rivista anarchica
anno 34 n. 296
febbraio 2004


storiografia

Anarchici in un dizionario
di Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso

 

È uscito, per i tipi della BFS di Pisa, il primo volume del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani. Eccone la premessa scritta dai docenti universitari direttori del progetto.

Negli ultimi trent’anni la storiografia sull’anarchismo ha compiuto significativi progressi, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo. Opere di vario genere hanno gettato luce su figure, aspetti, momenti e problemi della storia libertaria italiana e internazionale, ampliando e approfondendo il quadro generale della sua conoscenza. Quasi tutti questi lavori, tuttavia, hanno posto l’attenzione sui personaggi e sugli avvenimenti più noti ed emblematici, con l’inevitabile conseguenza di delineare un quadro «elitario» del fenomeno. Mancava cioè, fino ad oggi, una storia «di base», una storia di quelle migliaia e migliaia di oscuri militanti che hanno costituito in gran parte il tessuto connettivo del movimento. Il presente dizionario, ovviamente, non può colmare tale lacuna; costituisce però, con le sue duemila voci, uno strumento fondamentale per progredire in tal senso. Gran parte dei personaggi qui biografati sono, infatti, «portati alla luce» per la prima volta, permettendo una conoscenza più ricca del fenomeno anarchico. Si tratta di uno squarcio della storia politica e sociale italiana del tutto inedito, che allarga notevolmente lo sguardo generale sul movimento operaio e socialista e anche, naturalmente, sulla storia del sovversivismo nazionale e internazionale. Complessivamente esso copre un arco temporale che va dalla metà dell’Ottocento alla fine degli anni Sessanta del Novecento, con alcuni prolungamenti biografici giunti fino ai nostri giorni.

Attilio Bulzamini, secondo da destra, in partenza per la Spagna

Tre anni di lavoro

Frutto di un lavoro archivistico e bibliografico che per tre anni ha impegnato a vari livelli oltre un centinaio di studiosi, esso presenta alcune caratteristiche delle quali è necessario dar conto. Come si può vedere dalle fonti utilizzate, la ricerca si è mossa in varie direzioni, al fine di offrire uno spaccato documentario e interpretativo il più vario e articolato possibile. Sono stati utilizzati innanzitutto i documenti relativi al Casellario Politico Centrale depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, che, come è noto, offrono la possibilità di ricostruire l’attività e i movimenti principali dei soggetti sottoposti al controllo; questi documenti sono stati integrati con altre carte di polizia e di prefettura provenienti da fonti diverse. Naturalmente la ricognizione è avvenuta sulla base della consapevolezza che tali testimonianze presentano due fondamentali caratteristiche: da una parte l’aspetto descrittivo e burocratico, dall’altra quello ermeneutico e storiografico.
In generale, lo storico dell’anarchismo è interessato solo alla prima caratteristica. Questa, infatti, se gli informatori sono dei veri professionisti, è costituita dalla somma – a volte anche copiosa – delle relazioni stese dagli investigatori sull’attività dei soggetti sottoposti a sorveglianza. Possiamo così avere una mappa abbastanza dettagliata degli spostamenti e delle relazioni dei militanti, acquisendo anche la conoscenza del contesto sociale e geografico entro cui tutto ciò è avvenuto. Va tuttavia tenuto presente che queste stesse fonti non sempre sono attendibili perché la pura registrazione dei fatti svoltisi nel tempo e nello spazio dice comunque poco rispetto alla trama effettiva d’azione e d’intenti che animava veramente i protagonisti. Il movimento anarchico, infatti, è stato fin dal suo inizio un movimento antilegalitario e rivoluzionario: senza dubbio, in generale, il più antilegalitario e il più rivoluzionario dell’intero sovversivismo italiano. Data questa inequivocabile natura, molte azioni e, ancor più, molti intenti d’azione, non avendo avuto un seguito concreto e visibile, sono rimasti ignoti ai contemporanei e ai posteri. Gli stessi anarchici, poi, quasi mai hanno ricostruito le varie vicende che li hanno visti protagonisti. Naturalmente queste considerazioni non implicano affatto l’idea che tali zone d’ombra costituiscano la parte più interessante della storia dell’anarchismo: la parte più interessante e più importante della storia dell’anarchismo è quella che già conosciamo. Detto questo, vanno comunque considerati degni di studio tali anfratti storici ed è ovvio, a questo punto, che le uniche fonti utili per far luce su di essi siano fornite dagli archivi della questura, della prefettura e della magistratura.

Alberico Angelozzi

40 paesi 5 continenti

Il fatto che tale documentazione governativa sia stata quasi sempre presente in questa ricerca, costituendone per molti aspetti la base principale, è dovuto anche alla ovvia considerazione che l’azione degli anarchici è, per sua natura, un’azione immediatamente politica. Il suo carattere fortemente antilegalitario e rivoluzionario li ha continuamente posti in un rapporto diretto con le autorità costituite, attraverso una lotta che si è svolta – come dire – in prima persona. Ciò spiega perché molti militanti, al fine di sottrarsi ai vari mandati di cattura, hanno dovuto sottoporsi a continui e logoranti spostamenti tra diverse città e regioni e anche, molte volte, a ripetuti espatri in vari Paesi. Rispetto all’intera massa dei biografati qui considerata, sono circa il 60% quelli che sono emigrati dall’Italia almeno per una volta nella propria vita, rimanendovi lontani oltre sei mesi. Gli anarchici biografati emigrano in tutto il mondo, toccando oltre 40 destinazioni diverse, dalle Antille all’Argentina, dalla Bulgaria al Paraguay. Raccogliendo – per semplicità – i paesi di destinazione per continente, risulta che gli anarchici italiani soggiornano prevalentemente in altri paesi europei (70% delle migrazioni registrate), in particolare in Francia, Spagna, Svizzera e Belgio, che sono anche fra i paesi più toccati in assoluto (rispettivamente 700, 260, 230 e 130 soggiorni di almeno 6 mesi ciascuno). Seguono come aree di destinazione l’America latina (13,5%), dove spicca soprattutto l’Argentina (120 soggiorni), e l’America del nord anglofona (9,7%, con 150 soggiorni negli Stati Uniti). L’Africa nel complesso accoglie il 6,2% dei movimenti migratori, diretti in particolare verso i paesi dell’Africa mediterranea (Algeria, Egitto e Tunisia). Asia e Australia, invece, sono mete marginali, con uno 0,3% di soggiorni. Ovviamente questo dato non è tutto politico, perché molte emigrazioni sono avvenute anche per altri motivi, soprattutto per cercare lavoro, ma non si deve dimenticare che spesso la disoccupazione dei militanti – anche nella più tranquilla età giolittiana – non era il semplice portato dell’andamento del mercato del lavoro, ma il risultato di un processo di emarginazione (licenziamenti e sfratti) del quale era in larga misura responsabile il continuo e assillante controllo poliziesco. Il dato in ogni caso conferma ulteriormente l’idea che, in generale, la vita del militante anarchico, migrante irrequieto o continuo soggetto di espulsione da una patria «matrigna», sia stata sempre molto movimentata. Lo testimonia, del resto, la somma davvero impressionante delle denunce, delle ammonizioni, degli arresti, delle detenzioni, dei domicili coatti e di qualsiasi altra forma repressiva collezionata dagli anarchici (ad esempio, solo nel 1894 risultano 560 gli anarchici finiti al domicilio coatto). Da questo punto di vista è incomparabile il tasso di repressione esercitato dalle autorità governative verso i libertari, rispetto alle altre forze politiche di segno antimonarchico e anticapitalistico. Il che, naturalmente ha degli effetti non secondari, nel moltiplicare ed accelerare i movimenti migratori. Tutto ciò emerge in modo inequivocabile da quasi tutte le biografie raccolte nella presente opera. Di qui la difficoltà, per lo studioso, di ricostruire i percorsi dei militanti, sia sotto il profilo puramente materiale, sia sotto quello politico e sociale, considerando anche il dato della forte valenza internazionalistica dell’anarchismo. Si deve infatti osservare che la ripetuta circolazione europea e atlantica dei suoi maggiori esponenti deriva, per l’appunto, da questa caratteristica, che appare del tutto unica rispetto alle altre formazioni del movimento operaio e socialista. Quest’ultimo, tra Otto e Novecento, subisce un processo di nazionalizzazione, mentre l’ala libertaria mantiene inalterata la dimensione transnazionale della sua azione politica.

Pasquale Binazzi

«Immaginario» poliziesco

Di scarsa – per non dire nulla utilità – è invece il secondo aspetto accennato sopra, vale a dire quello propriamente storiografico ed ermeneutico. I rapporti di polizia e le varie relazioni sugli intenti d’azione degli anarchici, stilati dagli investigatori, rimangono inevitabilmente «fuori» dalla vera natura delle cose. Tali documenti, che pretendono di interpretare l’anarchismo, non solo sono quasi sempre «grossolani» per l’utilizzo costante di categorie definitorie burocratiche e precostituite, ma anche viziati da un ovvio pregiudizio a favore dell’ordine costituito, che spinge inevitabilmente l’occhio dell’indagatore a «demonizzare» ogni mossa dell’avversario, rendendo insignificanti anche quegli elementi di rilievo che potrebbero verificarsi in un determinato contesto. E ciò perché tutte le azioni e tutti gli intenti sono posti sullo stesso piano: il risultato, quasi sempre, è quello di dedicare la medesima attenzione sia ad un insignificante episodio sia ad un fondamentale avvenimento. Volendo spingere in avanti tali considerazioni, potremmo dire che il panorama delle biografie degli anarchici qui presentate costituisce, semmai, una ricca e avvincente documentazione dell’«immaginario» poliziesco in relazione alle sue capacità di valutare i pericoli reali (dopo Bresci l’ossessione dell’attentato ai reali determina situazioni che sfiorano la comicità dell’assurdo) e di difendere lo Stato dagli assalti del sovversivismo. Ma ciò apre un capitolo di storia istituzionale che non costituisce oggetto precipuo di questa trattazione.
Naturalmente è stata tenuta in debito conto la differenza tra le carte prodotte dalla polizia e dalla magistratura durante l’età liberale e quelle prodotte dalla polizia e dalla magistratura nel periodo fascista. La differenza consiste nel fatto che durante la dittatura tutto diventa illegale ed è perciò facile, per il ricercatore, cadere nella trappola di «caricare» d’eccessiva importanza alcuni avvenimenti minori: molti documenti che affollano e appesantiscono i faldoni archivistici del Casellario Politico Centrale sono il frutto maniacale di un enfatico rigore poliziesco che giunge a punte parossistiche (continui e isterici allarmi per questa o quest’altra possibile azione contro il regime). Quante «reti» di cospiratori, quanti complessi movimenti sospetti sono risultati, a un più attento esame, il semplice frutto della casualità o del modesto sforzo di piccolissimi gruppi. In conclusione, per lo storico dell’anarchismo le fonti di polizia sono indispensabili per ricostruire la cornice dei fatti, quasi mai, invece, per interpretare il quadro esistente entro tale cornice.

Analisi di testi e opuscoli

Oltre alle fonti offerte dalle carte di polizia, della prefettura e della magistratura, la ricerca si è avvalsa anche della stampa periodica anarchica e socialista. Questa ricognizione è stata poi arricchita dall’analisi dei testi e degli opuscoli (compresa la memorialistica) pubblicati dai militanti. In questo caso si è proceduto ad un raffronto continuo tra la documentazione archivistica e la documentazione bibliografica, onde individuare il più possibile i punti di consonanza e i punti di contraddizione. In tal modo si è avuta la possibilità di «limare» e di rendere più coerenti molte voci biografiche. Un ulteriore raffronto è avvenuto comparando molte biografie tra loro, consultando gli archivi familiari, quelli del movimento libertario e raccogliendo testimonianze orali, con lo scopo di eliminare eventuali discrepanze e con il fine di individuare, nel contempo, situazioni ed avvenimenti comuni, considerandoli alla luce dei grandi momenti della storia politica e sociale italiana. Si è trattato di un lavoro complesso rivelatosi lungo e minuzioso e che ha dato buoni frutti, anche se, inevitabilmente, sono rimaste alcune zone d’ombra difficili da rischiarare.
Poiché l’oggetto di indagine è stato il movimento anarchico italiano, lo scavo storiografico si è modellato sulla base di un criterio metodologico preciso: porre in primo piano l’azione dei suoi aderenti, cercando di calarla nel contesto più generale della storia politica e sociale del tempo. Di qui il tentativo di correlare gli eventi del mondo libertario con quelli del mondo repubblicano, socialista e operaio-sindacalista. Si può notare, a questo proposito, come la forte contiguità fra le varie formazione dell’Estrema si rinsaldi in modo particolare nei momenti di maggior scontro sociale e politico. Il quadro complessivo che ne è uscito rivela in modo assai preciso la natura storica del fenomeno anarchico, che in parte conferma e in parte smentisce alcune idee storiografiche rimaste pressoché dominanti fino ad oggi.
Nel Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma – Casellario istituito alla fine dell’Ottocento e rimasto in vigore fino alla Seconda Guerra mondiale – risultano conservati complessivamente, per l’intero periodo, 152.652 fascicoli personali, di cui 26.626 (pari al 17% circa) sono schedati come anarchici. Secondo una stima governativa ufficiale stilata nel 1913, gli anarchici italiani militanti risultavano allora 4.968, mentre i biografati raggiungevano il numero di 9.198. Era considerato anarchico militante chi aderiva alle organizzazioni ufficiali, mentre il biografato era giudicato tale indipendentemente dall’appartenenza o meno a un’associazione. Si tratta di una cifra di tutto riguardo, qualora si considerino i numeri presenti contemporaneamente nello schieramento della sinistra italiana. In termini «partitici», cioè di stretta militanza e appartenenza, l’inferiorità numerica dei libertari non era così significativa rispetto alle altre formazioni anticapitalistiche e antimonarchiche: gli anarchici (circa 9.000) risultavano poco meno di un terzo dei repubblicani (33.000) e circa un quarto dei socialisti (40.000). Comunque, dei 26.626 anarchici schedati, annoverati per tutto il periodo in cui è rimasto in vigore il Casellario, il presente dizionario ne riporta, sotto forma di lemma, circa un decimo. In realtà, la cifra è decisamente superiore, perché spesso sotto una voce apparentemente singola vengono segnalati più individui. È il caso tipico di alcuni gruppi familiari biografati sotto il nome dell’esponente più significativo, padre, madre, fratello, compagno che fosse, quando non è parso opportuno dare loro uno spazio autonomo per povertà di notizie o per scarsità di rilievo del personaggio. Un esempio per tutti. Di Angelo Galli, morto poco più che ventenne, e i cui funerali sono entrati nella storia della pittura grazie ad un fortunato quadro di Carlo Carrà, non si conosce quasi nulla, ma Angelo figura nella voce dedicata al fratello Alessandro, importante organizzatore sindacale. A volte, però, non sono i legami familiari a tenere assieme più individui ma eventi o azioni collettive che in qualche modo ne esauriscono la parte recitata nella storia dell’anarchismo e che sono stati collegati nel dizionario ad una figura che finisce per costituire il capofila di un gruppo più o meno nutrito.

Carlo Cafiero

Fugace apparizione

Tenuto conto poi che in numerosi casi i personaggi presenti nel Casellario Politico Centrale (non per tutti esiste un cenno biografico vero e proprio) hanno fatto solo una fugace apparizione nel mondo libertario, possiamo senz’altro dire che il campione considerato è più che rappresentativo e riflette in modo abbastanza attendibile le caratteristiche generali dell’intero movimento. La scelta è avvenuta tenendo conto dell’incidenza e dell’importanza che i soggetti presi in esame hanno avuto nei confronti della più generale storia anarchica e socialista, aggiuntovi il criterio elementare dell’autodichiarazione ideologica dei militanti stessi e dell’effettiva attività da loro svolta. Per la maggior parte si tratta di individui che sono rimasti politicamente sulla breccia per molti anni, nella quasi totalità sono uomini, le donne rappresentano solo il 3% circa dei biografati. Questo dato è comune con il resto delle formazioni politiche dell’epoca e conferma il fatto che la politica, nel periodo considerato, è un fenomeno soprattutto «maschile» nel senso che essa è figlia di una cultura dominante legata ad un mondo dove le donne sono ancora considerate solo un’appendice dell’umanità. Nel nostro caso specifico la conferma viene dalle stesse fonti di polizia che considerano l’attività politica svolta dalla donna quasi sempre subalterna a quella del marito/compagno tant’è che spesso i suoi dati sono inseriti nella scheda di quest’ultimo con pochi riferimenti e notazioni. Tuttavia, le poche biografie di donne che sono state inserite nel presente dizionario sono l’esempio di un cambiamento culturale e di costumi. Si tratta in alcuni casi di figure assai significative nel panorama italiano, come Virgilia D’Andrea, Nella Giacomelli e Leda Rafanelli, che rappresentano anche la viva testimonianza della presa di coscienza del mondo femminile di allora.
Dalla ricerca sono stati deliberatamente esclusi tutti coloro che sono diventati anarchici durante e dopo gli anni della contestazione studentesca perché il loro anarchismo è molto diverso da quello «tradizionale», anche se, ovviamente, esistono elementi di forte continuità.
Prima di affrontare questioni specifiche, vogliamo premettere che i dati raccolti sono stati inseriti in un data base che verrà periodicamente aggiornato in relazione al progresso delle ricerche storiche tramite il sito web http://www.dbai.it. Il quadro sintetico dei dati statistici, qui di seguito riportato, si riferisce appunto a tutte le schede biografiche giunte in redazione, comprese quelle che per motivi tecnici o per scelte redazionali non sono state inserite in questa edizione. Queste, comunque, rappresentano una percentuale minima dell’intero patrimonio della ricerca.

Classi decennali

Osserviamo innanzitutto che il 73% circa dei biografati è nato nel periodo che va dal 1860 al 1899; scomponendo il dato per classi decennali d’età, risulta che la percentuale di anarchici biografati nati nel decennio 1870-1879 è pari al 19,7%, e sale rispettivamente al 20,7% e al 22,1% nei due decenni successivi. Nell’arco dei vent’anni seguenti – 1900-1919 – la percentuale si riduce al 14,5%, mentre tra il 1920 e il 1939 si scende all’1,2% e tra il 1940-1959 allo 0,27%. Sono dati molto significativi perché individuano il periodo storico entro cui vi è stata la massima fortuna del movimento, vale a dire l’età coincidente con il primo cinquantennio della vita unitaria del Paese. Durante il regime fascista e, posteriormente, nel Secondo dopoguerra, l’anarchismo italiano subisce un calo numerico assai vistoso, fin quasi a segnalare, di fatto, una sua estinzione. Si dovrà attendere l’ondata del ’68 affinché esso ritorni in auge, tuttavia con forme, sentimenti e ideologie molto mutati rispetto al passato.
Dunque l’espansione massima del movimento si ha soprattutto negli anni 1880-1914. Dopo la fase della Prima Internazionale, l’anarchismo italiano scandisce tre momenti fondamentali della sua storia: gli anni Novanta, che lo vedono particolarmente colpito dalla repressione crispina, suggellata dalla «crisi di fine secolo» (si aggiunga a questo, naturalmente, anche la dolorosa scissione con i socialisti avvenuta nel 1892); l’età giolittiana, in cui si assiste ad una sua parziale metamorfosi sotto la forma del sindacalismo rivoluzionario; infine il moto della Settimana rossa, dove si consuma – e si frantuma – la sua maggiore occasione rivoluzionaria e con la quale, si può dire, si chiude anche l’Ottocento barricadiero. I militanti che si trovano al centro di queste fasi storiche costituiscono la parte più ricca, sotto il profilo politico e ideologico, del movimento. Molti, naturalmente, fanno avanzare la propria vicenda biografica anche negli anni seguenti; tuttavia è qui che, per gran parte, si forma e si consolida l’eredità ideale dell’anarchismo: si tratta, in sostanza, di militanti pervasi da una «fede» antiautoritaria, anticapitalistica e socialista; donne e uomini, quasi tutti, formatisi nell’humus culturale del positivismo e dell’anticlericalismo. Essi sono altresì animati dalla profonda convinzione che sia cosa ovvia, giusta e indispensabile lottare per l’avvento della rivoluzione liberatrice. Sono quella parte dell’Italia che non si è arresa alla vittoria istituzionale della monarchia e che rifiuta radicalmente ogni sorta di compromesso politico e sociale, crede nel progresso ma, ancora più, nell’azione risolutrice prodotta da minoranze agenti. Non sono giacobini, ovviamente, però hanno alle spalle i miti rivoluzionari prodotti dall’Ottocento: il ’48, il Risorgimento, la Comune di Parigi (molto diverso sarà invece l’Ottobre del 1917); miti, peraltro, che sono giunti fino ai giorni nostri.
L’entrata dell’Italia in guerra provoca un piccolo scossone nelle file libertarie perché una parte, peraltro molto minoritaria (anche se rumorosa), si dichiara a favore dell’intervento. Dal punto di vista numerico, l’interventismo anarchico italiano è irrilevante. Il fenomeno, però, è significativo in quanto evidenzia alcuni elementi eterogenei e contraddittori del carattere culturale dell’anarchismo dovuti all’evidente insorgenza idealistica e irrazionalistica, nel momento stesso in cui entrano in crisi molte credenze positivistiche ed evoluzionistiche; non a caso un certo numero di questi interventisti aderirà in seguito al fascismo. Nello stesso tempo, però, mette in luce la persistenza di modelli culturali contigui a quelli del mondo repubblicano, che affondano le proprie radici nella tradizione risorgimentale delle guerre di liberazione nazionale e in una ricca vena di tensioni di tipo garibaldino alla Cipriani. A questo proposito, le biografie riportate risultano assai emblematiche: da una parte, infatti, esse testimoniano un percorso che, oggi, potrebbe sembrare del tutto logico e scontato, dall’altra mettono in luce alcune ambivalenze dell’idea libertaria, la quale può effettivamente prestarsi a interpretazioni non completamente «canoniche» rispetto ai suoi fini ultimi.

Maria Giaconi

Disgregazione lenta, ma irreversibile

Con il Primo dopoguerra e poi il periodo fascista, la situazione cambia moltissimo perché, dopo un momentaneo protagonismo culminato nei moti per il caroviveri dell’estate del 1919 e nell’occupazione delle fabbriche dell’agosto-settembre 1920, inizia il periodo della disgregazione del movimento; disgregazione che sarà lenta, ma irreversibile.
La lotta degli anarchici italiani contro il fascismo è stata fin dall’inizio una lotta radicale e senza esclusione di colpi. Anche in questo caso le voci biografiche riportate danno un supporto notevole a tale giudizio: laddove i militanti hanno potuto mettere in atto la propria autonoma azione, senza che questa fosse condizionata dai tatticismi e dalle titubanze delle altre forze politiche antifasciste (specialmente in alcune zone della Toscana, della Liguria, delle Marche e del Lazio), si è assistito alla notevole capacità di rispondere colpo su colpo alle azioni squadriste. Segno evidente che esisteva in queste aree un rapporto osmotico tra anarchici e popolazione locale. Possiamo osservare il fatto, molto significativo, che sono un centinaio i militanti, qui biografati, «arruolatisi» nelle formazioni degli Arditi del popolo (l’unico serio tentativo «militare» di risposta allo squadrismo nero); formazioni, peraltro, quasi sempre promosse e sostenute dagli anarchici stessi.
Tra il 1922 e il 1927 vi è la diaspora drammatica degli esponenti maggiori e dei militanti più attivi; gli altri, quelli che non possono espatriare, sono messi a tacere o con il carcere o con il confino (per quest’ultimo aspetto, è possibile costatare che, a fronte del numero complessivo delle biografie prese in esame, i confinati risultano 228, pari al 12%). Molti militanti, anzi la stragrande maggioranza, ancor prima dell’istituzione del Tribunale Speciale, sono sottoposti a lunghi procedimenti penali che in gran parte si riferiscono alle lotte del Biennio rosso e all’opposizione armata al fascismo, subendo condanne durissime, come nel caso dei processi collettivi avvenuti in Toscana e Emilia Romagna. Coloro che sfuggono alle maglie della giustizia statale e fascista sono sorvegliatissimi ed impossibilitati ad agire. Si lacera, per i libertari, un tessuto politico-sociale stratificatosi nel corso dei decenni precedenti, con la perdita secca dell’aggancio organico con la realtà; una perdita che, in generale, non sarà più recuperata. È vero che la repressione dittatoriale colpisce anche le altre forze politiche, tuttavia si può affermare, senza alcun dubbio, che il movimento anarchico è quello che subisce, più di qualsiasi altra formazione antifascista, gli effetti devastanti dell’esilio politico. Sotto il profilo delle vicende strettamente biografiche (personali e pubbliche), si deve, infatti, sottolineare che molti militanti saranno bersagliati dalla repressione governativa anche nei Paesi che avevano concesso loro l’iniziale ospitalità, con il risultato di fiaccare in modo pesante le energie del movimento, spese soprattutto nell’opera di difesa politica e giudiziaria. Anche in questo caso, le voci esaminate testimoniano le drammatiche vicende di tali excursus, quasi sempre del tutto eccezionali rispetto a quelli offerti dalla maggior parte del fuoriuscitismo italiano. La mancanza di punti di riferimento internazionali – se escludiamo gli aiuti della vasta comunità libertaria italo-americana del Nord America, la Cnt spagnola durante la prima fase della Guerra Civile e la debole Ait berlinese, sostenuta soprattutto dalle piccole formazioni anarcosindacaliste svedesi e olandesi – impedisce agli anarchici di costituire robuste reti di appoggio che non siano quelle prodotte dal consueto volontarismo solidale.

Contributo alla lotta antifascista

A questo punto corre l’obbligo di ricordare l’enorme contributo degli anarchici italiani alla lotta antifascista combattuta in terra iberica. Sono quasi 250 – il 13% circa sul totale dei biografati – i militanti che sono accorsi nel 1936 a difendere la repubblica dall’assalto nazifascista e, ancor più, ad aiutare i compagni spagnoli nello sforzo titanico di costruzione di una nuova società: ci riferiamo, naturalmente, a quella Spagna rivoluzionaria descritta da Orwell nel suo Omaggio alla Catalogna. Gli anarchici nel complesso delle forze di volontari italiani che combatterono durante la Guerra civile sono secondi e di poco solo ai comunisti. Le ricerche storiografiche hanno individuato in poco più di 4.000 gli italiani accorsi in Spagna, di questi circa un migliaio sono comunisti mentre le cifre riguardanti gli anarchici parlano di 700/800 volontari. In rapporto alla propria consistenza numerica, lo sforzo esercitato in Spagna dagli anarchici italiani con la perdita di molte vite si è rivelato, per alcuni aspetti, esiziale. Ciò spiega perché gli anarchici non abbiano avuto una parte determinante nella Resistenza: il movimento, per molti aspetti, era esangue. Tuttavia non sono nemmeno pochi – poco più di 200, pari al 10,6% delle biografie – coloro che hanno combattuto, anche con formazioni proprie, contro i nazifascisti.
Venendo ora alla dislocazione geografica del movimento anarchico, che ratifica in un certo senso gli snodi principali della sua storia collettiva, anche qui abbiamo una conferma di alcune precedenti acquisizioni storiografiche perché si nota, senza ombra di dubbio, che la stragrande maggioranza del «popolo» anarchico si colloca nell’Italia centrosettentrionale. Spicca, in primo luogo, la Toscana con il 31% dei biografati, seguita dall’Emilia Romagna con il 15,5%, la Lombardia con il 10%, le Marche con il 7,3%, il Lazio con il 5,8%, il Veneto con il 4,7%, il Piemonte con il 4,6% e finalmente la Sicilia con il 4,2%; le altre regioni presentano un numero di militanti inferiore (considerando il medesimo periodo temporale, si tratta di una distribuzione che non è molto lontana da quella registrata dal partito socialista). Questi dati fotografano una situazione stabilitasi fin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento (e protrattasi fino al Secondo dopoguerra), quando il movimento, dopo un’iniziale espansione nelle regioni meridionali, si era concentrato nella fascia centrale e centrosettentrionale della penisola.
Il parziale spostamento del movimento dal Sud al Centro-Nord, avvenuto dopo gli anni Settanta dell’Ottocento, riflette indubbiamente il suo tasso di radicamento nel tessuto sociale ed economico del Paese, nel senso che il mutamento va letto considerando il contesto italiano della lotta antagonista fra capitale e lavoro. Certamente gli anarchici non rappresentano la punta più avanzata del movimento operaio in termini di stretto sviluppo industriale (se si considera, cioè, il classico triangolo Lombardia-Piemonte-Liguria). Però, sotto questo riguardo, non sono neppure legati a una situazione di arretratezza, come è documentato dalla loro parziale metamorfosi nel sindacalismo rivoluzionario. Sono molte le voci biografiche dedicate a personaggi che hanno avuto anche posti di notevole responsabilità nel movimento sindacale (Camere del Lavoro, Leghe di Resistenza, Federazioni di categoria). Va ribadita perciò un’acquisizione che deve essere definitivamente fatta propria dalla storiografia: fino all’avvento del fascismo, il movimento anarchico è parte organica e attiva del movimento operaio e, più in generale, di tutto il movimento dei lavoratori. Lo è non soltanto sotto il profilo dell’azione politica, ma anche sotto quello della composizione sociale.

Clamorosa smentita

E veniamo, così, ad un altro elemento importante emerso dalla ricerca. I dati che essa offre smentiscono clamorosamente alcuni precedenti stereotipi storiografici relativi all’ambito sociologico. Se rammentiamo, infatti, ciò che è stato asserito quasi sempre sull’argomento – secondo cui il movimento anarchico era composto, per la maggior parte, dai ceti artigianali e piccolo borghesi (di qui la connessa – e sconnessa – idea della sua arretratezza politica, sociale e culturale) – si deve invece costatare che la stragrande maggioranza dei suoi aderenti proveniva dalle fasce sociali più basse. Si tratta, cioè, di un movimento autenticamente popolare, qualora si consideri che esso conta il 64,75% di lavoratori salariati, il 25% di lavoratori autonomi e poco più dell’8% di liberi professionisti. In realtà queste macro aggregazioni ci dicono ancora poco. Molto più significativo il fatto che circa il 32% del campione preso in esame è composto da operai del comparto industriale ed estrattivo, con una considerevole presenza di metallurgici e di minatori; più del 9% da edili, mentre nell’ambito artigianale abbondano calzolai (6%) e falegnami (3,6%). Altrettanto significativa è la scarsa presenza di lavoratori della terra, con solo il 3,5% di braccianti, segno di una quasi totale egemonia socialista nell’area del bracciantato classico, della preponderanza cattolica nell’ambito degli obbligati e di quella repubblicana tra i mezzadri. Nonostante la diffusione del sindacalismo rivoluzionario in alcune aree agricole padane (piacentino, ferrarese, mantovano, parmense, basso modenese ecc.) si può affermare che gli organizzati abbiano più recepito il messaggio dell’azione diretta tout court che non accolto quello di una società libertaria. Il debole radicamento nelle campagne evidenzia il volto urbano dell’anarchismo, la sua geografia dei mestieri cittadini o che comunque gravitano sulla città oppure la sua dislocazione in zone periferiche ma ad alta concentrazione operaia e del tutto interne allo sviluppo capitalistico (come i centri minerari). Sarebbe tuttavia limitativo cercare di individuare un gruppo sociale o specifiche categorie di lavoratori alla base del movimento anarchico italiano. Per fare un esempio relativo alla Toscana, la regione più ricca di umori libertari, l’anarchismo si attesta solidamente tra i cavatori di Carrara, i minatori del Valdarno, i siderurgici di Piombino, i portuali e i lavoratori dei cantieri di Livorno, i ceramisti, i vetrai, i ferrovieri, i muratori e i «pigionali» di Pisa, i muratori di Firenze. In città come Milano, dove era concentrata gran parte dell’attività editoriale nazionale, consistente ad esempio è il gruppo dei tipografi, mentre ad Ancona assume rilievo la presenza di scaricatori di porto. Questi elementi, puntualmente ricavabili dalle biografie, fanno definitivamente giustizia di tutte le affermazioni categoriche volte a trasformare, in un senso o nell’altro, l’universo libertario in una sorta di «idealtipo» ad uso di letture tutte politiche.

Armando Borghi

Pochi i borghesi e i benestanti

Rispetto all’intera massa che viene qui biografata, sono pochi gli individui provenienti dai ceti borghesi e benestanti, come pochi, del resto, sono coloro che hanno raggiunto la laurea (3,4%) o hanno frequentato le scuole liceali o altre scuole superiori equivalenti (5,3%). La ricerca ha messo bene in evidenza altresì come gli anarchici pongano un’attenzione particolare alla formazione culturale propria e dei lavoratori cercando di colmare autodidatticamente le lacune derivate da un’istruzione che per la gran parte dei biografati si ferma al ciclo scolastico delle scuole elementari. Il militante autodidatta è protagonista di molte iniziative editoriali, che, benché spesso di breve durata a causa della scarsità dei mezzi o della repressione poliziesca, hanno ricoperto un ruolo rilevante sia nel campo propriamente giornalistico sia in quello più ampio della formazione culturale delle avanguardie politiche e sindacali delle classi subalterne italiane tra Otto e Novecento.
Altri elementi, di più difficile identificazione e con minore possibilità di comparazione, si possono comunque desumere da una lettura complessiva dell’opera. Tra questi, il livello di integrazione degli anarchici nell’ambiente sociale che li circonda traspare dall’analisi della struttura stessa delle famiglie, nonché dai tramiti e dall’età di approccio alle idee libertarie. Prendono così forma le «comunità» proletarie urbane e dei borghi, la cui ossatura è formata dal variegato associazionismo operaio e laico, di cui gli anarchici sono parte integrante; «comunità» con una forte carica «antagonista» e una prassi solidale e ribelle che negli anni ha costituito uno dei tratti più caratteristici di questa «contro società» in divenire contrapposta, con i suoi riti laici e modelli comportamentali etico morali, a quella borghese. E in questo contesto la scelta anarchica è per i più non una fase di ribellione giovanile ma un’opzione politica ed esistenziale durevole. Nella presente opera, tuttavia, vengono prese in considerazione anche figure che hanno legato all’anarchismo solo una fase della propria vita, o la cui presenza può essere stata costante ma sempre sottotono, e questo spiega perché molte biografie siano brevi, per non dire scarne. Abbiamo però voluto inserirle ugualmente perché, considerate complessivamente, forniscono il senso di una rivisitazione storiografica che si è mossa deliberatamente anche verso lo scavo archivistico e bibliografico dell’elemento locale e particolare al fine di fornire una rappresentazione a «tutto tondo».

Irriducibile federalismo

Proprio quest’ultima considerazione ci introduce all’ultimo aspetto preso in esame, nel senso che l’analisi della dislocazione geografica ci rivela pure un carattere «forte» dell’anarchismo: il suo fondamentale e irriducibile federalismo. Il movimento anarchico italiano, ancor più di quello francese e di quello spagnolo, è, infatti, costituito da una base al plurale, nel senso che ogni gruppo e ogni federazione, e persino singoli militanti, tendono a fare politicamente in proprio, dando vita ad una serie svariatissima di iniziative, specialmente di carattere editoriale e culturale (stampa di periodici e numeri unici e pubblicazione, in proprio, di testi anarchici classici; la diffusione regionale della produzione cartacea, ripropone la distribuzione geografica del movimento: è maggiormente presente, ancora una volta, in Toscana, Emilia Romagna, Marche e Lombardia). Sono queste diversificate realtà che costellano e formano la sua azione complessiva. La molteplicità dell’azione anarchica è del tutto consona alla sua diversificazione ideologica, nel senso che nel movimento esistono e convivono, fin dall’inizio – anche se a volte in modo rissoso – differenti tendenze ideali e politiche: comunista, socialista, mutualista, individualista, sindacalista, antimilitarista, educazionista, pacifista; oltre alla costante divisione fra organizzatori e antiorganizzatori. Si delinea, insomma, una struttura decentrata, costituita da innumerevoli punti attivi nei quali è possibile rintracciare l’esistenza di questo irriducibile pluralismo fondato sulla pratica dell’«azione diretta» e sulla preminenza assegnata all’opera di «apostolato» espressa con la propaganda orale e scritta.
Emerge, in tal modo, l’antropologia dell’anarchico: ribelle e orgoglioso del proprio sapere e della propria scelta politica. Un elemento quest’ultimo che, senza nulla togliere ai militanti di base di altri partiti e organizzazioni, rende sempre più significativo un approccio volto a cogliere la specificità dei singoli anarchici attraverso le loro biografie nel tentativo di intessere le storie individuali nella più vasta trama della vicenda collettiva di ampi settori della società italiana.

Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso