rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Ma chère liberté

Un gatto randagio
fra Alessandria d'Egitto e Parigi


Molti italiani, che hanno solo vagamente sentito nominare Georges Brassens o Jacques Brel, e non sanno assolutamente nulla di Barbara o di Nougaro, si illuminano quando si fa il nome di Georges Moustaki, il merito è di una canzone: «Lo Straniero» («Le Meteque»), questo pezzo, uscito subito dopo il ’68, ebbe nel mondo un enorme successo, con un incalcolabile numero di copie vendute (un milione solo in Italia).
«Le Meteque» deve la sua fama al fatto di essere una canzone estremamente ben confezionata, oltre che giunta al momento giusto: si tratta di una miscela perfetta di «poesia per tutte le tasche» (non è una definizione denigratoria: la usava Brassens per i suoi stessi versi) e melodia di accattivante semplicità, tinta nell’arrangiamento dalle reminiscenze mediterranee del bouzouki, oggi piuttosto inflazionato, ma all’epoca appena riconducibile al Teodorakis di Zorba il greco.
La gradevolezza, anticonformista ma non aggressiva, del personaggio, unite alla voce poco stentorea (per non dire afona) ma dal timbro estremamente sensuale integravano, come ingredienti fondamentali, la ricetta di questo successo.
Moustaki però non è soltanto «Lo straniero», come si potrebbe pensare in Italia, dove solo questa canzone ebbe notorietà; non era allora, né sarebbe mai stato, il prodotto pensato a tavolino, adatto a una sola stagione, di scaltri discografici: veniva da lontano e sarebbe andato ben più lontano! Oltre venti dischi, carichi di suoni e di poesia, una enorme quantità di concerti che lo hanno portato a suonare al Carnegie Hall di New York, come nelle fabbriche occupate del maggio, lo stanno a testimoniare senz’ombra di dubbio.
D’altronde al successo di «Le Meteque» Moustaki ci arrivò perfettamente maturo e dopo una lunghissima gavetta: era sbarcato a Parigi pressoché ventenne nel 1951, con l’intenzione di occuparsi di giornalismo; la musica era una passione secondaria con cui pensava appena di arrotondare le entrate.
All’epoca di quella bohème gloriosa in cui s’andava formando il meglio della seconda generazione della grande canzone francofona (Barbara, Ferrat, Fanon…), ebbe a un certo punto l’occasione d’incontrare quel fenomenale talent scout che – oltre a tutto il resto – fu Edith Piaf.
Lei fece rapidamente di quel bel ragazzo dai riccioli neri il suo amante, nonché l’autore di una delle sue canzoni di culto: già a 24 anni Moustaki conobbe il successo internazionale della strepitosa Milord, che gli fruttò enormi guadagni, anche se non favorì in alcun modo il suo lancio personale, Moustaki, finita la storia con la Piaf, rientrò in un beato anonimato.
Circa dieci anni dopo tornava in auge come autore di alcune delle più belle canzoni dei primi dischi di Serge Reggiani, il grande attore, che in quegli anni cominciò una fortunata carriera d’interprete di canzoni poetiche (con testi di autori del calibro di Vian, Gougoud, ecc. …); fra queste grandi canzoni io trovo di struggente e particolare bellezza Sarah (ispirata a una poesia di Baudelaire) «La donna che dorme con me/non ha vent’anni da tanti anni…».
I tempi intanto erano diventati maturi per Georges, la cui figura prematuramente incanutita, come anche l’aria da profeta dai modi misurati e dalla voce calma («tu sussurri le stesse cose che io grido» diceva di lui Ferré), unita al portamento elegante e trasandato al contempo, seppero fare breccia nel cuore di molti, non meno della raggiunta maturità artistica.
In effetti Moustaki aveva, col passare degli anni, trovato una sua propria voce, un tono di scrittura perfettamente adatto all’opaca chiarezza della sua ricerca, una specie di piccola filosofia che ben si adattava sia alla forma che alle idee di queste canzoni; l’ottimo autore, il grande viaggiatore, l’uomo affascinante e continuamente affascinato da tutte le forme della vita e della comunicazione si erano fusi in una bella figura di artista, che da allora non ha mai deluso la nutrita schiera di appassionati che continua a seguirlo.


Le sue idee, per quanto non strombazzate in proclami roboanti, sono chiare e inequivocabili: «In effetti ho una spiccata simpatia per l’anarchia in senso etimologico, per un potere con una «a» privativa, un non-potere staccato da ogni compromissione, da ogni gerarchia. L’anarchia non è il disordine, ma l’ordine di ciascuno.
Troppa gente usa questa parola caricaturalizzandola, semplificandola o snaturalizzandola, associandole il casino e la violenza. I tentativi di gestione anarchica in alcuni paesi denotavano maturità e senso dell’assoluta equità.
Ho trovato, presso gli anarchici, un ideale alto e nobile. […]
Da Paul Lafargue, genero di Karl Marx, autore del «diritto alla pigrizia» e emulo di Proudhon, a Jacques Prevert o Bakunin, il discorso della contestazione anarchica riflette un’aspirazione alla felicità, a una vita migliore, più rispettosa, mentre il capitalismo, che si definisce liberale, non libera proprio nulla.
» (Queste dichiarazioni sono tratte da Un chat d’Alexandrie recentissimo libro intervista a Georges Moustaki).
Moustaki ha maturato questo suo anarchismo personalissimo forse proprio per aver vissuto sulla pelle molte delle grandi contraddizioni dei nostri tempi.
Egiziano per nascita, ebreo per religione (i suoi genitori restarono ad Alessandria, ma alcuni suoi cugini nell’immediato dopoguerra si trasferirono in Israele) ha dovuto vedere spesso contrapporsi Arabi e Israeliani in sanguinosi conflitti. Frequentatore e amico di molti Libanesi ha dovuto interrompere la sua consuetudine con quel paese in seguito alla guerra. Per anni ha subito un ostracismo da Israele in seguito al suo rapporto sentimentale con una Palestinese arrestata e considerata dal governo sionista una terrorista.
Moustaki, proprio per reazione, si fa portatore di una cultura vissuta come la filosofia del confronto, del confine che non lacera. Quest’uomo, inquieto ma non dilaniato, è l’uomo degli incontri, delle commistioni. Le porte del mondo sono per lui aperte, le sue chiavi sono le otto lingue che si è trovato a parlare: Francese, Arabo, Ebraico, Italiano, Spagnolo, Portoghese, Inglese e Greco. La nona, forse la più importante di tutte, è la musica.
Ebreo (anche se personalmente ateo) greco, della folta comunità greca di Alessandria d’Egitto, la stessa nella quale era nato e aveva vissuto il sommo poeta Kavafis, francese per formazione culturale, poi per aver passato l’intera vita in Francia, buon e frequente ospite della lingua e della terra italiana e spagnola, «fratello di sangue» dello scrittore simbolo del Brasile Jorge Amado (che di lui diceva «Georges ha la sua vera casa a Bahia, solo che spesso è assente. Allora ci vivo io!»), Moustaki interpreta il lavoro culturale – «il mestiere di cantante» –, e il suo in particolare, come un eterno vagare alla ricerca di incontri e confronti, pur rimanendo cosciente di quanto dolore e rimpianto possano procurare le separazioni.
È stato per questo uno dei pionieri delle contaminazioni musicali, collezionando un’impressionante serie di collaborazioni artistiche con musicisti delle più diverse provenienze: Astor Piazzola, Manos Hadjidakis, Mikis Theodorakis, Antonio Carlos Jobim, Henry Salvador, Chico Buarque de Hollanda, Francesco Guccini, Bruno Lauzi, Ennio Morricone, e poi chitarristi di flamenco come José Pisa, flautisti malesi come Kimpoh Cheah, ricercatori di suoni come il percussionista Areski Belkacem, o jazzisti classici come Hubert Rostaing, ecc.
Oggi, con alle spalle una carriera di grande coerenza etica ed estetica, il trovatore è ancora per strada, passando solo di rado un mese intero nel medesimo paese, per raccontarci le sue storie, cercando di imparare qualcosa e di fare canzoni da tutto, piccole gioie e grandi tormenti, come un vecchio allievo della vita.

Alessio Lega
amoreanarchia@tiscalinet.it

Georges Moustaki

Dichiarazione

Io dichiaro lo stato di felicità permanente
E il diritto di ciascuno ad ogni privilegio
Dico che il dolore è cosa sacrilega
Quando c’è abbondanza di rose e di pane

Io contesto la legittimità delle guerre
La giustizia che uccide, la morte che punisce
Le coscienze che dormono rimboccate a letto
La civilizzazione portata dai mercenari

Guardo morire questo secolo vecchio
Un mondo diverso nascerà dalle sue ceneri
Ma non basta più solamente aspettare
Ho aspettato già troppo, lo voglio ora

Che la mia donna sia bella ogni ora del giorno
Senza doversi nascondere nel fard
Che nessuno mi obblighi a rimandare a più tardi
La voglia che ho adesso di fare l’amore

Che i nostri figli siano uomini e non adulti
E che siano quello che volevamo essere
Che ci siano fratelli, compagni e complici
E non due generazioni che s’insultano

Che i nostri padri alla fine si emancipino
E che trovino il tempo di carezzare le loro donne
Dopo tutta una vita di sudore e di pianto
E due «dopoguerra» che non erano «la pace»

Io dichiaro lo stato di felicità permanente
Non per mettere parole assieme alla musica
Senza dove aspettare tempi messianici
Senza che sia votato in alcun parlamento

Io dico che è tempo di essere responsabili
Senza rendere conto a niente e a nessuno
Per trasformare il caso in destino
Soli a bordo, senza padroni, senza dio e senza diavolo.

E se vuoi venire passa la passerella
C’è posto per tutti e per ognuno
Dobbiamo ancora fare tanta strada
Per andare a veder brillare una nuova stella

Io dichiaro lo stato di felicità permanente.

 

Canzone-sirena

Voglio che la mia canzone sia una sirena d’allarme
Fra una melodia di moda e un cantante confidenziale
E anche se non urlo
Statemi ad ascoltare ancora tre minuti

Quando si sente parlare di donne violentate
Per molti di noi sono solo parole
Si discute, ci si indigna, si richiude il giornale
E si finisce per trovare tutto quasi normale

Ieri ho incontrato una di queste vittime
Per la polizia è affare di routine
E per gli altri non è che un fatto come un altro
Io ho visto la disperazione in fondo a quello sguardo

Ho lavato il suo corpo coperto di sperma e di sangue
Il violentatore era quasi un adolescente
Ha fatto in fretta senza amore ne piacere
E sembra che abbia anche pianto prima di scappare

Mio dio, che abbiamo fatto per arrivare a questo punto?
Che cosa si può fare per fermarsi?
La mia testa si rivolta, il mio cuore stramazza
Ed ho male per lei e vergogna per lui

Ma chi fra noi non ha mai violato qualcuno?
Per non parlare che di quelle piccole violenze meschine
Che fanno parte della vita d’ogni giorno
E affogano nelle lacrime la nostra sete d’amore

Il potere, i soldi, la forza e il disprezzo
L’autorità del padre, quella del marito
Il rigore imbecille dei fautori dell’ordine
Che crea gli arrabbiati mettendo museruole

Perché sono i nostri figli quelli che chiamiamo piaghe
Rivoltosi, emarginati, drogati e altri negri
Tutti quelli che per sopravvivere cercano di sognare
Quelli che cercano le spiagge sotto i mattoni

E se mi vedete cantare alla televisione
Nel codice stabilito del consumo
Con l’approvazione del principe e della corte
Non è certo per indottrinarvi

Nemmeno in fondo per convincervi o piacervi
O cantare le idee che sono già nell’aria
Ma per chiedere un oggi migliore
Facendo semplicemente il mio mestiere di cantante

Vi dico che la barca fa acqua da tutte le parti
Ed è tempo di cercare di ripararla
Vittime o criminali siamo tutti coinvolti
E se c’è un solo colpevole siamo tutti condannati.