rivista anarchica
anno 34 n. 299
maggio 2004


lettere

 

Anarchia “totale”

Alla redazione di Radio Popolare
e.p.c. ad A rivista anarchica

Da diversi anni ascolto la vostra/nostra radio ma è la prima volta che vi scrivo.
Durante i giornali radio di una decina di giorni fa, nel trattare le tristi vicende di Haiti dopo la “fuga” di Aristide, avete spesso usato il termine “anarchia” per descrivere la situazione di caos, soprusi e uccisioni che quel paese, e in particolare Port-au-Prince, si trovava a vivere.
Già in occasione della seconda guerra del Golfo, quando Baghdad era caduta in mano agli invasori, era successa la stessa cosa, e già allora alcuni ascoltatori, anche in diretta, vi avevano segnalato l’uso improprio del termine “anarchia”. In quell’occasione credo di aver notato una vostra attenzione a queste critiche perché da un certo punto in avanti non avete più usato il termine “anarchia” per descrivere la situazione di Baghdad.
Adesso ci risiamo.
Ritengo piuttosto grave che un organo di informazione come Radio Popolare aderisca acriticamente a luoghi comuni e faziosi, per non dire di più, che identificano l’anarchia con situazioni come quelle verificatesi a Baghdad e a Port-au-Prince.
Propongo pertanto a tutta la redazione di approfondire questo tema. I riferimenti per contattare il movimento anarchico anche a Milano credo non vi manchino; in ogni caso sono a vostra disposizione per qualsiasi approfondimento o chiarimento.
Un abbraccio

Roberto Panzeri
(Valgreghentino)

P.s. – Sarebbe interessante anche approfondire perché slogan tipo “I comunisti mangiano i bambini” non siano passati nel “popolo di sinistra” mentre quello di “Anarchia=caos” sì.

Siamo concordi con quanto espresso da Roberto nella sua lettera a Radio Popolare. Ascoltando anche noi la radio, siamo rimasti incuriositi dal fatto che a fianco della parola (usata a sproposito) anarchia venisse utilizzato anche l’aggettivo “totale”.
Che i redattori potessero usare il semplice termine di CAOS, parola che si presta egregiamente alla bisogna per la sua brevità e per il fatto di non dar adito ad interpretazioni ambigue, e non l’abbiano fatto può volerci dire una cosa molto importante, che stanno elaborando un nuovo concetto d’anarchia: l’anarchia totale da contrapporre all’anarchia parziale.
Quello che non capiamo però è se quella totale sia negativa mentre quella parziale è positiva, o viceversa (o forse nessuna delle due!).
Di fronte a questa sfida dialettica siamo rimasti senza punti di riferimento e ci farebbe piacere se qualche redattore di Radio Popolare, filosofo a tempo perso, ci ragguagliasse sull’arcano.

 

 

“Revisionismo” libertario

Cara Redazione,
sottolineando il livello ottimo degli articoli del numero di marzo 2004 (era un po’ di tempo che invece, a fronte di contributi eccelsi, c’era un po’ sapore di raccogliticcio...) vorrei segnalare, oltre all’eccelso contributo di Felice Accame sul mancinismo (finalmente anche psicopedagogia e un po’ di pedagogia clinica su A!) e a quello di bella e preziosa inutilità (ma l’accento è sugli aggettivi, non sul sostantivo) di Fulvio Abbate sui “Ricordi” (e qui aggiungerei che la poesia e segnatamente la prosa poetica mancavano da un po’ su quella rivista così “seria” che è A...), quelli che credo i tre testi chiave di questo numero, e pour cause. Mi riferisco a Una scienza inutile di Francesco Robustelli, Il Grande Controllo di Andrea Papi, L’arma della memoria contro l’oblio di Jérôme Baschet.
Robustelli integra il classico approccio di Paul Feyerabend sul “probabilismo” – sintetizzo in modo un po’ brutale, ma lo spazio lo impone – coinvolgendo la problematica sociale e del rapporto società-scienza-società (la triade si impone, per le reciproche ricadute), senza neo-dogmatismi à la Bogdanov né dogmatismi “antidogmatici” (lo scientismo della “morte della scienza”, per intenderci).
Papi tratta il tema del terrorismo in modo intelligente e non aprioristico il tema del controllo (informativo, informatico e di pura gestione del Potere, intelligence compresa ma in modo non onnivoro), senza dar ragione né a Hardt-Negri (Empire) né a Crisso-Odoteo (“barbari”), cioè a dire: né la necessità che i movimenti si rapportino con l’Impero né la tesi del ritiro apoditticamente “antagonista” dal rapporto con esso.
Baschet, dal canto suo, in questo terzo capitolo della sua riflessione sul Chiapas mostra a sua volta che non esiste “futuro prevedibile”, non ci sono “magnifiche sorti e progressive” (Leopardi, do you remember?) della storia.
Contro il “marxismo ortodosso”, dunque, in tutti e tre i testi, ma anche contro i cascami di una vulgata anarchica che dopo l’11 settembre 2001 e l’11 marzo 2004 sarebbe solo grottesco... Non per questo credo (pur se non mi dispiacerebbe, confesso) un “revisionismo” in senso libertario.
“A” non “deve” diventare “Libertaria”, ma la direzione di marcia (orribile espressione, che uso solo per comodità) è questa, non quella trionfalistica, che a tratti riaffiora altrove nella rivista.
Cari saluti

Eugen Galasso
(Bolzano)

 

Rileggere Malatesta e Zaccaria

Cari compagni, voglio ringraziare di cuore Nico Berti, autore del volume Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale. 1872-1932 (Franco Angeli editore, Milano 2003) per il suo straordinario contributo alla conoscenza del pensiero malatestiano. Pensiero non ideologico, umanista, pieno d’amore verso l’umanità, estremamente tollerante e mai debole, diffidente sulle certezze, a meno che non si trattasse della volontà, intellettuale onestissimo, che ha avuto il grande merito di non aver mai avuto bisogno di interpreti, tutt’alpiù di diffusori del suo pensiero: tanta era la chiarezza del suo pensiero e soprattutto dei suoi scritti. A leggere Malatesta, ti viene voglia di distruggere la penna, il calamaio ed il computer... ti sembra che tutto sia già stato detto e scritto, e nel migliore dei modi possibili, così non ti resta che il tentativo di migliorare te stesso il più possibile, altrimenti di startene tranquillo in pace…

Mi ricordo i tempi della rifondazione della FAI, 1963/64, il dibattito verteva sulla necessità di organizzare meglio la nostra azione, la nostra presenza nella società. Nel nome di Malatesta ci dividemmo: gli organizzatori da una parte, gli antiorganizzatori dall’altra (FAI e GIA)! Ognuno pensava di interpretare al meglio la lezione di Malatesta. Ovvero, neppure gli antiorganizzatori ne mettevano in discussione l’autorità morale, non nascondendo comunque il pericolo di autoritarismo insito nell’affermare la necessità di un versamento fisso ma volontario, per il mantenimento dell’organizzazione! Il mondo stava cambiando, eravamo agli albori della contestazione del ‘68, e noi stavamo ancora discutendo sul sesso degli angeli! Anche questo treno passò, la nostra divisione si tradusse in estrema debolezza, e noi eravamo, ancora una volta, rimasti senza biglietto!
Conosciamo le tre fasi del pensiero malatestiano, manca la quarta, la previsione in sociologia, idea mai compiuta, perché come lui diceva, c’è sempre qualche cosa di più importante da fare...
A mio giudizio manca la fase che avrebbe potuto toglierci dalla paralisi, che avrebbe potuto insegnarci a sporcarci le mani con la realtà quotidiana, a commettere degli errori ma stando insieme alla gente, a trasformare la volontà anche in impegno politico, come avevano fatto prima i compagni messicani, e come faranno poi i compagni spagnoli. Non fu sufficiente agire all’interno dei sindacati, con i Comitati di Difesa Sindacale, come lui pensava, furono stritolati dalla preponderanza stalinista, cosicché perdemmo visibilità anche in quel movimento e diventammo degli emarginati, così accadde anche per la società civile, dove, la nostra pretesa purezza ci faceva perdere di vista e sottovalutare il problema delle alleanze, la necessità delle alleanze.
Non voglio dire che il pensiero malatestiano, nella sua completezza, si riveli al fine come una “forza” paralizzante, ma è pur sempre un tentativo di interpretare la società e tentare di individuare gli strumenti più adatti per la sua trasformazione, quindi si tratta di riflessioni che vanno di volta in volta adattate e modificate, soprattutto, quando ci si accorge di essere vittime di uno stallo oramai sfibrante.
Malatesta non avrebbe voluto assistere a tutto questo, e ce lo insegna la maturazione delle sue riflessioni durante la sua lunga militanza: consegnarlo come un pensiero compiuto, alto ed immodificabile, sarebbe come dogmatizzarlo, proviamo semmai a prefigurarne i possibili sviluppi. Tentativi ce ne sono stati, basta rileggersi bene Camillo Berneri e Cesare Zaccaria.
Voglio chiudere con una proposta: rileggere insieme anche Cesare Zaccaria. Cosa ne dite?

Alfredo Mazzucchelli
(Carrara)

 

FIAT e pena di morte

La Sezione Italiana di Amnesty International: furgoni Fiat per eseguire condanne a morte in Cina

I “boia itineranti” sono la nuova scoperta di Pechino e girano su furgoni FIAT adattati allo scopo. Lo ha denunciato oggi la Sezione Italiana di Amnesty International, chiedendo all’azienda torinese di non rendersi complice di una violazione del fondamentale diritto umano, quello alla vita.
Da quando la Cina ha adottato il metodo di esecuzione dell’iniezione di veleno, le autorità hanno sollecitato i tribunali locali a dotarsi di camere di esecuzione mobili, onde poter accelerare i tempi ed evitare di dover trasferire i condannati da una città all’altra.
Secondo Amnesty International, la pena di morte in Cina continua a essere applicata in modo esteso e arbitrario, spesso influenzata da interferenze politiche. Negli ultimi quattro anni, con il lancio delle cosiddette campagne “Colpire duro”, è aumentato considerevolmente il numero dei condannati a morte anche per reati di lieve entità, in precedenza puniti con il carcere. All’indomani dell’11 settembre 2001, inoltre, la Cina ha intensificato la repressione contro la minoranza uigura del Xinjiang, eseguendo condanne a morte per reati politici. I dati di Amnesty International, che riguardano solo i casi accertati, parlano di 1.060 condanne a morte eseguite nel corso del 2002. Secondo altre fonti, il numero delle esecuzioni potrebbe essere fino a dieci volte superiore.
Nei giorni scorsi, il “Beijing News” ha pubblicato la notizia dell’acquisto di un furgone da parte dell’Alta corte della Provincia di Liaoning, nella Cina nord-orientale, subito attrezzato per diventare “camera della morte” itinerante. La notizia è stata poi confermata da un funzionario di polizia della stessa Alta corte, addetto alle esecuzioni, il quale ha dichiarato alla “France Presse” che altri tribunali (diciassette, secondo fonti ufficiali cinesi), stanno procedendo all’acquisto dei furgoni.
Si tratta di furgoni Iveco, del gruppo Fiat, prodotti a Nanchino e che costano 400.000 yuan, circa 40.000 euro.
Il presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, Marco Bertotto, in una lettera indirizzata alla FIAT ha ricordato le responsabilità che l’azienda, capogruppo della Iveco, si assume con questa fornitura al governo cinese. Di fatto, un veicolo normalmente utilizzato per effettuare servizi di trasporto merci o persone, e quindi utile alla comunità civile, diventa parte essenziale di un apparato omicida puntato alla nuca della comunità stessa.
La Dichiarazione universale dei diritti umani, nel suo Preambolo, richiede a tutti gli individui e a tutti gli organi della società di fare la propria parte per garantire il rispetto di tutti i diritti umani in ogni parte del mondo.
Le imprese, soprattutto se grandi, transnazionali e potenti come la FIAT, essendo organi importanti della società internazionale, non possono sottrarsi a questo obbligo.
La Sezione Italiana di Amnesty International chiede alla FIAT di:
– porre fine alla vendita o alla consegna, se non ancora effettuata, dei furgoni alle autorità cinesi;
– intervenire presso le autorità cinesi per pretendere l’abolizione della pena di morte e la commutazione in pena detentiva delle sentenze già emesse;
– dare istruzioni ai propri dirigenti e a quelli della sua controllata Iveco, in Cina come in ogni altra parte del mondo, affinché non siano effettuate forniture di veicoli, parti di ricambio o attrezzature FIAT che potranno essere utilizzate per compiere violazioni dei diritti umani;
– informare l’opinione pubblica, con una propria comunicazione ufficiale, sulle iniziative assunte affinché questo commercio di morte cessi, e con esso il sostegno anche indiretto a qualunque governo o gruppo armato che usi veicoli, parti di ricambio o attrezzature FIAT per compiere violazioni dei diritti umani;
– fornire ampie assicurazioni che non effettuerà ulteriori forniture di veicoli, parti di ricambio o attrezzature FIAT destinate a funzioni che siano in palese violazione dei diritti umani;
– aderire e dare attuazione alle Norme delle Nazioni Unite sulla responsabilità delle aziende, approvate il 13 agosto di quest’anno dalla Sottocommissione ONU per la promozione e la protezione dei diritti umani;
– adottare e attuare rigorose politiche e comportamenti di responsabilità sociale nelle proprie attività quotidiane, facendo sì che queste politiche vengano trasmesse dal top management a tutti i dipendenti di tutte le imprese dalla FIAT direttamente o indirettamente controllate, impegnandosi attivamente affinché siano accettate e messe in pratica da tutti.
– dare seguito ai pronunciamenti e ai principi internazionali espressi nelle numerose risoluzioni del Parlamento Europeo in materia di responsabilità sociale delle imprese e di traffico di armi, nel Global Compact e nelle Linee Guida dell’OCSE.
Amnesty International, pur ritenendo che spetti ai governi la responsabilità principale di rispettare e far rispettare i diritti umani, ritiene che le imprese come la FIAT possano e debbano usare la propria influenza per intervenire sui governi a garanzia del rispetto dei diritti umani, e non possano sottrarsi a questa responsabilità, morale e legale, adducendo ragioni economiche oppure semplicemente tacendo. Di fronte a gravi violazioni dei diritti umani, come nel caso della pena di morte, il silenzio dei potenti interessi economici non può essere considerato neutrale.
Roma, 23 dicembre 2003

Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia – Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 – cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it

(ripreso dal sito di Amnesty International sezione comunicati)

 

 

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