rivista anarchica
anno 34 n. 300
giugno 2004


dibattito

Sindacalismo e burocrazia
a cura di Cosimo Scarinzi

 


Prosegue il dibattito su sindacalismo e burocrazia aperto dalle riflessioni di Andrea Papi (“A” 298) e di Cosimo Scarinzi (“A” 299).

Degenerazione
autoritaria

di Andrea Papi

Ringrazio Cosimo per le questioni che pone suscitate dal mio articolo e lo saluto caramente. Quando è autenticamente motivata da un sincero confronto di idee ed argomentazioni, la polemica è sempre ricchezza ed aiuta tutti coloro che vi sono coinvolti in un processo di comprensione che, quando si vuole, diventa fondamentale per definire come e cosa si debba e si voglia fare. E qui mi sembra che ci siamo in pieno.
Ma veniamo a ciò che c’interessa. Premetto innanzitutto che concordo con Cosimo che il problema di quella che considero una degenerazione autoritaria e burocratica della questione sindacale, sottolineando per parte mia la prevalenza del carattere autoritario, sia più complessa delle questioni da me poste, alle quali però, pur essendone consapevole, siccome le ritengo centrali, ho scelto arbitrariamente di dar loro una preminenza, senza per questo considerare le altre meno importanti. Forse avrei dovuto dichiararlo e di ciò mi scuso. Condivido pure tutta la giustezza degli esempi e delle considerazioni che egli pone riguardo alle diverse situazioni internazionali cui fa cenno, che mi sono apparse motivate e valutate in modo consono ed adeguato.
Ciò di cui m’interessava discutere però è altro, anche se del tutto connesso a questi argomenti. Innanzitutto, essendo partito dalle ultime clamorose lotte degli autoferrotranvieri, egemonizzate dalle proposte dei sindacati di base italiani, le mie considerazioni si sono riferite principalmente alla situazione specifica italiana e volutamente non mi sono addentrato in un excursus internazionale, se non per qualche cenno del tutto secondario. Tenendo presente in specifico questa territorialità, ho così cercato di approfondire un punto in particolare che ritengo centrale rispetto alla questione della degenerazione sindacale: l’ingerenza sempre più pressante dell’ideologia e della pratica partitiche all’interno delle strutture del movimento operaio, il quale, ne sono fermamente convinto, dovrebbe trovare, o ri-trovare in modo aggiornato ed attuale, l’originario spirito autonomo per cui si fece consapevole e l’originaria spinta, sempre autonoma, di difesa e imposizione dei propri diritti attraverso le lotte, scrollandosi di dosso l’inquinamento della politica militante, determinante oggi più che mai nel far risaltare gli elementi conservativi.

Processo esasperato ed irreversibile

Rivendico la considerazione che la visione strumentale teorizzata da Lenin, nota come Cinghia di trasmissione, a un certo punto, abbia esasperato e reso irreversibile il processo in atto di colonizzazione, ideologico e politico insieme, già comunque pienamente presente per conto delle diverse forze socialiste e repubblicane, come ho sottolineato nell’articolo. Tale visione, forse aspettata, per gli attivisti partitici fu occasione succulenta per innestare nelle strutture sindacali già presenti un’ulteriore consapevolezza e volontà di occupazione ed uso a fini strategici. Nei partiti leninisti per tentare di condurre in porto l’occupazione del potere da parte del partito bolscevico, per altre forze politiche e padronali, all’inverso, per tentare l’ingerenza e la gestione impropria nel e del movimento operaio, con lo scopo d’imbonirlo e di dirigerlo, ognuno per i propri scopi.
La qual cosa, forse perché il terreno era fertile in tal senso, in breve tempo forgiò, e al contempo fece si che si mantenessero, un insieme di approcci, di mentalità e di atteggiamenti psicologici atti a rendere salda tale occupazione. Non a caso, da parte degli attivisti sindacali più impegnati, che nella maggioranza dei casi erano e sono sempre impegnati anche su versanti specificatamente politici o partitici, le organizzazioni dei lavoratori sono state e vengono viste e vissute come luoghi prioritari per la ginnastica e l’azione della lotta politica, cui si continua a pensare che debbano servire.
Il fatto di sottolineare, come continuo a rivendicare, che la teorizzazione leninista fornì e permise di applicare nei fatti una base altamente giustificativa e, agli occhi degli attivisti, nobilitante, per strumentalizzare a fini propri il movimento operaio, non vuol dire e nei fatti non comportò, che ci sia stata dovunque un’egemonia indiscussa del leninismo e che il processo innestato da tale occupazione sia dovunque risultato incontrastato e vincente. L’applicazione di una teorizzazione è sempre foriera di imprevisti, contraddizioni, incidenti in itinere e necessità di correzioni. Ciò che però ritengo fondamentale, e nell’articolo mi sembra che risulti, non è tanto come tale impatto si sia realizzato, quanto quali deleterie dinamiche relazionali, atteggiamenti psicologici e giustificazioni d’intenti, più o meno limpidi, fu in grado d’innestare, inquinando e nel tempo deteriorando l’azione di difesa e di autorganizzazione per cui il movimento operaio prese forma.
Un danno collaterale, non minore per importanza, è rappresentato dal fatto che la Cinghia di trasmissione è stata capace d’inserire come un cuneo la logica e le tensioni legate all’ideologia della lotta di classe. Trattata e proposta frequentemente in modo poco ortodosso o scorretto, se non addirittura osteggiata, sposta ed è stata comunque capace di spostare l’attenzione su un problema squisitamente ideologico. Idealisticamente è sorretta da una lettura aprioristica della realtà. Impone cioè una visione secondo cui le lotte operaie debbano essere finalizzate alla prevalenza ed all’egemonia della classe operaia, o comunque che il problema operaio, in quanto inerente ad una categoria socioeconomica di riferimento supposta prevalente, sia o debba essere il problema più rilevante attorno al quale ruota e debba ruotare l’insieme delle lotte per l’emancipazione sociale. Non, per esempio, che l’emancipazione riguardi invece l’insieme della società, in una logica ed in una tensione di superamento della divisione in classi, dove la visione di riferimento non sia più legata alla logica della prevalenza della struttura economica, com’è secondo la dottrina di classe, ma al contrario al superamento ed all’eliminazione di tutte le strutture di potere, sia economiche sia politiche.
Non sto a ripetermi. Lo stesso Cosimo del resto nella sua gradita polemica asserisce e promette che della lotta di classe, come sulle prospettive del sindacalismo di base, giustamente, vi sarà tempo e modo di tornare.

Andrea Papi

Battaglia
anticoncertativa

di Gino Caraffi

Carissimo Cosimo,
ho letto il tuo lavoro sulla burocrazia sindacale…, il tuo pezzo mi lascia un po’ perplesso, perché affronta il problema della burocrazia come se fossimo all’inizio del secolo scorso.
Come tu sai non sono un teorico del sindacalismo, ti voglio quindi porre alcune domande, sia sull’impegno sindacale, che sul ruolo degli anarchici impegnati in questo “scivolosissimo” terreno che è la lotta di classe.
Come tu forse saprai io, ed altri compagni di Reggio Emilia, abbiamo scelto di “rientrare” in CGIL, in modo particolare nella FIOM, in quanto abbiamo ritenuto importante partecipare a quella che riteniamo l’ultima battaglia anticoncertativa possibile.
Come mai gli anarchici non riconoscono un ruolo alla FIOM-CGIL in questa fase? Forse i lavoratori che si ribellano sotto le sue bandiere non sono degni di attenzione?
Siamo sicuri che tutti i compagni abbiano chiaramente compreso la composizione di classe in questo paese, e per ciò che mi riguarda nella media industria metalmeccanica?
Questo ed altri quesiti vorrei porre alla tua attenzione, la differenza tra ciò che io penso e/o vorrei ha uno scarto troppo grande con quella che è la realtà di classe in cui lavoro, quindi prima ancora di interrogarmi sul senso del sindacalismo libertario mi è indispensabile creare momenti di socialità e di condivisione minima tra i lavoratori, oggi più inclini al leghismo padano che ad ogni ipotesi solidaristica, e, rispetto alla burocrazia, è inevitabile che ci si doti strutturalmente di funzionari e di sedi, perché come tu ben sai noi operai tra le altre cose dobbiamo anche lavorare, quindi lascio queste “pippe” ai filosofi ed agli esteti di un anarchismo che ha sempre meno a che fare con la lotta di classe, o forse solamente con me.
Ciao

Gino Caraffi

Anomalia sindacale
di Cosimo Scarinzi

Caro Gino,
se ti prendessi alla lettera e credessi che mi stai “ponendo delle domande” mi preoccuperei un po’. Non mi troverei, infatti, troppo a mio agio nel ruolo di dispensatore di buoni consigli e parole di conforto ai compagni impegnati sul terreno della lotta di classe. D’altro canto, senza che vi sia alcun disprezzo per la filosofia e per l’estetica, sai bene che la mia principale attività è quella sindacale e che ne vivo tutte le contraddizioni ma anche la ricchezza di esperienze e di percorsi.
In realtà, le tue domande sono già affermazioni sin troppo chiare. Proverò a dirti la mia in maniera il più schematico possibile.
Tu ti domandi come mai i compagni non guardino con maggior interesse all’attuale percorso della FIOM. Vi è già un modo singolare di porre il problema. Chi sono, infatti, i compagni? Non siamo forse io, tu ed altri che esprimono posizioni e valutazioni a volte convergenti ed a volte divergenti? E chi ci impedisce di ragionare sul percorso della FIOM? Io, per parte mia, ne ragiono, mi è capitato di scriverne, guardo con attenzione a quanto avviene in casa CGIL e non credo di essere il solo.
Detto ciò, sulla FIOM tu esprimi un giudizio politico ed io un altro ed altri compagni ne avranno di ancora diversi. È su questo giudizio che varrebbe la pena di misurarsi.
E se è di questo che parliamo, è evidente che quando affermo che la FIOM esprime un’anomalia nel quadro sindacale istituzionale ma anche che questa anomalia, nonostante i fatti di Melfi di questi giorni, non è assolutamente antesignana di una rottura radicale con la concertazione guardo a dei fatti precisi quali il comportamento del corpo intermedio di questo sindacato nella conduzione delle vertenze aziendali, comportamento assai meno radicale di quanto si possa intendere leggendo gli interessanti interventi di Cremaschi.
Io ritengo, fra l’altro, che la pressione della maggioranza della CGIL, per non parlare di CISL e UIL, sia arrivare a mettere in riga la dirigenza giacobina della FIOM. Posso sbagliare, naturalmente, mi è già capitato di sbagliare ma, per ragioni che non ho il tempo di sviluppare, questo è il mio attuale convincimento.
Poniamo, però, che la CGIL nel suo insieme persegua in una svolta a sinistra, già ampiamente rientrata, per la verità, che si è manifestata con l’avvento della destra al governo.
Avremmo, in questo caso, un sindacato fortemente burocratizzato e verticista ma “duro”.

Critica radicale

Tu fai rilevare che i lavoratori, non lo avrei immaginato, lavorano e che è impensabile che dedichino in numero consistente il loro tempo libero alla vita del sindacato. Ne sono sin troppo consapevole e te lo concedo serenamente. Ma la scommessa che noi facciamo, quella che ci ha portato alla critica radicale dello sfruttamento e del dominio statale, è proprio quella che le persone normali, non qualche superuomo anarchico, possano sviluppare pratiche sociali volte alla propria emancipazione e che solo sviluppandole possano cambiare, in misura maggiore o minore, la situazione presente.
Questa posizione è straordinariamente impopolare al momento e sostenendola finiamo per trovarci in minoranza ed essere in minoranza, per chi non abbia attitudini élitiste, e io non ne coltivo, non è gradevole. D’altro canto se, per essere in accordo con la maggioranza, dovessi entrare in disaccordo con me stesso non ne avrei gran giovamento.
Liquidare, quindi, la questione della burocrazia come una necessità è certamente ragionevole ma di una ragionevolezza che rischia di essere subalterna. Se pensiamo che la burocratizzazione del sindacato non è un problema, che non si possa nemmeno ipotizzare un sindacalismo libertario si può certo scegliere di stare nel sindacato più robusto ma sarebbe forse più consequenziale non fare sindacalismo se non nella limitata misura in cui si occupano di sindacato gli altri lavoratori “che lavorano”.
In estrema sintesi, la nostra discussione è paradossale perché entrambi vediamo il conflitto industriale come il momento centrale di ogni possibilità di trasformazione radicale del mondo ed entrambi guardiamo criticamente all’anarchismo dei compagni che eludono lo scontro di classe.
Io penso, però, che la scelta di altri compagni abbia delle ragioni che magari non mi convincono e che qualche volta mi fanno persino innervosire ma che non sono prive di fondamento.
Ti farò dei casi concreti, io conosco, a Torino, dei giovani compagni operai molto bravi da diversi punti di vista. Questi compagni tendono, la cosa può piacermi o meno ma è così, a sviluppare pratiche di rottura non a partire dal loro lavorare in fabbrica ma attraverso la costruzione di aggregazioni fuori dal luogo di lavoro. Per dirla tutta, ritengono magari che non valga la pena di aggiungere all’oppressione del lavoro salariato la dura fatica della militanza sindacale. Visto che un essere umano vive una sola vita e che cerca di trarne il maggior piacere possibile, ritengo che la loro scelta, che è disastrosa per il rafforzamento di una robusta corrente sindacale libertaria, non sia irragionevole.
Tu mi dirai che non ti riferivi a compagni come quelli dei quali parlo io ma a persone che, avendo una solida formazione politica, assumono posizioni di indifferenza rispetto alla lotta sindacale. D’altro canto, per parte mia, ritengo che il problema dei militanti sindacali libertari non è quello di convertire al sindacalismo gli anarchici ma, casomai, di avvicinare, attraverso la loro pratica sindacale, i lavoratori più combattivi con i quali entrano in relazione alle idee libertarie.
Per ora mi fermo
Fraterni saluti

Cosimo Scarinzi

“Sabaudamente
gufesco”

di Dario l’autoflagellante

Forse semplifico troppo brutalmente, ma se per modello libertario di organizzazione intendi, e si intende, un’organizzazione priva di apparati burocratici, ovvero di distaccati, ovvero di quella “minoranza di funzionari e militanti” a cui i lavoratori sono “più che disponibili a delegare le funzioni organizzative”, non vedo come questa sia realizzabile.
Insomma, se dobbiamo sillogizzare la tua analisi, dato che non si dà sindacato senza lavoratori e dato che i lavoratori vogliono delegare, non si dà sindacato senza delegati.
A meno da non cambiare le esigenze e le disponibilità dei lavoratori. Allora è questo che va “argomentato, dimostrato, verificato sul campo”? A me pare questo un obiettivo che a definire titanico si violenta il concetto di eufemismo. Per come percepisco io la vita e la politica nel loro complesso, quanto va argomentato, dimostrato e verificato è più o meno sintetizzabile come segue:

  • Che si possono modificare i rapporti di forza fra lavoratori e padronato (ivi compresa l’amministrazione pubblica)
  • Che il singolo lavoratore ha la possibilità di incidere nel gioco sia come componente collettiva in una manifestazione o nel computo degli aderenti ad uno sciopero, sia, soprattutto, per la propria iniziativa individuale
  • Che tutto ciò vale davvero la pena, ovvero che il tempo e le energie sottratti alla vita famigliare o più generalmente “privata” portano
    • ad un miglioramento delle condizioni altrui (posizione straordinariamente altruistica);
    • oppure ad un di più di felicità individuale (posizione normalmente egoistica);
    • piuttosto alle due cose insieme (posizione “politica”, la più equilibrata).

Per quanto mi guardo attorno, almeno negli ambienti di lavoro che conosco (autoferro e metalmeccanici saranno forse un’altra faccenda), non avverto la disponibilità ad accogliere tesi di questo genere: in molti casi si ha la percezione che, per quanto si faccia, il mostro è invincibile e persino inattaccabile; se poi si ritiene che qualcosa si possa fare, l’azione non può che inserirsi in un’iniziativa che muova i grandi numeri (lo sciopero unitario!); ad un livello ulteriore, si è disposti ad un moderato impegno, ma a patto che il prezzo non sia troppo alto, non già – o non sempre – per ingenerosità, ma piuttosto perché non si crede che davvero valga la pena (e allora intervengono altri moventi che vanno dal senso del dovere ai rapporti personali e di amicizia a strane forme autolesionistiche – scherzo, ma non troppo).
E tutto sommato non mi sembra che la realtà dei fatti e dei conflitti deponga a nostro favore.
Un’ultima nota: io forse apparirò sabaudamente gufesco, ma hai fatto caso che il tuo ragionamento porta ad un modello di sindacato di “tutti militanti” che già si profilava in alcune sconsolate riflessioni del nostro Gufo guforum (hai presente?), e, sia pur con toni diversi, neanche tu riesci a concretizzare una proposta finale.
Spero di essere smentito.

Dario l’autoflagellante

P.s.: a proposito della disponibilità di tempo ed energie, mi ci è voluto un periodo di mutua per indurmi a scrivere questa pagina.

Rete di relazioni
sociali

di Cosimo Scarinzi

Caro Dario,
le tue riflessioni hanno il fastidioso pregio di essere una limpida e sintetica descrizione del normale rapporto fra lavoratori come individui atomizzati e organizzazioni del movimento operaio e, a rigore, sistema sociale generale.
Evitiamo, innanzitutto, un equivoco, io non penso ad un sindacato di militanti, un aggregato del genere sarebbe un collettivo politico ed è buon uso chiamare le cose con il loro nome.
Proporrei, per venire a quanto rilevi, un approccio al problema parzialmente diverso. È innegabile che nella società attuale si è determinato, semplifico molto ma è necessario, un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio dal punto di vista economico e sulla normazione burocratica della vita quotidiana dal punto di vista politico. Questo sistema di relazioni si manifesta, inoltre, come complessificazione dei problemi e come conseguente crescita della specializzazione dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro.
Se assumiamo, ed è ragionevole farlo, che l’attività di un sindacato è, propriamente parlando, un lavoro, ne consegue che questo lavoro tenderà a seguire le “regole del gioco” pena l’inefficienza e la marginalizzazione.
D’altro canto, e questo non implica un’opzione militante in senso stretto, il sindacato è o, almeno, può essere un’associazione intesa propriamente come una rete di relazioni sociali fondate, magari parzialmente, sulla condivisione di alcuni valori generali, sulla solidarietà, sull’identificazione in un soggetto collettivo.
Questo ragionamento vale, in qualche misura anche per i sindacati istituzionali o, almeno, per la parte meno integrata nelle istituzione di questi sindacati. Non potremmo, infatti, spiegarci la tenuta, per fare un esempio oggi dinanzi agli occhi di tutti, della FIOM se non sapessimo che vi sono donne ed uomini che le dedicano lavoro volontario, impegno, passione e, in molti casi, il sacrificio di legittimi interessi personali.
Se assumiamo che un sindacato, anche un sindacato fortemente istituzionale, è vitale solo se sa suscitare identità, ne consegue che questo aspetto della vita sindacale non è l’aspettativa di un mondo migliore ma qualcosa che, in qualche misura, già esiste. Naturalmente vi sono sindacati che riducono la loro attività alla pura tutela legale degli iscritti, allo scambio clientelare o quasi ma non sono gli unici sindacati possibili ed, anzi, è evidente che la loro consistenza dal punto di vista del numero degli iscritti non corrisponde a un peso reale quando si sviluppa il conflitto sindacale. Per usare una vecchia battuta, gli iscritti non si contano ma si pesano.
Ora, a me sembra, che la nostra esperienza sindacale funzioni, quando funziona, perché, in qualche misura, sa suscitare la tensione associativa alla quale facevo cenno ed è, assai imperfettamente, anche un rete di relazioni sociali.
Per concludere, mi sembra che tu faccia un’ottima fotografia della realtà quotidiana ma che serva anche porre l’accento sul fattore tempo, sullo svolgersi delle situazioni, per restare alla metafora un film e so che sei appassionato di cinema.
In fondo, il senso profondo di un’esperienza sindacale si coglie appieno nei momenti di conflitto aperto, i momenti nel quale se ne può valutare appieno l’utilità e la tenuta.
Stammiti bene

Cosimo il fustigatore di masochisti

Struttura leggera
di Walker

Per quanto riguarda il sindacato, nella sua accezione più generale possibile di struttura permanente volta alla difesa degli interessi, più o meno immediati, di classe, ho maturato ormai una posizione che non fa di me l'interlocutore ideale per una discussione sui limiti e le caratteristiche della sua “burocrazia” (nei termini in cui la intende Cosimo). Ritengo, cioè, che un luogo fisico (fornito del minimo di attrezzature tecniche ormai necessarie: telefono, fotocopiatrice, fax e computer) dove riunirsi e un buon avvocato siano tutto quello che serve ad organizzare una difesa sindacale da parte di gruppi di lavoratori in lotta (resta e non trascurabile il problema di chi pagherebbe tutto ciò, ma fin che siamo sul piano di una discussione “astratta” di questo possiamo non curarci). Detto questo penso, sullo specifico del sindacalismo di base, poche e banali cose. La prima è che il funzionariato permanente è ormai una iattura necessaria; la seconda è che se è una iattura, allora bisognerebbe eliminarla, costi, quello che costi; la terza è che il ruolo dei militanti libertari e anarchici fortemente impegnati sul terreno sindacale (e nelle strutture sindacali) è gravoso ai limiti dell'insostenibilità, questione che dunque non è risolvibile se non sul piano delle loro scelte personali di coerenza e di conseguenza; la quarta ed ultima, è che, per fortuna, non abbiamo né un partito, né una strategia di fondo condivisa, che ci impongano scelte unitarie e nemmeno, forse, coordinate. Di ciò, spero, un giorno l'umanità ci renderà merito.

Walker

Organizzazioni
stabili

di Cosimo Scarinzi

Caro Walker,
mi sbalordisce il fatto che proprio tu, il gufo imperiale, ipotizzi, sospetto per burla, che l’umanità ci possa rendere merito di qualsivoglia nostra scelta.
Detto ciò, due brevi considerazioni:

  • la struttura leggera che ipotizzi, se è stabile, pone, e lo riconosci tu stesso, la questione di chi pagherebbe. Per quanto si voglia ragionare “in astratto” bisogna evitare la cattiva astrazione. Per assurdo, ti seguo nel tuo ragionamento, la delega ad un avvocato della dimensione vertenziale è più subalterna all’esistente rispetto alla gestione sindacale. L’ipotesi funzionerebbe solo e nella misura in cui pensassimo a dei collettivi politici fondati sull’impegno volontario di un certo numero di compagni;
  • è chiaro che se non si ritiene possibile o desiderabile l’esistenza di organizzazioni stabili dei lavoratori il problema delle derive burocratiche si risolve in radice. Ma è appunto la possibilità e desiderabilità di organizzazioni di questo genere il problema che, magari sbagliando, ritengo opportuno porre.

Sono sostanzialmente d’accordo sul fatto che non è possibile, visti i caratteri contingenti e storici, del movimento anarchico che non siano ipotizzabili scelte unitarie o, peggio, uniche sulla questione sindacale. Lasciami pensare che se fossero almeno coordinate, nel senso di un confronto sulle questioni di merito e sulle prospettive, sarebbe un fatto positivo.
Fraterni saluti

Cosimo


Battaglia
anti-gerarchica

di Claudio Strambi

Mi sembra un fatto riconosciuto da tutti i partecipanti al dibattito sulla burocrazia sindacale (cominciato con l’articolo di Cosimo) che la tendenza alla burocratizzazione sia una delle tendenze spontanee di ogni organizzazione permanente dei lavoratori, tendenza che si accentua man mano che ci si allontana da cicli di lotte particolari come può esser stato quello del ‘68-‘73. Su questo non posso che convenire essendo difficilmente opinabile, per chiunque abbia frequentato il movimento operaio sia sui libri che nella pratica reale.
Tuttavia voglio rilevare che non a caso ho detto “una” delle tendenze spontanee e non “la” tendenza spontanea perché altrimenti dovrei convincermi sulla inutilità di ogni ipotesi di sindacalismo tendenzialmente libertario.
Anche in una congiuntura come quella attuale, non certo ricca di anelito autogestionario tra i lavoratori, vi sono sempre controtendenze interessanti che legittimano lo sforzo anti-autoritario ed una possibile visione in progress della costruzione di un movimento operaio che tenti di sfuggire dal puro riflesso del modello statale che gli si pone davanti.
Da questo punto di vista trovo assai di cattivo gusto che il mio amico e compagno Gino Caraffi definisca “pippe” da filosofi ed esteti la battaglia anti-burocratica (sarebbe più corretto dire la battaglia anti-gerarchica). Voglio ricordare che se è vero che esiste, e me ne dolgo anch’io, un anarchismo che ha sempre meno a che fare con la lotta di classe, è anche vero che esiste anche un modo di concepire la lotta di classe che ha poco a che fare con l’anarchismo. E per me pari sono.
In secondo luogo non credo affatto ininfluente nel determinarsi del fenomeno della gerarchizzazione del movimento operaio la cultura politica di chi si trova alla testa del movimento.
Se RdB è così irrimediabilmente “Monarchica”, mentre pezzi della CUB o dello SLAI Cobas lo sono meno è anche perché i secondi soggetti che ho elencato non sono mai stati confederati ai sindacati di Stato delle Monarchie Rosse dell’est europeo.
Fatte queste due sintetiche precisazioni penso che bisogna distinguere tra la necessità oggettiva per un sindacato di avere una certa quantità di lavoro retribuito ed il modo centralista e autoritario di articolare questo lavoro retribuito.
Il ruolo dei libertari deve essere non solo quello di cercare di allargare il più possibile nelle condizioni date il lavoro volontario rispetto al lavoro retribuito (distacchi e permessi), ma anche quello di dotarsi di un vero e proprio programma politico di gestione del lavoro retribuito da portare in ogni ambito sindacale dove si interviene.
Vengo quindi a sintetizzare alcune indicazioni di massima per la costruzione di un modello anti-burocratico ed anti-gerarchico, essendo ben cosciente di non dire niente di particolarmente originale:

  1. consigli direttivi non eletti in blocco ai congressi, bensì delegati eletti direttamente dalle realtà locali o categoriali e da queste continuamente revocabili;
  2. comitati esecutivi che abbiano un qualche criterio di rotazione;
  3. distribuzione più larga possibile dei permessi tra gli attivi e preferenza dei permessi rispetto ai distacchi;
    sì a forme controllate di semi-professionismo (distacchi a non + del 50%), no al professionismo puro (se si ha bisogno di 1 distaccato se ne fa 2 al 50%), oppure quando non evitabile professionismo puro con rapida rotazione;
  4. definizione di un tempo massimo entro cui il distaccato deve comunque tornare a lavorare, senza passare da un incarico retribuito ad un altro come invece avviene;
  5. netta prevalenza dei distacchi rispetto al funzionariato o se si preferisce distribuzione ampia dei distacchi sui livelli decentrati dell’organizzazione (pochi funzionari a Roma e molti semi-distaccati in periferia);
  6. federalismo-solidale nella gestione delle risorse economiche dell’organizzazione.

Se si pensa che queste sono “pippe” allora non si capisce perché dobbiamo sudare sette camicie a tenere in piedi giornali, sedi, memoria storica, quando il panorama è pieno di possibilità politiche meno “onanistiche”.

Claudio Strambi

 

Burocrati di tutto
il mondo unitevi

di Gino Caraffi

Mi dispiace che Claudio non abbia colto la mia provocazione sulla burocrazia, o forse non la ha colta per intero.
Quando iniziammo (ormai 15 anni fa) a costruire le prime strutture sindacali di base, COBAS, FLMU, UNICOBAS, ecc. vi era all’interno dell’anarchismo organizzato un dibattito che rintracciava nella necessità di dotarci di una nuova organizzazione sindacale un punto dirimente per il rilancio della lotta di classe, vi era l’USI, da alcuni anni impegnata nella creazione e nel consolidamento della propria organizzazione, tra l’altro l’unica senza funzionari.
I compagni in modo significativo rivolsero la propria attenzione verso la CUB, nata dal processo confederativo della FLMU di Tiboni ed altri funzionari che si “erano ritrovati tra le mani” un po’ di soldi della FIM CISL milanese, e le RDB, già presenti nel pubblico impiego con funzionari distaccati ed una discreta rete di militanti.
Come si vede il sindacalismo di base nasce ”burocratico”, ma penso che l’interesse dei lavoratori verso queste nuove esperienze (nuove per l’epoca) sia stato soprattutto per l’opposizione dimostrata da questo nuovo soggetto contro la riforma delle pensioni, contro lo smantellamento dell’industria statale dei primi anni novanta, per un sindacalismo democratico che ricollocava i lavoratori al centro nelle funzioni decisionali, contro quindi la politica concertativa che altri burocrati portavano avanti sulle nostre teste.
Quanto premesso per dire che non solo le strutture sindacali subiscono una deriva burocratica, ma che questo tipo di concezione sindacale nasce burocraticamente.
Questo non è però a mio avviso il limite del sindacalismo di base, il limite che viviamo è e resta quello imposto dal capitale, in alcuni paesi non esiste il sindacalismo di base, e la situazione dei lavoratori è tragica, in altri paesi non esistono sindacati, e la situazione dei lavoratori è tragica, vi sono paesi dove esistono organizzazioni sindacali governative, dove i lavoratori sono sotto la soglia di povertà, mi riesce difficile di questi tempi discutere della burocrazia sindacale come se fosse il male maggiore ed il limite maggiore che un sindacalista si trova ad affrontare.
Sarei più propenso a discutere delle nuove forme del conflitto sociale, di sindacalismo conflittuale, anche perché continuo a pensare che il compito dei libertari nel sindacato sia quello di ricostruire una cultura di classe, di tessere relazioni tra lavoratori, ricordandogli anche i mali della burocrazia, ma soprattutto ricordargli il suo stato di sfruttati, dentro e fuori i luoghi di lavoro, il dare troppa importanza al lato burocratico del sindacato non si tramuta in nuova consapevolezza, o almeno non necessariamente da parte dei lavoratori.
Mi sembra riduttivo per altro limitare la presenza degli anarchici nel sindacato con l’assunzione dell’antiburocrazia come tratto qualificante, evidentemente Claudio nel suo intervento si è dimenticato di dire che vi sono differenti modi di concepire e di “fare” la lotta di classe, la contaminazione libertaria può avvenire su differenti livelli, nelle lotte, nelle proposte, nella condivisione di vittorie o di sconfitte, difficilmente i lavoratori faranno la rivoluzione partendo da una rivolta antiburocratica, al limite la attraverserebbero.
La costruzione di un’identità libertaria del movimento dei lavoratori passa ancora attraverso a ciò che sapremo mettere in campo, oggi, perché io continuo a pensare che siano state regioni storiche e sociali a determinare la forza della CNT Spagnola nel”36, e non la critica antiburocratica.
In Colombia burocrati sindacali o aspiranti tali vengono sistematicamente assassinati dal governo, in questo senso continuo a pensare che un dibattito sulla burocrazia sindacale interessi piuttosto qualche compagno desideroso d’approfondimento teorico, e che la questione posta oggi in questi termini non porti da nessuna parte, pippe per l’appunto.
Ciao

Gino

Critica alla
burocrazia sindacale

di Cosimo Scarinzi

Caro Gino,
sebbene i tuoi appunti siano rivolti principalmente a Claudio, mi permetto di risponderti su di un punto che ritengo rilevante anche perché può dare adito ad equivoci.
Come lo stesso Claudio segnalava nel suo intervento, la nostra critica alla burocrazia sindacale è, in realtà, un aspetto della nostra lotta antigerarchica, lotta che conduciamo, con ogni evidenza, non solo né principalmente nel sindacato.
La questione dei distaccati sindacali, in particolare, non può essere affrontata in maniera semplicistica non solo perché dobbiamo fare i conti con la, relativa, necessità di un lavoro sindacale continuo e minuzioso che difficilmente può essere svolto tutto da volontari ma anche perché sarebbe sciocco ed ingiusto presentare i distaccati, io, al momento lo sono, come “topi nel formaggio” per stare alla metafora di Monatte che citavo nel mio articolo.
Per mia esperienza diretta, i distaccati CUB che conosco hanno spesso affrontato seri sacrifici personali, del gruppo FIM CISL che, all’inizio degli anni ‘90, diede vita all’esperienza della FLMU la maggior parte dei distaccati tornò in produzione e quelli che restarono distaccati vissero, e vivono, l’esperienza di saltare lo stipendio, di averne comunque uno inferiore a quello che avrebbero altrove ecc..
Il problema che stiamo discutendo è, a mio avviso, un altro o, almeno, dovrebbe essere un altro. Si tratta, partendo dalla consapevolezza che la questione della burocrazia è significativa, oggettivamente, per il lavoratori sempre ma che si pone esplicitamente solo in momenti particolari di ragionarne a fondo.
Ora, il punto è che l’apparato sindacale, qualsiasi apparato sindacale ha interessi propri assolutamente normali. Questi interessi possono, ed è la norma per l’apparato dei sindacati di stato, essere non solo diversi ma configgenti con quelli dei lavoratori.
Basta, a questo proposito, guardare gli accordi e i contratti che scambiano reddito e diritti dei lavoratori con garanzie per l’apparato. Insisto su un punto, sebbene, a fini propagandistici, sia assolutamente corretto denunciare il carattere scandaloso di accordi del genere – basta pensare, per fare un paio esempi, alle trattenute per gli enti bilaterali che vengono imposte ai lavoratori del commercio o allo scambio fra taglio delle pensioni e accesso dell’apparato sindacale alla gestione dei fondi pensione – a livello analitico deve essere assolutamente chiaro che i sindacati concertativi fanno queste scelte perché è nella loro natura sociale.
Ritengo per, provvisoriamente, concludere assolutamente evidente che i lavoratori o, meglio, gruppi consistenti di lavoratori maturano una critica antiburocratica quando entrano in movimento, quando costruiscono nella lotta contro lo sfruttamento legami sociali che permettono un, problematico e magari effimero, superamento dell’atomizzazione che è la prima caratteristica della condizione proletaria “normale”.
D’altro canto, i militanti sindacali libertari, che io sappia, non riducono certo la loro attività alla critica della burocrazia sindacale né ne fanno un’attività specialistica che sarebbe decisamente singolare.
La nostra attività quotidiana consiste, come è ovvio che sia, nell’organizzazione della resistenza e della lotta allo sfruttamento capitalistico e statale.
L’attenzione alle pratiche di autorganizzazione, alla dimensione federalistica, alla critica antigerarchiche sono, però, un carattere specifico della nostra azione che non può essere liquidata come una fuga dalla realtà a meno di non assumere che lo stesso sindacalismo libertario è una fuga dalla realtà.
Fraternamente

Cosimo

Culture organizzative
diverse

di Pietro Stara

Credo che l’intervento di Cosimo sul percorso che ha portato alla formazione di una robusta burocrazia all’interno delle strutture sindacali di base sia fondamentalmente corretto. Alle sue osservazione vorrei, però, aggiungere due considerazioni, la prima estensiva/critica di un punto elaborato da lui ed una seconda a se stante.
La prima riguarda il punto relativo all’incremento delle funzioni relative alla consulenza: Cosimo afferma che questo apparato burocratico si è formato, in parte, per rispondere a delle esigenze concrete che ogni lavoratore pone nei confronti di una struttura sindacale: lettura buste paga, tutela legale, malattia etc. Se questo è un dato di fatto, occorre però chiedersi il perché ad una struttura sindacale vengano sempre più richieste prestazioni consulenziali e meno di lotta.
La via giudiziaria al socialismo, anarchica o comunista poco importa in questo caso, è frutto di alcuni aspetti che si sono tra loro sovrapposti e che hanno marciato parallelamente nel corso degli ultimi venti anni:

  1. La riduzione sensibile delle mobilitazioni sui posti di lavoro e del lavoro politico-sindacale che inevitabilmente faceva da contraltare al dispiegarsi delle lotte. Il sindacalismo, da questo punto di vista, ha subito lo stesso smacco, anche se in forma diversa, della politica militante.
  2. L’atomizzazione delle forme contrattuali (contratti a progetto, somministrazione, interinali…) che ha agito nel duplice senso di rottura ideologica e psicologica dell’unità di classe ed ha favorito il processo di delega delle rappresentanza.
  3. L’atomizzazione individuale, vera vittoria di un modello politico culturale del liberalismo di marca ottocentesca, da non confondere con il nostro (anarchico) individualismo socializzante e solidale.
  4. L’interiorizzazione della “specializzazione professionale” come processo di delega. Anche qui la politica, che ne ha preceduto i tempi, ma anche la cultura, l’organizzazione del tempo libero, la socializzazione in senso lato sono stati affidati, per essere completamente alienati dal popolo, a dei professionisti. Il sindacalismo anche in questo non è da meno.
  5. La violenza dell’attacco politico padronale che ha generato una sorta di ricerca individualizzata dei percorsi di sopravvivenza alle condizioni date ed imposte.

Penso che allora, se ciò corrisponde al vero, o parzialmente ad esso, che non si possa parlare di una singola burocrazia all’interno dei sindacati di base, ma di almeno due.
La prima è quella tecnica, dei patronati, dei CAF, dei consulenti o degli avvocati, insomma degli specialisti del mestiere, che possono, a seconda delle volte usare queste conoscenze per contrattare del potere gestionale, dei soldi, o del potere politico.
La seconda è quella politica, dirigenziale, di governo interno: in alcuni casi questa burocrazia detiene anche una profonda conoscenza dei meccanismi legislativo – vertenziali, ma quello che di essa ne fa la forza è soprattutto la capacità gestionale – relazionale, il presenzialismo totale (retribuito), la capacità politica e la formazione politica. Da ultimo, come in ogni organizzazione che si rispetti, è anche il controllo del flusso di denaro, proveniente dai vari servizi e dalle tessere che fa di questo ristretto gruppo un organismo dirigenziale come per qualsiasi altra azienda di produzione. Questo significa conseguentemente che colui che ha un ruolo decisionale all’interno del sindacalismo di base sia necessariamente un burocrate? Solo date le condizioni precedenti: la burocratizzazione può passare tranquillamente attraverso un processo di consolidamento della base militante, a volte storica, e non necessariamente al contrario.
La seconda osservazione riguarda un tema che dovrebbe essere approfondito per ogni organizzazione del sindacalismo di base e attiene la o le “culture organizzative”. All’interno del sindacalismo di base si sedimentano, crescono, si compongono e confliggono diverse culture organizzative, che rispondono in parte alle diverse culture sindacali e politiche di provenienza. Per alcuni, e non sempre a torto per capirci, soltanto un’organizzazione fortemente centralizzata è in grado di rispondere agli attacchi padronali, perché concentra al meglio la forza conflittuale in una struttura politicamente e sindacalmente disciplinata. Peccato che questo modello porti con sé una bella dose di autoritarismo, di verticismo, di personalismi ed una formazione burocratica a cascata, formata da vassalli, valvassori e valvassini. D’altro canto i sostenitori (come me) del federalismo organizzativo vanno spesso incontro a strutture sindacali deboli, molto confuse, dove un’altra burocrazia, locale, magari più subdola, dove gli incarichi si sovrappongono a gestioni personalistiche del potere, si somma all’inefficacia delle politiche di lotta. Sulla burocrazia occorre quindi ragionarci, ma in maniera non banale e non convenzionale ed è soltanto un bene che su questo tema possa aprirsi un dibattito aperto.
Per ora mi fermo qui.

Pietro Stara

Punto d’arrivo
e d’arresto delle lotte

di Simone Bisacca

Caro Cosimo,
proprio perché faccio di mestiere l’avvocato del lavoro, ripeto in tutte le occasioni possibili che non credo esista “la via giudiziaria alla rivoluzione”. Credo che il ricorso all’autorità giudiziaria nel conflitto tra capitale e lavoro dovrebbe essere ponderato e diffido della giuridicizzazione del conflitto sociale. Diciamo, brutalmente, che quando un lavoratore o, peggio, un sindacato, va dall’avvocato, ha già perso. Ha già perso perché ricorre al diritto e all’apparato statale preposto all’applicazione del diritto. I rapporti sociali sono rapporti di forza; nel diritto questi rapporti possono in un dato momento storico cristallizzarsi e il diritto, il diritto del lavoro in particolare, ha costituito nella nostra esperienza storica (parlo dell’Italia repubblicana) un punto di arrivo e di arresto delle lotte, da un lato; dall’altro, la riaffermazione del dominio del capitale sul lavoro. Per capirsi: lo statuto dei lavoratori del 1970 è stata una conquista che ha portato a compimento il disegno costituzionale dell’esercizio dei diritti liberali anche sul posto di lavoro (non solo nella società): diritto di opinione, di associazione, di riunione, non discriminazione per sesso, opinioni politiche, appartenenza sindacale, ecc. Ma la legge 300/70 viene dopo una stagione di lotte tutte svolte senza alcuna protezione legale, tutte basate solo sulla capacità di imporre all’avversario le proprie condizioni. Con lo statuto dei lavoratori assistiamo al riconoscimento in fabbrica degli stessi diritti che ogni cittadino ha nella società: e quindi al riconoscimento degli stessi diritti formali (l’ipocrita: la legge è uguale per tutti; sappiamo che non tutti sono uguali, nel senso che non tutti soggiacciono alla legge: il potere vero delle leggi se ne frega). Si assiste ad una formalizzazione del conflitto sociale, nel senso che vengono dettate regole per lo svolgimento del conflitto (cos’è l’art. 28 dello statuto?) o per i soggetti legittimati a trattare e a rappresentare i lavoratori (cosa significa la maggiore rappresentatività che consente di avere RSA, diritto di assemblea, di contributi sindacali, ecc.?).

Art. 18, un deterrente

Certo tutto ciò è una conquista, chi sputa sull’art. 18 dello statuto che ha impedito negli anni che tanti lavoratori combattivi non perdessero il posto? Al di là dell’applicazione pratica, l’art. 18 è stato e resta un deterrente. Ricordiamoci che dopo e insieme allo statuto dei lavoratori vengono negli anni ’70 la legge sul divorzio, sull’obiezione di coscienza al servizio militare, la riforma fiscale del ’73, la riforma del diritto di famiglia del ’75, i decreti delegati nella scuola, la riforma dell’ordinamento carcerario, la legge sull’equo canone del ’78, la legge sull’aborto dello stesso anno. Sicuramente dimentico qualcosa, ma vedi quante energie sono state spese dal movimento dei lavoratori per conquistare diritti liberali e quante lotte si siano giocate sul piano della produzione legislativa? Lo stato sociale è stato conquistato attraverso lotte, ma giacché le leggi le fa la maggioranza temporanea in parlamento, quando la maggioranza in parlamento è cambiata, in assenza di un forte contropotere nella società, è iniziata la lenta demolizione di quelle leggi, fino ad arrivare alla legge 30/2003, la famigerata riforma Biagi, che ha fotografato lo stato dei rapporti tra le classi e la supremazia del capitale sul lavoro. La legge Biagi non è stata promulgata da una maggioranza al soldo del capitale per indebolire la classe lavoratrice; piuttosto, è stata promulgata perché la classe lavoratrice è talmente debole che non è stata in grado di impedirne la promulgazione. E perché lo stato sociale è stato demolito pezzo a pezzo dagli ultimi governi dell’Ulivo e dal governo Berlusconi? Perché potevano permetterselo: nessuno si è messo di traverso. Sorge il dubbio che il difetto stia nel manico, cioè che l’ipotesi socialista (in senso lato) e cattolica di accesso delle masse alla partecipazione democratica, al potere, sia una trappola che priva di nerbo la classe lavoratrice: gli unici a prendere sul serio in Italia in questi ultimi cinquant’anni la democrazia sono stati proprio i lavoratori e le loro organizzazioni partitiche e sindacali. Cosa si ritrovano in mano? La difesa di quei diritti liberali di cui il capitale fa volentieri, e appena può, a meno. La democrazia è un gioco a cui solo i lavoratori hanno davvero giocato: gli altri ne fanno a meno, possono alla bisogna mettere bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni, quando sono sulla difensiva; possono imporre le loro leggi quando hanno la maggioranza in parlamento. E quando, come oggi, il potere passa attraverso il controllo e la gestione di produzione di immaginario (la mitica comunicazione) che fa la classe lavoratrice se non subire i modelli culturali del padrone? Incapace di produrre un senso proprio, cioè modelli di vita altri, la classe lavoratrice non può che subire. Chi non immagina il futuro, non può gestire il presente. Perché non ha un progetto un disegno un filo, per uscirne, non ha una rotta e quindi non può prendere il timone.
Il sindacalismo alternativo mi pare essere entrato in queste dinamiche giocando un ruolo negli ultimi venti anni di difesa di quello stato sociale che era stato conquistato attraverso le lotte, poi formalizzato nelle leggi citate sopra e aggredito poi in nome della globalizzazione e dall’esigenza di stare nel mercato nuovamente in mano al liberismo selvaggio. I partiti della sinistra e i sindacati concertativi hanno cercato di governare la ritirata per salvare il loro ruolo di interlocutori e quindi i loro apparati. Mi chiedo se e quanto sia stato produttivo per il sindacalismo alternativo fare la coscienza critica di questa ritirata, ritagliandosi il ruolo di assemblea dei refrattari che indicava come obiettivo il mantenimento dei diritti sociali per legge. Voglio dire che forse il gioco della democrazia ha preso un po’ tutti e si è perso di vista il fatto che le dinamiche descritte si svolgono dentro un grande gioco, quello, appunto, della democrazia, conquistata, persa, difesa, ridimensionata, ecc.

Avvocati come regolatori sociali

Tanti pensano che l’americanizzazione della nostra società mediterranea o europea passi attraverso la coca-cola o la precarizzazione del lavoro. È vero. Ma a me preoccupa più il fenomeno tutto americano del primato degli avvocati come regolatori sociali. Hai presente le cause delle associazioni ambientaliste o dei consumatori contro le grandi multinazionali?
In cosa si risolvono? In un risarcimento del danno. Voce che tutte le società mettono a budget, contabilizzano in bilancio. Il conflitto sociale è un costo che viene previsto e spesato a bilancio, compensato da tagli qua e aumenti dei prezzi là.
E quanto immaginario si spende nel mondo anglosassone per esaltare la figura dell’avvocato? Il sistema è marcio, ma se hai un buon avvocato puoi sempre vincere una causa e quindi pensare che in fondo il sistema ha anche i suoi correttivi, non è così marcio. Hai l’AIDS e sei un bianco avvocato omosessuale discriminato (Tom Hanks) con l’amante cicano (Antonio Banderas)? Ci sarà sempre un avvocato di colore (Denzel Washington) a battere in tribunale i cattivi, anche quando sarai crepato (chi non ha visto Philadelphia e chi non ricorda la colonna sonora del boss Bruce Springsteen?). Oppure A civil Action con John Travolta, avvocato che si rovina pagando di suo le perizie di una causa contro un’azienda che inquina e che ha mandato al creatore un po’ di giovani del paese? Alla fine del film John Travolta è effettivamente rovinato, ma manda le sue carte ad un’agenzia governativa per la protezione dell’ambiente e alla fine i cattivi pagano.
Oppure A proposito di Henry, con Harrison Ford cattivo avvocato delle aziende che si converte alla lotta contro le multinazionali che sfornano prodotti dannosi in barba alla salute collettiva?
O John Q sulle polizze sanitarie in America: le compagnie assicurative sono bastarde, ma c’è sempre un onesto che alla fine la spunta contro di loro.
Ed infine Codice d’onore: Tom Cruise, giovane e cazzone avvocato militare che inchioda in un memorabile interrogatorio Jack Nicholson, colonnello dei marines di Guantanamo (ma pensa!) reo di aver ordinato una punizione nonnista, un codice rosso, finita col morto?
Dopo la tirata cinefila, ti lascio con due immagini da quello che fu il Fiatnam e che offro come icone alla comune riflessione. FIOM, Sincobas, Slai e CUB hanno ottenuto dai giudici del lavoro di Milano e Torino provvedimenti ex art. 28 dello statuto dei lavoratori che hanno ordinato a Fiat di far tornare al lavoro i cassintegrati di Arese e Mirafiori del 2002/2003. Risultato? Un bel niente. Due giorni fa la Fiat ha ottenuto da un giudice del luogo un provvedimento d’urgenza che ordinava alla FIOM di rimuovere i blocchi (si dice ancora picchetti?) a Melfi. Risultato? Si va a spostare gli operai con l’ufficiale giudiziario? Al limite con la celere e i carabinieri, no? O con le trattative a Roma…

Rottamazione sociale

Caro Cosimo, quel che mi preoccupa di più è quando un compagno sindacalista di base mi chiama per strutturare l’ufficio vertenze o per aprire una causa su una certa interpretazione del contratto collettivo o di una norma di legge.
In questi anni mi è capitato per caso di essere coinvolto nella ristrutturazione Olivetti a Ivrea o nel massacro che la Fiat ha fatto a Torino: cessioni di rami d’azienda, cassa integrazione ordinaria, straordinaria, mobilità; smantellamento di un sistema produttivo manifatturiero e scambio politicamente e sindacalmente condiviso con un sistema di rottamazione sociale dei lavoratori vecchi e aumento di sfruttamento dei lavoratori giovani.
Ho condiviso e condivido percorsi di lotta anonimi (nel senso che non finiscono sui giornali) di singoli o gruppi che cercano nell’avvocato una difesa, ma insieme, e inscindibilmente, una ricerca di verità su quel che è capitato loro. Chi racconta la fine dell’informatica in Italia? Chi racconta la fine industriale di Torino? Suggerisco che l’inchiesta (troppo datato?) possa essere un campo dove il sindacalismo alternativo abbia molto da dire e fare: inchiesta intesa nel senso di capacità di analisi critica delle situazioni e proposta politica di uscita dalle stesse. Per far questo bisogna investire risorse nell’andare là dove stanno i lavoratori, più che nello strutturarsi per ricevere le loro richieste. Ci sono tante storie che aspettano di essere raccontate, tante energie da raccogliere. Bisogna scegliere: nel senso che si rinuncia al CAF, che fanno tutti e porta un po’ di soldi, se per fare il CAF si rinuncia a essere capaci di star dietro alle situazioni di tensione e di lotta. Se si è quattro cats, seppur wild, non si può far tutto. Essere la sinistra di CGIL-CISL-UIL e vendere un prodotto simile al loro, seppure più radical, è la vostra scelta?
È la vostra scelta politica? O i CAF i patronati gli uffici vertenze sono strumenti per raccogliere le forze che poi, convertite alla rivoluzione, si scateneranno contro il capitale? Fare la scelta di un sindacalismo di azione diretta e non di azione legale (scusa il gioco di parole) sarebbe sconsiderato? Chi ci perderebbe: la burocrazia sindacale o i lavoratori? Brutalmente e semplicisticamente: le attività di protezione dei lavoratori che servono a tirare su soldi servono ad alimentare un gruppo stabile (burocrazia) di attivisti sindacali che preparano la rivoluzione sociale raccogliendo e organizzando quei lavoratori catturati con l’offerta di servizi migliori e diversi dei sindacati concertativi? Oppure queste attività di protezione giustificano l’esistenza di un gruppo stabile di attivisti sindacali che ad esse si alimentano? In questa società che si va americanizzando, i singoli lavoratori sanno già che devono andare dall’avvocato.
Perché dovrebbero andare dal sindacato? Per avere un avvocato a miglior prezzo o addirittura gratis? Non dovrebbe essere così, non auspico che sia così.
Se i sindacati concertativi sono erogatori di servizi e cogestori della attuale gigantesca ridistribuzione del reddito sociale a favore del capitale, che li salva solo perché interlocutori utili a questa operazione, val la pena che il sindacalismo alternativo stia dentro queste dinamiche come paladino dello stato sociale che fu o si rimetta sulla vecchia e ardua strada dell’organizzazione dei lavoratori fuori dal sistema democratico rappresentativo e come mero soggetto di potere che si scontra con altri poteri (capitale e stato) senza mediazioni?
Con affetto

Simone Bisacca


Straordinaria
occasione

di Cosimo Scarinzi

Caro Simone,
la tua lettera pone questioni radicali in una maniera talmente stringente che, dopo averla letta, la prima domanda che mi sono posta è stata “Non è che, negli ultimi quindici anni abbiamo sbagliato tutto o quasi?”.
Mi riferisco alla scelta mia e di altri compagni di assumere il terreno sindacale come quello che – non penso, va da sé, sia l’unico ma certo non lo ritengo l’ultimo – da alla progettualità anarchica una dimensione concreto/sensibile. E, quando parliamo di scelta sindacale non parliamo dei sindacati che vorremmo ma dei sindacati che riusciamo, fra mille difficoltà e contraddizioni, ad animare.
Tu sai che ritengo la radicalità nella discussione un bene e non voglio sottrarmi alle questioni che poni.
Vorrei però farlo spostando l’asse della discussione perché temo che, in altro modo, non mi riuscirebbe di risponderti adeguatamente ammesso che, in questo modo e considerando che avremo tempo per tornare più approfonditamente sull’argomento, mi riesca di farlo.
Il dubbio che mi è sorto leggendo, in particolare, la tua lettera ma tenendo conto di altre lettere e discussioni, che la questione del nesso fra necessità di tutela dal punto di vista legale e della consulenza e derive burocratiche attuali e potenziali del sindacalismo alternativo abbia assunto una preminenza rispetto ad altri e pur interessanti elementi di valutazione che, se tenuti nel debito, almeno a mio avviso, conto potrebbero servire a ricollocare la questione in una dimensione più comprensiva dell’assieme dei problemi.
Mi riferisco, assai poveramente:

  • alle culture politiche di riferimento dei militanti sindacali alternativi e al ruolo che si può giocare da questo punto di vista sia mediante la produzione propriamente teorica che mediante la pratica sindacale quotidiana che non può essere ridotta, ma su questo credo siamo d’accordo, all’attività di tutela;
  • al fatto che la militanza sindacale libertaria è una straordinaria occasione di costruzione di relazioni con settori, anche se limitati, di lavoratori combattivi che altre modalità di militanza, pur utili e rispettabili, non ci permetterebbero di raggiungere;
  • alla stessa ipotesi di fondo che ha mosso me, ma non solo, un quindicennio addietro e cioè il convincimento che il riformismo al contrario e la distruzione del precedente compromesso sociale avrebbero poste le condizioni per lo sviluppo di un movimento radicale dei lavoratori.
Io credo che su queste tre questioni si debba ragionare e, soprattutto, lavorare. Tenendomi, per ora, a quella del riformismo al contrario, io credo che, agli inizi degli anni ‘90, anche sulla spinta delle mobilitazioni contro la politica sociale della sinistra – quanto è lontana, ahimé, la settimana dei bulloni – abbiamo forse troppo sperato ma anche, Melfi per fare un solo esempio, qualcosa vorrà dire che il processo allora delineato si stia, sia pure secondo tempi meno rapidi del previsto, o sperato, realizzando. E, se è così, si tratta di concentrare le energie nella prospettiva individuata assumendosi anche le inevitabili contraddizioni.
Per venire al merito specifico della tua lettera, credo che dobbiamo tenere presenti alcuni fatti:
  • nella società attuale si è determinato un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio, dal punto di vista economico, e sulla normazione burocratica della vita quotidiana, dal punto di vista politico. Questo modello di relazioni, la cosa va da sé, è proprio quello che combattiamo ma è anche un fatto che è la situazione dentro e contro (e noi valorizziamo ovviamente il contro) noi agiamo, non è ininfluente, per quel che riguarda le modalità di azione politica e sindacale che pratichiamo e le stesse forme organizzative che ci diamo;
  • questo sistema di relazioni si manifesta, inoltre, come complessificazione dei problemi e come conseguente crescita della specializzazione dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro. Evito di tediarti con considerazioni ulteriori sul ruolo del sapere tecnico e scientifico nel processo di produzione e di riproduzione sociale ma è evidente che, nella pratica sindacale, qualcosa contano il diritto e la medicina del lavoro, la conoscenza dei contratti e dell’organizzazione del lavoro, la rete di relazioni che si è in grado di mettere in campo;
  • se assumiamo, ed è ragionevole farlo, che l’attività di un sindacato è, propriamente parlando, un lavoro, ne consegue che questo lavoro tenderà a seguire le “regole del gioco” pena l’inefficienza e la marginalizzazione. Quando parlo di lavoro mi riferisco sia alla massa di saperi che sono utilizzati secondo una qualche forma di piano che a una serie di attività sia contingenti che continuative che vanno garantite.
  • d’altro canto, un aspetto particolare ma tutt’altro che secondario del lavoro sindacale è la necessità di essere punto di riferimento per le persone che si trovano, per qualche ragione, in particolare difficoltà sul lavoro, in particolare, ma non solo. Un lavoratore licenziato, sospeso o sanzionato, ad esempio, ha, di norma, assoluto bisogno di una tutela legale se, come capita sin troppo spesso, a livello aziendale non si danno le condizioni per mettere in atto un’efficace difesa collettiva;
  • se consideri, poi, che la frantumazione delle grandi aggregazioni di forza lavoro, la riduzione della dimensione media delle imprese, la precarizzazione, la presenza di una robusta quota di lavoratori immigrati aumentano massicciamente la quota di lavoratori isolati rispetto a tradizionali collettivi aziendali, mi riconoscerai che l’esigenza di questo tipo di tutela, che è un segno di debolezza collettiva, pare difficilmente eludibile per un soggetto sindacale. Per fare un solo esempio, non ritengo casuale che i lavoratori immigrati tendano a iscriversi a un sindacato, quando se ne danno le condizioni, più dei lavoratori italiani.
Detto ciò, non solo ritengo che si debba riconoscere che la pratica sindacale libertaria ha degli aspetti contraddittori e, in particolare, che il mio articolo può apparire, o essere, per certi versi, troppo interno di queste contraddizioni ma anche e soprattutto che si debba ragionare collettivamente sul come affrontarli. In particolare, credo che la tua lettera segnali la necessità di superare la divisione specialistica del lavoro che rischiamo di assumere acriticamente ma, e rigiro fraternamente la frittata, come farlo senza cadere in forme di pasticcioneria che, e lo so bene, tu sei il primo a considerare improponibili?
Con altrettanto affetto

Cosimo Scarinzi

Indubbio valore simbolico

Per ragioni contingenti che non hanno, di per sé, un particolare interesse, mi è capitato questo Primo Maggio di partecipare, al mattino a Torino, alla manifestazione, diciamo così, tradizionale e, nel pomeriggio, a Milano, alla May Day Parade.
Si è, trattato di un’esperienza, per certi versi, faticosa che ha, però, avuto il pregio di permettermi di porre a confronto in maniera diretta due modi diversi di vivere una scadenza che ha un indubbio valore simbolico.
A Torino, si è svolta la tradizionale manifestazione che vede la sinistra non istituzionale – e anche quella semi istituzionale, per dirlo con più franchezza che discrezione – sfilare alla fine del tradizionale corteo dopo la sinistra – e il centro che guarda a sinistra – parlamentare e CGIL-CISL-UIL ed avendo alle spalle solo i quadrati battaglioni di Lotta Comunista.
Un occasione per diffondere del materiale critico verso il governo, i padroni e la sinistra istituzionale, per vedere degli amici, per affermare, in qualche modo, le proprie posizioni e, in conclusione, per ritrovarsi nelle piole che abbondano nei dintorni della città a fare dei pranzi gradevoli che si concludono con faticose digestioni.
Per evitare equivoci, una pratica sociale che può essere soddisfacente e persino utile a fini politici ma che sconta, sarebbe sbagliato nasconderlo, una certa ritualità. È, infatti, evidente ai più che c’è una sinistra istituzionale ed una radicale, una autoritaria ed una libertaria e le stesse divergenze che le caratterizzano non sono certo una novità e che il ribadirle il Primo Maggio non è certo sbagliato ma non è particolarmente efficace.
A Milano, c’è stata la quarta edizione della May Day Parade, organizzata come una scadenza esplicitamente alternativa al Primo Maggio di CGIL-CISL-UIL come momento di aggregazione e mobilitazione dei lavoratori precari dal sindacalismo alternativo, CUB, Sin Cobas, Confederazione Cobas, USI ecc.) e da una rete di collettivi e raggruppamenti di precari fra i quali i più noti sono i Chainworker.

Successo crescente
Si tratta di un’iniziativa nata nel 2001 sulla base di un accordo fra CUB e Chainworker e che ha visto un successo crescente nonostante i dubbi iniziali sulla possibilità di costruire una scadenza seccamente alternativa a quelle tradizionali anche nell’orario (le tre del pomeriggio) e che, dopo il notevolissimo successo del 2003, ha visto aderire sia i sindacati di base precedentemente assenti come il Sin Cobas e la Confederazione Cobas che crescere l’interesse da parte di forze politiche (PRC, Verdi, Sinistra DS ecc.) e sindacali (in particolare la FIOM che non ha formalmente aderito perché il documento di indizione era decisamente critico verso la politica concertativa della CGIL ma è stata presente con un suo spezzone in coda al corteo) precedentemente non interessate all’iniziativa.
Si potrebbe, un po’ maliziosamente, dire “piatto ricco, mi ci ficco” o, all’americana “niente ha successo come il successo!”.
Una valutazione del corteo è, allo stesso tempo, facile e difficile. La partecipazione in primo luogo, io non sono molto abile nel fare i conti ma i compagni più pessimisti valutavano che vi fossero dalle 40.000 alle 50.000 persone, i più ottimisti oltre 100.000.
Al di là dei numeri, il dato politico, quello che ritengo sia più interessante è che è stato uno straordinario successo sia per il sindacalismo alternativo, in primo luogo la CUB ma anche altre organizzazioni, che per il movimento dei precari.
La scenografia garantita da una serie di carri variamente decorati, la vivacità della partecipazione, le musiche, la massa di giovani presenti hanno garantito un’allegria, una capacità di comunicazione e di coinvolgimento dei partecipanti che alle tradizionali manifestazioni del Primo maggio mancano ormai da molto tempo.
Nei fatti, la May Day Parade oramai funziona nel senso che ha realizzato il suo primo obiettivo e cioè porre al centro del dibattito politico e sindacale la questione della precarizzazione del lavoro, della distruzione dei diritti, dello svilupparsi di un robusto segmento della working class si inizia a mobilitare per il diritto al salario al reddito, alla casa, ai trasporti, alla formazione.
E lo fa con modalità comunicative sostanzialmente diverse non solo rispetto a quelle che caratterizzano i sindacati di stato – e in questo caso vi è un, evidente problema di contenuti politici visto che la sinistra parlamentare e sindacale ha precise responsabilità nella distruzione dei diritti – ma anche rispetto al sindacalismo alternativo il cui tessuto militante, per ragioni di età e di pratica quotidiana, deve misurarsi con pratiche, linguaggi, modalità relazionali ai quali non sempre è abituato.
Nella May Day Parade, in altri termini, si incontrano due generazioni politiche: quella dei militanti sindacali formatisi nelle lotte aziendali, nell’esperienza della nuova sinistra degli anni ‘70, nella capacità di tenere negli anni dell’offensiva padronale e quella dei giovani lavoratori che nascono già precarizzati, che hanno una memoria assai frammentaria delle lotte passate, che sovente hanno difficoltà e, magari, scarsa disponibilità a organizzarsi sul posto ci lavoro ma che si aggregano nei centri sociali e, comunque, sul territorio.

Superare i limiti categoriali
Si tratta, a mio avviso, di un incontro importante non perché sia facile, al contrario, ma perché è necessario se vogliamo, contemporaneamente porre il sindacalismo alternativo di fronte alla necessità di superare i suoi limiti categoriali ed aziendali e il movimento dei precari di fronte a quella di costruire rapporti di forza sui posti di lavoro per piegare l’attuale strapotere padronale.
In questa prospettiva, la differenza di stile fra militanti sindacali e giovani precari nel modo di porsi nel corteo appare appieno come una pluralità che non significa, necessariamente, separatezza ed, anzi, mi scuso per la banalità, può essere una ricchezza per il movimento.
Naturalmente molti nodi politici sono tutti da sciogliere, come si è già detto, settori della sinistra istituzionale alla ricerca di voti e di radicamento operano già per riportare all’ovile le pecorelle smarrite, la rivendicazione del salario garantito può facilmente ridare spazio a pratiche lobbystiche assolutamente negative (la presenza, ai margini del corteo – è vero – ingombrante di Salvi del correntone DS, di Cento dei Verdi, di spezzoni del PRC qualcosa vuole ben dire), c’è il rischio di un eccesso di spettacolarità incapace di tradursi in azione quotidiana sui posti di lavoro e nelle singole località (ed è quello che temo di più).
D’altro canto, un movimento sociale reale non può che essere attraversato da diverse posizioni e da diverse proposte e quella che valorizza l’autorganizzazione sociale e l’azione diretta è, a mio avviso, molto vicina alla sensibilità diffusa delle donne e degli uomini che hanno dato vita alla scadenza della May Day Parade.
È, in sintesi, un problema dei movimenti degli ultimi anni lo scarto fra alcuni momenti di mobilitazione e di aggregazione anche straordinari e la frantumazione individuale e di gruppo, al di fuori delle giornate campali, delle persone che li animano.
È, però, anche importante considerare che l’immaginario sociale non è affatto irrilevante anche per lo sviluppo delle singole lotte e che l’affermarsi forte di un’identità dei precari è una precondizione favorevole anche per le singole vertenze non fosse altro che perché favorisce il formarsi di una nuova generazione di militanti sociali.

Cosimo Scarinzi

 

Per saperne di più sul sindacalismo di base

CUB (Confederazione Unitaria di Base)
Il più consistente, dal punto di vista associativo, dei sindacati alternativi. È presente in tutti i comparti, in misura maggiore o minore.
È organizzata per sindacati di comparto, ne ricordiamo alcuni:
CUB Trasporti (ferrovie, autoferrotranvieri, aeroportuali ecc)
CUB Scuola
CUB Pensionati
FLMUniti Metalmeccanici
Flaica Terziario privato
RdB Pubblico Impiego, cooperative e servizi
Sallca Bancari
Le RdB, per la loro storia, hanno un loro assetto semiconfederale. Vi sono diverse sovrapposizione derivanti dalla storia della CUB, sia la Flaica che le RdB organizzano i lavoratori dei servizi, nei trasporti gli ambiti di intervento dei sindacati di settore sono definiti in maniera provvisoria ecc.
Confederazione Cobas
Presente soprattutto nella scuola nella quale è il principale sindacato alternativo ma con insediamenti in altri comparti
Sin Cobas
Presente soprattutto nel comparto industriale. È, fra i sindacati alternativi, il più vicino alla FIOM
Slai Cobas
Presente soprattutto nel settore privato. Ha un punto di forza all’ATM di Milano.
Tende a porsi come soggetto politico/sindacale.
Unicobas
Presente soprattutto nella scuola ma con insediamenti in altri comparti
USI AIT (Unione Sindacale Italiana – Association Internationale des Travailleurs)
Il tradizionale sindacato di orientamento libertario. Ha una consistente presenza nel settore della sanità a Milano.