ponza e Ventotene di nuovo trasferiti a Tremiti. Qui arrivati, davanti al piazzale che guarda le spiagge adriatiche e la Majella, il signor Coviello ad uno dei nuovi arrivati che due anni prima, proprio nei giorni che fu emessa l’ordinanza del saluto romano doveva essere liberato dal confino dopo avere scontati sette anni e aveva avuto altri due anni per il rifiuto di salutare romanamente, disse: «Allora questa volta si va a casa, basta non continuare a rifiutarsi di fare il saluto». Ebbe la risposta che meritava.
Da vecchio poliziotto capì che con i nuovi arrivati, in gran parte ospiti di Tremiti di due anni prima, e trasferiti altrove per la questione dell’ordinanza non c’era da aspettarsi tentennamenti. E replicò: «Andate a dire ai vostri compagni che per il saluto romano non sarete più disturbati». E da allora, 1939, alla fine del confino, agosto 1943, non ci furono più imposizioni del genere.

Alfonso Failla

 

Alcune ville di Confino di Berlusconi: Certosa, Montalcino e Porto Cervo