rivista anarchica
anno 34 n. 299
maggio 2004


dibattito

Violenza e nonviolenza
di Paolo Soragna

 

Un contributo al dibattito in corso in gran parte della sinistra.

Questo scritto si propone di costituire un piccolo contributo al dibattito che si sta svolgendo in gran parte della sinistra radicale ed alternativa sui temi della violenza e della non violenza. Esso si presenta solamente come il punto di vista, la semplice opinione (anche per quanto riguarda le definizioni adottate), di una individualità che si riconosce, anche se non acriticamente, nel poderoso e variegato movimento che in questi anni ha posto all’ordine del giorno la costruzione di un mondo diverso dall’attuale, basato sulla libertà, la fratellanza, l’uguaglianza nelle relazioni tra tutti gli esseri umani e tra questi e la natura.
Non ha l’ambizione di essere “la Verità”, ma spera di comunicare altri spunti di riflessione e arricchire, quindi, il dibattito già in corso, così utile specialmente nell’attuale realtà che sembra dominata dal binomio guerra-terrorismo.

Significato della parola «violenza»

La «violenza» è il «violare» qualcosa o qualcuno, imporre, cioè, il proprio volere a chi, senza questa imposizione, non lo accetterebbe.
Tale imposizione e costrizione può avvenire mediante la forza fisica (costrizione fisica) o anche mediante altri mezzi, per esempio il ricatto, la menzogna, la promessa di un «premio» che poi, una volta ottenuto lo scopo che ci si era prefissati, non si elargirà più.
Lo scopo della violenza è quello di sottomettere l’altro, di utilizzarlo per i propri fini senza il suo consenso che deriva da una mente pienamente cosciente, di trasformarne la personalità, di opprimerlo, per soddisfare determinati interessi.
Da ciò deriva che tutte le forme di potere sono violenza, proprio perché chi esercita il potere impedisce a chi il potere lo subisce di esprimere in pienezza la sua personalità, di essere, quindi, libero.
Per esempio, il potere statale (potere politico) impedisce ai cittadini di autogestirsi senza delegare ad altri la cura dei propri interessi e costringe i cittadini stessi ad obbedire a delle leggi che possono essere, nel migliore dei casi, una ripetizione distorta di principi morali che ciascuno può trovare in se stesso, senza essere costretto a seguirli, oppure codici che possono arrivare addirittura alla schiavitù dei cittadini, come nel caso della leva militare e del servizio civile obbligatori.
Un altro esempio è il potere religioso (potere morale), che promette una vita beata futura a chi segue acriticamente i sui dogmi e la sua gerarchia, distorcendo anche gli insegnamenti di colui al quale si afferma di ispirarsi, per esempio Gesù Cristo nel caso della gerarchia ecclesiastica.
Infine, si può ricordare il potere capitalista (potere economico), che costringe le persone a vivere per lavorare, soddisfacendo in primo luogo tale potere, e non il contrario, impedendo a chi lavora di essere se stesso anche nel lavoro, non valorizzando la sua opera che, essendo opera di essere umano, non ha prezzo. Il lavoratore che non si piega a tale potere rischia di essere ancor più emarginato, vessato, sopraffatto (mobbing) dal potere stesso.
Si può, quindi, affermare che la violenza è presente dovunque esiste una gerarchia nella quale «chi sta sopra» opprime «chi sta sotto» impedendogli di essere pienamente se stesso.
Nel vasto panorama dei casi di violenza esiste anche una violenza che «a fin di bene» è esercitata da genitori nei confronti dei figli, quando, ad esempio, si costringe un figlio ad intraprendere la stessa professione del padre, mentre il figlio, avendo una personalità sua propria, può avere aspirazioni e interessi diversi.
È indubbio, comunque, che la violenza più eclatante è quella fisica, che offende la persona nella sua fisicità, nel suo corpo: per esempio l’aggressione, il ferimento, la tortura, lo stupro, ecc., fino ad arrivare al culmine della violenza fisica: l’uccisione, di cui la pena di morte costituisce la sua versione statale, cioè legale.
D’altra parte, si può notare che tutte le leggi dello Stato, ed anche tutto il suo apparato repressivo, nel corso della storia non hanno mai impedito e sradicato la violenza e, quindi, il suo culmine, l’uccisione.

Significato della parola «anarchia»

«Anarchia» significa assenza di governo.
Possiamo includere nella parola «governo» tutte le forme di potere esercitato dall’uomo sull’uomo. Anarchia significa, conseguentemente, forma di convivenza sociale basata sull’assenza di ogni forma di potere e, quindi, di oppressione che impedisce il libero sviluppo delle capacità e, quindi, della personalità di ogni individuo: in altre parole, assenza di violenza, completa libertà.
Ciò presuppone che i rapporti sociali (rapporti tra gli individui) nell’anarchia siano basati sul riconoscimento reciproco delle diversità e l’azione comune degli individui sia fondata su una coincidenza di interessi, valori, caratteri, ecc., che può essere anche non permanente: il libero accordo, su cui inevitabilmente si basano i rapporti personali in una società anarchica, presuppone il suo scioglimento ogni qualvolta uno dei contraenti non si riconosce più nell’accordo stesso.
Si può obbiettare che l’anarchia non è altro che una condizione di disordine della società, perché ogni individuo per sua natura è portato a salvaguardare il suo proprio interesse e non quello della collettività. Ma questo è innanzitutto il tratto peculiare delle nostre società, dove chi ha il potere lo esercita principalmente per i propri interessi e impedisce a chi il potere lo subisce di avere altri interessi e aspirazioni. Viceversa, lasciando le varie individualità libere dai lacci del potere esercitato o subito, si dà ad esse l’opportunità di potenziare le proprie capacità con la condivisione delle personalità che si attua con la libera unione ed associazione.

Confronto tra «violenza» ed «anarchia»

Da tutto ciò si deduce che i termini «violenza» ed «anarchia» sono tra loro antitetici e, quindi, inconciliabili, perché l’una presuppone la mancanza dell’altra e viceversa.
Per esempio, la violenza del potere statale (politico) trova la sua antitesi nel libero accordo tra le individualità. In questo caso, le decisioni prese a maggioranza in condizioni di democrazia diretta, cioè con la partecipazione di tutte le individualità, non vincolano in nessun modo chi non accetta tali decisioni, che può sperimentale da solo, se vuole, se il suo punto di vista è giusto o si scontra contraddittoriamente con la realtà oggettiva.
Anche il potere religioso (morale) esercitato da una gerarchia verrebbe meno in una società anarchica, in quanto ciascuna individualità potrebbe adorare Dio «in Spirito e Verità» (Giovanni 4, 23) nella sua infinita purezza, senza condizionamenti, unendosi con autenticità con chi condivide questa sua fede e vivendo in accordo con i principi morali che trova in se stesso.
Infine, il potere capitalista (economico) sfruttatore verrebbe sostituito dall’associazione dei produttori legati tra loro e con i consumatori (di prodotti materiali, servizi, prodotti spirituali, cioè artistici, ecc.) da vincoli non gerarchici e autoritari, ma ispirati al principio del mutuo appoggio, dove ciascuno sia realmente se stesso, cioè possa esprimere veramente e liberamente le proprie capacità, eventualmente con l’aiuto degli altri.
In ogni caso, la violenza si basa su rapporti gerarchici, cioè autoritari, incentrati sulla mancanza di un rispetto pieno della personalità di ciascuno, mentre l’anarchia, al contrario, cancellando ogni forma di oppressione e sfruttamento, si basa sul pieno, cioè libero, sviluppo di ciascuna persona nel rispetto e nel concorso di ogni individualità.
Se la violenza è in palese contraddizione con l’anarchia, occorre, tuttavia, distinguere tra l’uso della violenza e l’utilizzo della forza, anche fisica, per impedire o rimuovere un atto di violenza, cioè per legittima difesa.
Penso che chiunque sia di animo nobile non possa non reagire alla vista di un’azione di violenza che si stia commettendo nei confronti di una persona inerme e faccia di tutto per respingere con energia gli aggressori.
Anche se per neutralizzare i violenti si dovesse non intenzionalmente ucciderli, ciò non costituirebbe un atto di violenza.
Anche l’utilizzo della forza da parte degli oppressi per rimuovere una struttura violenta, cioè una qualsiasi forma di potere, non costituirebbe di per sé un’azione di violenza, ma di legittima difesa della propria libertà.
La forza si trasforma in violenza quando si spinge al di là di tutto ciò, quando cioè si trasforma da difesa a offesa della dignità della persona che si neutralizza, cioè in vendetta.
Tuttavia, l’uso della forza per rimuovere una situazione di ingiustizia non va confuso con le guerre promosse da governi per scopi «umanitari», per portare cioè «la democrazia» in paesi retti da dittature. Lascio al lettore giudicare se bombardamenti che colpiscono gente innocente ed inerme costituiscano un buon esempio di utilizzo della forza per la legittima difesa di quei popoli stessi o, invece, di uso della violenza, che per difendere ed estendere il potere di caste politiche ed economico-finanziarie, non si ferma neanche di fronte alla dignità ed alla vita dell’essere umano più indifeso.

Coerenza tra fini e mezzi

Errico Malatesta scrisse, senza per questo volere ridurre ad uno slogan il suo articolato pensiero in proposito: «Anarchia vuol dire non-violenza» («Pensiero e Volontà», 1 settembre 1924).
Conseguentemente, si pone per gli anarchici il problema della coerenza tra fini e mezzi.
Infatti, chi utilizza la violenza per combattere il potere si trasforma egli stesso in oppressore, perché la violenza, corrompendolo e distogliendolo dai fini che si era proposto, gli impone lo stesso carattere, la stessa personalità dell’oppressore che aveva intenzione di combattere.
Basti pensare, ad esempio, alle rivoluzioni più importanti della storia dell’umanità: la Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Russa del Novembre 1917. Nel primo caso, l’utilizzo del terrore portò il governo rivoluzionario più conseguente, quello giacobino, a Termidoro e poi all’imperialismo napoleonico. La Rivoluzione Bolscevica, che aveva l’intenzione di costruire una coerente società socialista, portò invece, ad un regime che represse, come nella Grande Rivoluzione, i suoi stessi figli.
Dopo tanti fallimenti storici e tanti lutti non resta che considerare la possibilità concreta di far coincidere tra loro mezzi e fini: la costruzione di una società libertaria. Creare, cioè, dal basso, a partire da noi stessi, relazioni non gerarchiche, non autoritarie, cioè non violente, in ogni ambito del nostro agire: da ogni forma di associazionismo, dal volontariato, dalle vere cooperative di produzione, di consumo e di servizi, non quelle false che in realtà sono imprese capitalistiche dietro le quali si nascondono forme di sfruttamento tra le peggiori, dalle nostre famiglie e dai nostri rapporti di amicizia, che possono nascere anche in un ambiente altamente oppressivo, come quello lavorativo, fino ad investire tutta la società umana nel suo complesso.
E quando, eventualmente, qualche struttura oppressiva, qualche potere gerarchico si opporrà a tutto ciò, sarà nostro compito difenderci, difendere cioè le nostre relazioni personali, le nostre capacità individuali, la nostra libertà, anche con l’uso della forza, se necessario, ma sempre considerando l’altro, anche se ci opprime, come una persona, non solo da rispettare nella sua unicità, ma da conquistare con il nostro amore.
È la lotta per questo nostro obbiettivo che dà senso alla nostra vita.

Paolo Soragna