rivista anarchica
anno 34 n. 297
marzo 2004


Parmalat & Co.

Operazioni truccate
di Antonio Cardella

 

Il recente «caso» Parmalat mostra il vero volto di un sistema malato.

Adesso non sanno come rivoltare la ciambella senza scottarsi le dita. Certo, Tanzi è un malversatore, le sue operazioni sono state vere e proprie truffe e finirà col pagarne il conto. Ma il nocciolo della questione è di ben altra natura e riguarda il quesito che tutti ci siamo posti: come un’impresa che fattura migliaia di miliardi l’anno possa impunemente raggirare i propri investitori, gli azionisti e i mercati nazionali ed esteri senza trovare sulla propria strada un ostacolo qualsiasi, un incidente di percorso che potesse allertare gli organi di controllo interno, in prima istanza, e poi i successivi.
Nella realtà delle cose, l’ipotesi della truffa pura e semplice non regge e non regge perché nel bilancio societario vi era un’anomalia visibilissima, che perdurava negli anni e di cui persino il più ingenuo e sprovveduto revisore dei conti avrebbe dovuto accorgersi, per non parlare della Consob che controlla le società quotate in borsa: ed è, questa anomalia, l’eccesso di liquidità a fronte di un indebitamento di proporzioni allarmanti. Non ci vengano, quindi, a raccontare storie: l’ampiezza delle collusioni che hanno reso possibile il crac finisce di essere episodico e assume i contorni di un vero e proprio sistema, in virtù del quale il «prodotto Italia» riesce a barcamenarsi e senza il quale l’intera baracca crollerebbe.
Qui non si tratta di dire che non bisogna fare di ogni erba un fascio, che vi sono imprenditori buoni e imprenditori cattivi. Vi è un tessuto economico-finanziario che consente solo operazioni truccate e che, alla prova dei fatti, quando i tempi si fanno duri e non si può più contare sulla svalutazione monetaria o sugli indebiti, clientelari sostegni dello stato, mostra il suo volto vero di sistema malato, incapace di elaborare strategie di sviluppo che siano basate su letture corrette della realtà e su interventi non truccati per operare riconversioni vere, basate sulla ricerca e non solamente sull’espulsione di forza lavoro.

Fibrillazioni di mercato

La riprova di quanto diciamo sta nelle fibrillazioni che caratterizzano il mercato, oggi che sembra più difficile far finta di niente, che revisori, collegi sindacali e agenzie di controllo sanno di essere nel mirino degli inquirenti. Le banche, intanto, con in testa Capitalia, la banca d’affari Morgan Stanley, Banca Intesa – nel cui gruppo figura Nextra, la società di gestione del risparmio – la Deutsche Bank e l’agenzia di rating Standard & Poor’s. E la lista pare debba allungarsi di molto.
Poi ci sono le imprese quotate in borsa: si sa già quasi tutto della Finmatica. Anche qui occultamento di perdite nel bilancio societario e indebitamento massiccio nei confronti del mondo bancario, al quale era affidato il posizionamento di bond per 55 milioni di euro, poi ritirato. Ma la Consob si è allertata (meglio tardi che mai), allarmata dai bilanci di molte altre imprese, tra le quali Arcuati, Tecnodiffusione, Necchi, Stayer, Olcese, Opengate e così via.
In questo quadro sconsolante, patetico appare il conflitto tra il Tesoro e Bankitalia. Nessuno dimentica che, all’inizio di questa legislatura, il governatore Fazio fu prodigo di lodi e di incitamenti nei riguardi della conduzione creativa dell’economia italiana da parte del ministro Tremonti, anche se era palese che il demenziale ricorso al rastrellamento delle risorse, reperite con misure d’accattonaggio e finalizzato a tappare i buchi delle spese correnti, avrebbe fatto sentire i propri effetti nel medio periodo, quando cioè si sarebbe dovuto affrontare il problema dei finanziamenti, sia pure di mero mantenimento, ai vari comparti della sanità, della scuola, degli enti locali e della gestione ordinaria dei principali servizi pubblici. Oggi che quasi tutti i comparti della vita pubblica del paese sono in agitazione, perché non si riesce a tener fede neppure a quel minimo che era stato contrattualizzato (vedi la situazione degli autoferrotranvieri), l’ineffabile Fazio si ritira nel suo angolo dorato di Palazzo Koch dove, in solitudine, alimenta i propri rancori per non aver ottenuto da Berlusconi quanto probabilmente gli era stato assicurato: un posto di rilievo nella compagine di governo.

L’etica è un optional

Ma fermiamoci per un momento sulla deposizione del governatore di Bankitalia alla commissione Finanze e attività produttive di Camera e Senato, nel corso della quale Fazio ha difeso il suo operato, che, a suo dire, non avrebbe potuto legalmente andare al di là della salvaguardia dell’equilibrio complessivo del sistema monetario e creditizio. È vero, queste sono le sue prerogative. Dove sbaglia è quando sostiene che, in fondo, per i risparmiatori italiani che hanno investito in Parmalat, il danno medio è di 10 mila euro pro capite, il che non è certo la fine del mondo. L’affermazione è sbagliata per un duplice ordine di motivi. Il primo è che, in presenza di una truffa dalla quale nessuno, imprenditori e controllori di ogni livello, può chiamarsi fuori, non è lecito minimizzare il danno per le vittime, fossero pure danneggiate di un euro per ciascuna: ma l’etica è un optional raramente montato nella macchina degli affari e della politica. Il secondo motivo è che vi sono angoli oscuri nella politica delle banche che il governatore avrebbe dovuto denunciare, insieme alla carenza di una normativa che dovrebbe rischiararli: ed è, questo secondo motivo, la discrezionalità con la quale il sistema bancario gestisce il mercato dei titoli finanziari ad esso affidato. In un regime di normalità, i titoli azionari, le obbligazioni, i bond sono emessi dalle imprese per rastrellare sul mercato i mezzi finanziari per alimentare la loro operatività. Le banche si pongono come intermediarie dell’operazione, trattenendo una commissione e versando il ricavato rimanente all’impresa titolare del titolo. L’anomalia – perfettamente legale – inizia nel momento in cui lo stesso istituto bancario finanzia in proprio l’impresa, e poi della stessa impresa cura la collocazione sul mercato dei titoli azionari. Può capitare, così come è capitato per il caso Cirio, che la banca, sovraesposta di suo, utilizzi i titoli per rientrare di un credito che appaia di difficile recupero. Spinge così i suoi clienti meno provveduti ad acquistarli e contabilizza il ricavato a riduzione della propria esposizione. A questo punto appare chiaro che tutti fanno il loro mestiere, per truffaldino che sia, tranne gli allocchi che hanno acquistato i titoli. Ebbene, non esiste sistema di controllo che possa mettere al riparo da questi trucchi il povero investitore. Tutto legale. Tutto normale per il governatore di Bankitalia, il quale non trova di meglio che ironizzare su quei poveri coglioni – ma sono statisticamente pochi! – che ci hanno rimesso tutti i risparmi.
Brutte storie, che concorrono tutte a tracciare un profilo preciso del capitalismo in generale e di quello italiano in particolare, ed a rilevare come non è con qualche leggina che si può normalizzare un regime così sbilanciato a favore dei ricchi e dei potenti. E così feroce da seppellire vivi, sotto montagne di cartaccia acquistata a caro prezzo, i poveri e gli indifesi.
Così è in Italia, così è nell’intero contesto dell’Occidente industrializzato.
Io resto quel pessimista che pensa che senza una robusta spallata – ma, allo stato attuale delle cose, non si vede chi possa darla – il capitalismo, nelle sue molteplici articolazioni, è destinato a vivacchiare ancora per parecchio. Insisto nel termine «vivacchiare» perché non si può all’infinito rappezzare un tessuto già corroso dalle tarme.

Paesaggio da giungla

Non sono solo io che mi consolo con questo vaticinio infausto. Molto più autorevolmente di me lo sostengono studiosi illustri e alcuni di questi già molto vicini alla stessa amministrazione americana attualmente sugli scudi. È appena uscito un libro, The Price Loyalty, scritto in collaborazione con Ron Suskind dall’ex ministro del Tesoro americano Paul O’Neill, licenziato su due piedi dall’accoppiata Bush-Cheney per essersi opposto alla politica fiscale dell’attuale amministrazione USA. In questo libro, a parte i veleni che sono tipici di compari che spattano, l’economista americano descrive il paesaggio da giungla che caratterizza la lotta politica americana, all’interno stesso del blocco conservatore, nella quale le grandi concentrazioni economiche finiscono con l’eludere non solo i buoni propositi di una dinamica economica meno squilibrata, ma le stesse norme che renderebbero possibile la loro sopravvivenza nel tempo. Così nessuno si cura di spiegare a se stesso e alla gente come una nazione che ha un deficit federale, che nel 2003 ha superato i 500 miliardi di dollari e un saldo commerciale altrettanto disastroso, possa impunemente azzerare, o quasi, le tasse a carico di cittadini e imprese, mentre restano insoluti i problemi della disoccupazione della sanità e dell’impoverimento progressivo delle fasce meno protette di popolazione. La risposta al quesito da parte della sullodata accoppiata, secondo O’Neill, fu soltanto che quel che più contava era vincere le elezioni di medio termine: tutto il resto contava poco. Il che, in parole povere, valeva a dire che, pur di conseguire un immediato risultato elettorale, era lecito far terra bruciata e lasciare che i cocci fossero poi raccolti dalle generazioni future.
È chiaro che una logica simile non può reggere a lungo.
Resta da vedere quanto sangue costerà all’umanità intera il percorrerne la parabola discendente.

Antonio Cardella