rivista anarchica
anno 34 n. 300
giugno 2004


“A” 300

Lo scarto colmato
di Massimo Ortalli

 

Non si può immaginare una storia dell’anarchismo senza la storia dei suoi giornali.

Bologna, 1971, i portici dell’Università, occupata, in via Zamboni. Fra i soliti capannelli dei compagni dei gruppi e gruppuscoli che formano il variegato movimento studentesco, passano di mano in mano giornali e riviste: i quaderni di Potere Operaio, Lotta Continua, il mensile del Manifesto, il bolognese La Classe. Qualcuno mostra, con grande sprezzo del ridicolo, perfino Servire il popolo. Umanità Nova non è certo fra i più diffusi, forse sconta il taglio poco “classista” allora così in voga, forse alcuni anarchici, come il sottoscritto, scontano la loro confusione ideologica e la loro infatuazione per l’operaismo. Sta di fatto che la nostra stampa, come si suol dire, latita. All’ingresso della facoltà di Lettere, affollata come sempre, si avvicendano i diffusori di questi giornali, ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da leggere o commentare, ogni giorno i pochi soldi a disposizione escono dalle tasche per “sostenere” la stampa rivoluzionaria. Non starò a dire che mi mancava drammaticamente un giornale anarchico “all’altezza” (e non me ne vogliano i compagni che allora redigevano Umanità Nova se, nei miei ricordi, il settimanale della FAI stentava a tenere il passo con la nuova stampa del movimento), resta il fatto, però, che chi mi conosceva mi considerava pur sempre un anarchico, anche se avevo interrotto l’attività con gli anarchici, per cui sentivo, in un certo senso, il peso “morale” di un anarchismo che non riusciva ad esprimere un giornale in grado di rispecchiare e interpretare con più “modernità” lo spirito e le tensioni del tempo. Ebbene, ne fui certo allora e ne sono ancora più convinto oggi, l’uscita di A-Rivista Anarchica riuscì, e con bella spavalderia, a colmare lo scarto fra “noi” e “loro”. Quando, infatti, vidi le prime copie nelle mani di un compagno che ne strillava il nome nell’atrio della facoltà, mi resi conto che la perdita di terreno che l’anarchismo aveva marcato dopo l’ondata del mitico sessantotto, forse, poteva essere arginata. E il paradosso, forse involontariamente situazionista, era che questa apertura al nuovo si esprimeva nella prima pagina del primo numero con quella bella frase, così ottocentesca, di Pierre-Joseph Proudhon: «Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto...».
Leggo la rivista dal primo numero, non ne ho mai saltata una copia, e per questo, come è d’uso durante le premiazioni aziendali ai dipendenti anziani, potrei anche meritare una medaglia o un cipollone con catena, fosse pure di legno. In più riprese, allora e tuttora, ho contribuito e contribuisco a diffonderla, vi collaboro regolarmente da alcuni anni, in altri tempi la redazione ha pubblicato una qualche mia lettera o un occasionale contributo. Penso comunque che il mio rapporto con la rivista, a parte l’aspetto dell’assiduità che, ahimè, mi conferisce il privilegio dell’età, sia sostanzialmente simile a quello degli altri compagni. Uno strumento, soprattutto, uno strumento di discussione e di dibattito, una finestra sulle tematiche che ci interessano, una possibilità in più di dialogare con i compagni e con la società. Ma anche con noi stessi. Uno strumento che ha accompagnato la nostra presenza in tutte le fasi di quella profonda evoluzione, sociale ed esistenziale, che ha segnato il passaggio fra novecento e nuovo millennio. E che di quella evoluzione si è fatto testimone anche nella profonda evoluzione intellettuale dei suoi redattori. Uno strumento a volte lineare e prevedibile, a volte contraddittorio e spiazzante, come si conviene a un foglio che fa dell’affermazione della libertà, della piena libertà, la sua ragione d’essere. Come tanti altri compagni, nel confrontarmi con le pagine della rivista, con i suoi numerosi collaboratori, con le sue rubriche ed i suoi “esperti”, mi sono imbattuto, e a volte scontrato, con la ricchezza e la eterodossa diversità che caratterizza il nostro movimento, ritrovandovi le ragioni e le radici del nostro inesauribile, contraddittorio e fecondo dibattere.

Più di trent’anni della storia del movimento anarchico, dunque, accompagnati puntualmente dalla Rivista. Trent’anni di avventure, di iniziative, di lotte, di vittorie e sconfitte scandite e riflesse, anche, sulle colonne di A, testimone puntuale di tutto ciò che si è mosso dentro e intorno al nostro movimento. Coi suoi amici, e con i suoi “nemici”, specchio fedele e privilegiato dell’anarchismo di lingua italiana. Se è impossibile pensare a questa rivista, al suo ruolo e alla sua necessità, senza l’esistenza parallela dell’anarchismo in lotta e in azione, così, per altri aspetti, è parimenti impossibile pensare alle vicende del movimento anarchico, alle nostre vicende di militanti e protagonisti di lunghi anni di impegno e intervento, senza la parallela presenza della rivista. Senza questo ininterrotto, puntuale e prezioso strumento di informazione, di analisi, di approfondimento, di cronache, di contatti, di proposte.
È, il nostro, un movimento privo di forme di rappresentanza che non siano quelle che si esprimono e manifestano su un piano orizzontale. Un movimento estraneo a una rappresentanza codificata e ingessata dentro alle istituzioni e ai suoi strumenti, e che individua i mezzi per comunicare e relazionarsi solo nell’attività diretta della sua pratica quotidiana di lotta contro il potere. E tutto ciò anche e soprattutto tramite la carta stampata, megafono e centro di raccolta delle sue “informazioni”, espressione di un lavoro collettivo e di un collettivo sentire.
Il rapporto fra gli anarchici e i loro “giornali” è una costante, la costante simbiosi fra il movimento che agisce e le redazioni che delle azioni e delle idee dei loro compagni fanno un insostituibile strumento di propaganda, di diffusione, di elaborazione, di invasione in quel corpo sociale al quale fanno riferimento. Non si può immaginare una storia dell’anarchismo senza la storia dei suoi giornali, dei suoi fogli, delle sue riviste. Non si può immaginare la storia del nostro anarchismo, dell’anarchismo che conosciamo oggi, senza Umanità Nova, o Sicilia Libertaria, o Volontà, o L’Internazionale... o senza A-Rivista Anarchica.
E ne va riconosciuto il merito a chi allora iniziò questa avventura, ai redattori e ai loro collaboratori, che tuttora permettono che la rivista continui a increspare le acque del conformismo e a parlarci di libertà.

Massimo Ortalli