rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


pensioni & diritti

Sciopero generale alternativo!
di Cosimo Scarinzi

 

CUB, SLAI Cobas e USI hanno indetto uno sciopero generale. Il 7 novembre si sciopera per le pensioni, per i salari europei, per la difesa dei servizi sociali, per le libertà sindacali, contro la concertazione, per l’autonomia e l’indipendenza, sul terreno sindacale, dei lavoratori.

Credo sia opportuno ricordare che il modo stesso di porre una domanda prefiguri la risposta.
Se, ad esempio, accettassimo di misurarci sulla questione delle pensioni nei termini che ci sono proposti dal governo e dai settori “riformisti” dell’opposizione – invecchiamento medio della popolazione, riduzione del numero dei lavoratori attivi in rapporto ai pensionati, deficit della previdenza, necessità di garantire alle future generazioni un trattamento previdenziale adeguato et similia – potremmo facilmente dimostrare che questi signori mentono su diverse questioni e che il loro fine reale è un taglio secco delle retribuzioni e il rilancio della previdenza integrativa privata ma assumeremmo un’attitudine, inevitabilmente, difensiva ed eluderemmo quello che, a mio avviso, è la questione centrale.
Di conseguenza, proverò a porre quelli che mi sembrano.
Nell’arco degli ultimi trent’anni la quota della ricchezza nazionale che va alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti si è ridotta di circa il 20%. è vero che nel 1973 si era nel pieno di un ciclo di lotte che aveva spostato i rapporti di forza fra le classi a favore dei salariati ma è altrettanto vero che questa riduzione, acceleratasi negli anni ‘90 e ulteriormente aggravatasi nel terzo millennio, prova come il modello concertativo di governo dei salari non garantisce in alcun modo la tenuta delle retribuzioni.
Nell’ultimo decennio, inoltre, si sono ridotte le retribuzioni medie anche in assoluto a fronte di un aumento rilevante della produttività del lavoro sia nell’industria che nei servizi ed è cresciuta in maniera rilevantissima la quota della classe lavoratrice che svolge lavori precari di vario genere.

Indicatore sociale

A mio avviso, e non credo di affermare nulla d’originale, l’andamento dei salari è un indicatore sociale d’innegabile rilevanza.
I lavoratori italiani hanno retto la compressione delle retribuzioni grazie alla crescita del lavoro femminile ed alla riduzione della natalità ma è assolutamente evidente che, a fonte degli attuali standard sociali di consumo, la compressione salariale ha, ormai da anni, cominciato ad incidere non solo sui consumi “voluttuari” ma anche su quelli essenziali come dimostra la crescita dei cosiddetti lavoratori poveri che si aggiungono ai pensionati al minimo per non parlare degli immigrati.
La riduzione dei salari è stata realizzata certamente a livello aziendale attraverso il decentramento produttivo, le esternalizzazioni di segmenti della produzione e dei servizi, la crescita del lavoro nero, l’utilizzo degli immigrati come esercito industriale di riserva ma non va sottovalutata l’azione dei diversi governi, di centro, sinistra e destra che hanno operato direttamente sulla massa delle retribuzioni. Basta pensare, a questo proposito, all’abolizione della scala mobile nei lontani anni ’80, alle finanziarie di guerra realizzate dalla sinistra nei primi anni ’90, alle leggi sul mercato del lavoro, alla riforma delle pensioni realizzata da Dini, ecc.
Ne consegue che lo scontro sul salario ha immediate implicazioni politiche generali.
Da questo punto di vista, il governo di destra prosegue ed aggrava una politica che ha una storia decennale ed è in linea con quanto avviene nelle altre democrazie industriali.
Gli avversari politici della destra hanno, nei primi due anni di governo del cavalier Berlusconi posto l’accento sul fatto che il governo si è impegnato principalmente nella risoluzione dei problemi del premier e dei suoi amici (una sorta di applicazione del sessantottino “il personale è politico”) e che non si è occupato a sufficienza del paese. Non avevano, per la verità, tutti i torti ma, per l’essenziale, avevano, ed hanno, torto, il governo della destra, nonostante la sua natura di vero e proprio campo di Agramante, trova il tempo di occuparsi anche del buon popolo su pressione dei suoi principali azionisti di riferimento come la Confindustria ed i tecnoburocrati europei.
Il recente discorso di Berlusconi a reti unificate è stato un buon esempio di capacità di comunicazione e manipolazione ed è servito, in prima istanza, a rimettere in riga i riottosi alleati democristiani e fascisti che si erano ritagliato il ruolo di componente sociale della destra. In estrema sintesi, l’operazione è chiara, con il suo intervento, il conducator pone ai suoi una scelta netta e dolorosa: o sostenerlo fino in fondo o determinare una crisi di governo ed il suicidio in diretta nel caso di elezioni anticipate.
Che la destra non sia assolutamente pacificata è sin troppo noto, basta pensare agli insulti fra fascisti e democristiani, da una parte, e leghisti, dall’altra, e ad alcuni agguati al governo nelle votazioni sulla Legge Gasparri. Ma questo è un problema nostro in misura assai limitata.

Gli “attacchi” di Pezzotta

La scelta del governo di andare allo scontro sulle pensioni ha un altro evidente effetto, mette in crisi il rapporto privilegiato fra governo e CISL e UIL, per un verso, e ricompone il fronte del sindacato istituzionale per l’altro. La manifestazione romana del 4 ottobre è stata, sotto questo profilo, suggestiva. L’ineffabile Pezzotta ed il volpino Angeletti hanno marciato al fianco dell’ex nemico Epifani e chi, sbarcando da Marte, leggesse gli attacchi di Pezzotta al governo e ai “riformisti” dell’Ulivo, che, per parte loro, si sono affrettati a dichiarare che la sinistra deve fare proposte e non proteste per quanto riguarda il taglio delle pensioni, avrebbe l’impressione di trovarsi di fronte ad un gigante del sindacalismo di classe.
Naturalmente la crisi del blocco sociale che ha sinora sostenuto il governo è un fatto politicamente rilevante, se la “destra sociale” verrà effettivamente relegata in un angolo a favore di politiche più hard e se verrà definitivamente abbandonata la strategia sindacale del governo consistente nell’incunearsi fra CISL e UIL, da un lato, e CGIL, dall’altro, vi saranno importanti ricadute sul terreno sindacale e sociale.
È altrettanto chiaro, però, che il fronte del sindacato istituzionale si compatta su di un preciso obiettivo: restaurare un meccanismo concertativo messo a repentaglio dalla destra liberale e proseguire sulla via del corporativismo democratico che ci ha deliziato nei passati decenni.
In questa situazione, la scelta della CUB, dello SLAI Cobas e dell’USI di indire, prima della sortita televisiva del conducator e della scelta di CGIL-CISL-UIL di indire uno sciopero di quattro ore il 24 ottobre,uno sciopero generale il 7 novembre coglie la necessità di rilanciare un’iniziativa chiara negli obiettivi e nella prospettiva di fondo.
Il 7 novembre si sciopera per le pensioni, per i salari europei, per la difesa dei servizi sociali, per le libertà sindacali, sempre più limitate dall’intervento della commissione di garanzia e contro la concertazione, per l’autonomia e l’indipendenza, sul terreno sindacale, dei lavoratori.
Insomma, si sciopera su di una piattaforma profondamente diversa rispetto a quella di CGIL-CISL-UIL e contro gli accordi che questi sindacati hanno continuato a firmare negli anni passati. Una scelta difficile, indubbiamente, una scelta che sarà necessario spiegare e discutere nelle assemblee dei lavoratori, dove potremo farle visto la legislazione liberticida imposta dai sindacati di stato, ma anche una scelta di coerenza che riteniamo sia, nel medio periodo, quella che potrà far crescere un movimento sindacale al livello delle questioni che oggi sono poste ai lavoratori.

Cosimo Scarinzi