rivista anarchica
anno 34 n. 299
maggio 2004


dossier A

Strategie di resistenze
di Pia Covre

 

Le riflessioni del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute nell’esposizione della sua portavoce.

Certo, «resistenze» – al Plurale – può restituire al nostro presente la complessità di un movimento che l’agiografia ufficiale ha oggettivamente appiattito e impoverito negli ultimi decenni ma, più obiettivamente, è per me, portavoce del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, l’occasione per spiegare che cosa il nostro Comitato si è proposto sin dalla sua nascita nell’82. In questa ricostruzione ritroviamo tutte le categorie del pensiero politico occidentale e le luci e le ombre di una pratica politica che per molti versi è stata ed è di resistenza. A viverla, qualche volta a promuoverla, è quella moltitudine di donne prostitute alle quali ci sentiamo vicine.

Realtà prostituzionale composita

Noi prostitute dobbiamo ogni giorno misurarci con lo Stato, meglio con i suoi apparati ideologici e di repressione: leggi, circolari che interpretano le leggi, codici e codicilli e poi prefetti, sindaci, assessori, poliziotti, preti, giornalisti, pubblica opinione. Un politico di destra chiama questo mondo il teatrino della politica salvo poi candidarsi a suo regista e burattinaio. Più correttamente e più seriamente il filosofo Debord ha parlato in tempi non sospetti di «società dello spettacolo», metafora viva per dire il pieno dispiegarsi della società borghese, il suo pervenire a maturità sul piano simbolico, economico e politico.
Questo stato, è utile ribadirlo, è liberaldemocratico, rappresentativo e di diritto ed è nato dall’unità d’azione fra tutte le forze antifasciste, indipendentemente dalla loro base di classe.
È stata una peculiarità della nostra resistenza, infatti, l’aver messo in secondo piano l’aspetto di classe della lotta contro il nazifascismo per esaltare invece l’aspetto nazionale.
Questa osservazione ci spinge a definire la qualità del soggetto in cui ci riconosciamo. È l’unico modo per evitare i tanti luoghi comuni sulla prostituzione, soprattutto la sua riduzione entro lo spazio della marginalizzazione e della devianza.
Qui da noi in Italia la realtà prostituzionale è composita: ci sono le prostitute autoctone il cui profilo di sex worker le avvicina alle nuove figure del lavoro postfordista e ci sono le prostitute immigrate, tendenzialmente in calo le prime (coprono a stento il 5% della prostituzione di strada), in costante aumento le seconde (25.000). Immigrate e migranti, sempre clandestine, giovani e giovanissime, per queste ultime l’Europa e l’Italia si presentano come una fortezza inespugnabile con le sue frontiere di ferro e di cristallo e la sua legislazione speciale (il sistema Schengen e la legge 40) che abolisce di fatto il diritto d’asilo.
Per costoro la categoria di sex worker è riduttiva perché altre variabili entrano in gioco, in primis la questione dei diritti.
Quando la prostituta è la donna migrante, non è sufficiente l’analisi del contenuto del suo lavoro, del suo spazio, del suo tempo, della forma della sua retribuzione, della sua identità professionale, del mercato entro cui viene a collocarsi.
Sono anni che il nostro Comitato tenta di proporre un diverso paradigma concettuale per dislocare l’analisi sul terreno minato del rapporto con lo Stato. Le osservazioni che seguono sono punti irrinunciabili della nostra riflessione.

Fitta rete di controllo

La prostituta migrante non trova rappresentazione alcuna nello Stato: bollata come clandestina, per lo Stato e la sua amministrazione non esiste. Questa condizione non contraddice la sua realtà lavorativa: è sulla strada, esposta e visibile e contata come tale. L’appartenenza alla società – appartenenza che non è inclusione – deriva alla prostituta immigrante dalla sua esposizione. La sua appartenenza suscita inquietudine e preoccupazione. È questo il motivo per cui viene ricondotta entro una fitta rete di controllo e di repressione. È la stessa situazione in cui sono immersi i profughi, gli apolidi, tutti gli immigrati extraeuropei ai quali non vengono riconosciuti i diritti degli autoctoni e per i quali vale una sola legge: essere fuori legge.
• Extra legem: questa condizione è prodotta e voluta dal potere sovrano. È lo Stato a decidere la messa al bando di questa figura di migrante per la quale solo la categoria di “nuda vita” è adeguata. Infatti la vita senza diritti è nuda perché solamente il godimento dei diritti e in – primo luogo quello di cittadinanza – offre la garanzia di inclusione in una qualche comunità entro cui la vita prende forma. Parlandoci dello schiavo, Aristotele sottolinea che un suo tratto peculiare è il difetto di parola, la sua incapacità o impossibilità a dire e a comunicare. Nell’agorà non ci sono schiavi ma solo cittadini ai quali il potere sovrano riconosce intelletto e logos. Lo schiavo invece è muto, irrapresentabile ed invisibile: semplice corpo. Il corpo, cui la nuda vita è consegnata è così sottratto alla presa del diritto e reso disponibile ad ogni forma di violenza, di manipolazione, di mutilazione, di segregazione, di negazione. Corpo sacro, dunque, nel significato che Agamben assegna a questo aggettivo. L’insignificanza della nuda vita procede dalla sanzione legale dell’esclusione.
• Paradossalmente nella situazione di solitudine e di abiezione in cui versa, la prostituta migrante finisce per consegnarsi al potere sovrano alla sua convocazione, alla sua sentenza; si tratta di una disponibilità senza contropartita: denuncia il tuo sfruttatore, abbandona la strada, redimiti e si vedrà.
• È possibile sciogliere diversamente questo nodo gordiano di nuda vita e sovranità? È pensabile liberare la prostituta migrante aprendole una qualche via al di là del suo abbandono alla legge? A quale pensiero politico fare appello per cercare ed eventualmente trovare una risposta che sia all’altezza della situazione? La grande costellazione concettuale che da Aristotele arriva fino a Marx non è granché utile al nostro scopo perché finalizzata a teorizzare un potere sovrano che decide del bando, dell’esclusione come dell’inclusione. Per questo motivo le teorie politiche classiche sono teorie della relazione: suddito-Stato; società civile-Stato; classe-Stato. Noi invece avvertiamo l’urgenza di un pensiero impolitico che pensi ad una politica sciolta da ogni bando e di una pratica politica di rottura della relazione. All’abbandono alla legge che, come chiarisce il racconto di Kafka, è sempre un esporsi impotente davanti ad essa, vorremo opporre un diverso e più salutare contegno: la defezione, l’esodo.
• Negli anni ’70 l’Italia è stato il laboratorio eccezionale di pratiche politiche sovversive spesso incomunicabili tra loro. Da una parte la galassia variegata dei gruppi di estrema sinistra che ha cercato il rapporto con lo Stato in un’ottica neoleninista e neoresitenziale di confronto-scontro diretto fino al suo esito terroristico; dall’altra parte il movimento delle donne, decentrato privo di leaders e di autorità centrali. Non ammaliato dal fascino del potere sovrano né afflitto dal risentimento e dall’odio nei suoi confronti, il movimento delle donne è stato capace di strappargli divorzio e aborto assistito nonché un generale avanzamento sul terreno della legislazione sul lavoro. La sua pratica ha evitato il furore giacobino della P38 come l’opportunismo parlamentare, ossia la tentazione a costituirsi in rappresentanza politica di interessi sociali. La nostra tesi è che in quegli anni difficili e fecondi solo il movimento delle donne ha riproposto in termini nuovi la questione della democrazia: come far sì che lo Stato si limiti a sanzionare l’universalità di ciò che un’esperienza propriamente politica (nella fattispecie quella delle donne) rende possibile, senza che questa esperienza miri a sostituirsi allo Stato. La distanza tra questa pratica politica e lo Stato è comunque incolmabile: la democrazia misura tale distanza.

Carattere di universalità

Il nostro Comitato si batte, dobbiamo ricordarlo, per i diritti civili delle donne che si prostituiscono, immigrate ed autoctone. Pensiamo di restare fedeli alla lotta delle donne restituendo alla categoria di legge l’imprescindibile carattere di universalità che le spetta. Non crediamo che una legge sia tale solo perché chi la promulga o la convalida ha una forza più o meno costituzionalmente legittimata per renderla cogente. La legge sul divorzio, quella sull’aborto, lo statuto dei lavoratori e delle lavoratrici hanno avuto un carattere di universalità tale da trascendere l’autorità di questo o quell’esecutivo. La stessa valutazione diamo della legge Merlin che ha cancellato la vergogna di Stato delle case chiuse. Oggi grazie a questa legge le autoctone che scelgono di prostituirsi possono farlo, almeno formalmente. Il nostro Comitato difende questo spazio di libertà contro i tentativi ricorrenti di azzerare i diritti acquisiti. Ma bisogna andare oltre: la depenalizzazione deve essere autentica, tale da garantire il libero scambio di sesso con denaro quando i soggetti sono consenzienti. E poi tutti devono essere uguali di fronte la legge e la legge deve essere uguale per tutti. Le donne migranti che scelgono di prostituirsi e scelgono di lavorare nel nostro paese devono poterlo fare con gli stessi diritti delle italiane.

Pia Covre

Bibliografia

Debord Guy, Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco Edizioni, 1990
Agamben Giorgio, Homo Sacer, Einaudi, Torino 1995
Aristotele, Politica, editori Laterza, 1996
Ravera C., Breve storia del movimento femminile in Italia, Editori Riuniti, Roma 1978
Braidotti Rosy, Dissonanze. Le donne e la filosofa contemporanea, La Tartaruga, Milano 1994
Derive Approdi, Settantasette, Castelvecchi, Roma 1997
Kafka F., Il Processo, Thema Edizioni, 1992

 

Giungla del sesso in Parlamento
Le più recenti proposte di legge sulla prostituzione

Non ci si muove facilmente nell’intricata selva di proposte per la regolamentazione dell’esercizio della prostituzione in Italia. Si parte da una situazione di fatto: l’applicazione della cosiddetta legge Merlin (20 febbraio 1958, n.75) che ha chiuso le case di tolleranza vietando l’esercizio della prostituzione in luoghi chiusi, e che penalizza le prostitute che lavorano all’aperto ritenendo illegale l’adescamento; la legge Merlin ha comunque impedito l’introduzione di misure come la schedatura obbligatoria e il trattamento sanitario obbligatorio, che invece rispuntano fuori in recenti proposte di legge.
Tralasciamo la descrizione della famosa proposta Pittelli (Forza Italia), approvata dal Consiglio dei ministri (dic. 2002) e quindi giunta alla discussione alla Camera (Commissione giustizia) come A/C 3826 a firma Fini, Bossi, Prestigiacomo, Castelli, Pisanu, Tremonti, della quale parla Pia Covre nel suo articolo.
Consideriamo invece le proposte precedenti, fonte di informazioni sulla mentalità dei “nostri” parlamentari. La protezione della salute del cliente, soggetto principe, è uno dei punti centrali di molte proposte di legge: la prostituta viene presentata come portatrice di pericolosità sociale in quanto possibile veicolo di infezione per clienti forse inesperti, frettolosi, o cretini. Inutile dire quindi che sono le proposte del centrodestra italiano che insistono maggiormente su questo punto: la proposta C.2359 (Lega Nord) prevedeva la schedatura sanitaria obbligatoria per le persone sulle quali esistesse “il fondato motivo che esercitino la prostituzione”. Il trattamento sanitario qui si prevede obbligatorio anche per il cliente ma solo se colto “sulla strada”.
La clausola del TSO è comune a molte proposte di legge, come questa, che prevedono la liceità dell’esercizio della prostituzione ma solo in luoghi chiusi e “non esposti al pubblico”. Così la proposta Mussolini C.407 prevede l’esercizio della prostituzione in luoghi privati, e con schedatura obbligatoria. Anche la proposta Buontempo (AN) C.1136 prevedeva che le persone esercitanti la prostituzione tenessero con diligenza una scheda sanitaria, esigibile dal cliente, ove fossero annotati tutti gli accertamenti previsti a scadenza regolare dalle autorità sanitarie. Non solo, la pena prevista per chi non accetti il TSO, cioè nel caso gli venisse riconosciuta una malattia sessuale trasmissibile, è altissima: sino a sei anni! Più di quella prevista per chi non regolarizza il “mestiere”. Segno che il ...diritto alla salute del cliente viene considerata da AN un bene tra i più preziosi da preservare, al contrario di altri diritti. Non è previsto ad esempio che i soggetti possano pubblicizzare la propria attività, e che possano esercitare in luoghi neanche “visibili”. La prostituzione deve essere: invisibile, pulita, numerata...e deve pagare le tasse (come “lavoratori autonomi”).
Quanto alla libertà di lavorare di questi “lavoratori autonomi”, al chiuso e nella invisibilità di case (“condomini d’accordo”, come anche previsto nell’ultimo DDL), molti progetti prevedono comunque che vengano pagate le tasse sul reddito.... La proposta Buontempo prevedeva il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, la proposta Mussolini prevedeva la pubblicità solo a mezzo stampa (?). Riguardo alla proibizione del “passeggio”, segnaliamo la verbosità del progetto Foti, C.1355 (AN), che vietava “qualsiasi atto di libertinaggio prodromico alla prostituzione”. Anche la proposta Valpiana vieta nella sua proposta forme di pubblicità “contrarie alla pubblica decenza” (?).
I politici nostrani insomma vogliono che un soggetto paghi le tasse ma viva recluso. Una specie di via di mezzo ipocrita con altre leggi più permissive che hanno introdotto la figura di “sex worker”, in Olanda e Germania. Insomma, comunque la si rigiri, la storia di quest’ultimo disegno di legge sulla prostituzione è affiancata da progetti di legge innumerevoli e fatti a misura dei clienti di varia appartenenza politica. Tra questi clienti anche le associazioni del terzo settore che, secondo vari progetti, avrebbero dovuto occuparsi di recuperare i soggetti in questione: si fa dal “settore no profit” della proposta C.386 Volontè-Buttiglione (UDC), alle associazioni del volontariato sociale del progetto Belillo C.2385. È ovvio che anche il “recupero” va gestito come un mercato possibile fonte di guadagno. In un caso, il parlamentare si spinge sino a chiedere che vengano rimosse la “cause di carattere psicologico” che inducono le persone a prostituirsi (C.1614, Soda, DS).
Solo in alcuni casi i progetti citano, come lecitamente presente nei momenti in cui le comunità locali dovranno decidere ad esempio dei luoghi della prostituzione, le prostitute: il C.222 presentato da L. Zanella, la proposta Turco-Finocchiaro C.2150, la proposta K. Belillo C.2385, proposte quindi le cui relatrici sono donne.
Per quel che riguarda la definizione di “prostituzione”, abbiamo in questo caso anche una interessante “nuance” da segnalare tra le proposte C.2358 (relatrice la Valpiana) e C.2150 (Turco-Finocchiaro): la prima definisce: “fornire prestazioni sessuali dietro pagamento di un corrispettivo in denaro”, la seconda “mettere a disposizione di terze persone ed a fine di lucro il proprio corpo per il compimento di atti sessuali”. A voi un parere.

F.P.A.