rivista anarchica
anno 34 n. 300
giugno 2004


tortura

La «banalità del male»
di Maria Matteo

 

Gente comune per storie di ordinaria tortura.

Sorridono spavaldi, in posa di fronte all’obiettivo. In altri scatti compaiono in atteggiamenti scherzosi, talora irridenti, talaltra seriosi come qualche volta si conviene persino in vacanza. Le foto dei torturatori di Abu Ghraib colpiscono per la loro terrificante banalità. I media ci informano che nel mazzo ce ne sono di "normali", in cui i protagonisti vengono ritratti in scene da depliant turistico esotico, in groppa a quel cammello su sui salgono tutti gli occidentali in oriente. Decine di amici sono tornati da questi viaggi "tutto compreso" con i propri volti sorridenti/impacciati mentre stanno in groppa ad un annoiato quadrupede. Magari qualcuno di loro si sarà anche vergognato in quel momento ma, poi, la prospettiva della foto ricordo ha fatto superare timidezze e titubanze.
In troppi nei giorni dello scandalo sulle torture ai prigionieri iracheni si sono affrettati a gridare alto il proprio orrore, la propria indignazione, per fatti indegni delle democrazie occidentali, per gesti che ne macchiano la dignità, ne mettono in discussione l’onore. Il "falco" Donald Rumsfeld, l’anima nera di George Bush, è stato obbligato a domandare scusa in diretta TV, promettendo esemplari punizioni per le mele marce.
Già, le mele marce: i sadici solitari, i mostri da espellere dal mondo civile, da additare alla pubblica riprovazione, da allontanare dai propri ranghi. Quelle persone infami che, negli stessi luoghi in cui il feroce Saddam straziava orrendamente i propri oppositori, si sono dilettati a umiliare e torturare altri esseri umani. Esseri umani che una propaganda razzista induce a considerare alla stregua di sottouomini, inferiori e cattivi, da trattare come bestie schifose e ridicole, la cui sofferenza e la cui umiliazione non ci toccano perché manca la compassione, il comune sentire e sentirsi umani che ci avvicina agli altri, divenuti simili, carne umana come la nostra è carne umana.

Presunta superiorità

Non possiamo oggi sapere come si concluderà lo scontro di poteri che all’interno dell’establishment statunitense ha reso possibile che le foto delle vacanze irachene di un paio di secondini abbiano fatto il giro del mondo. Non sappiamo quindi se George Bush e la sua amministrazione riusciranno a convincere l’opinione pubblica che le "mele marce" rappresentano un’eccezione limitata oppure passerà la tesi che i neoconservatori al governo non sono in grado di controllare la situazione, al punto di violare le regole del gioco democratico. Siamo di fronte ad una faida di vertice che, comunque vada, non metterà in discussione la legittimità dell’intervento in Iraq, l’opportunità della guerra infinita al terrorismo. La tesi di fondo rimane in ogni caso la stessa: quello che si vede nelle foto di Abu Ghraib, che le "mele marce" siano poche decine di sadici o il fango arrivi a lambire il trono di George II, non rappresenta la regola ma è sempre l’eccezione. Quello che viene discusso in questi giorni è la portata dell’eccezione, non la sua natura. La democrazia, e qui starebbe la sua presunta superiorità, è in grado di correggere i propri errori, perché sa sviluppare gli anticorpi contro gli attacchi virali che possono aggredirla. La linea di confine che rende possibile il permanere dello scontro di civiltà è sottile ma solida: la democrazia riconosce i propri errori ed è, quindi, il migliore dei sistemi possibili, l’unico in grado di garantire libertà e giustizia. Gli orrori di Abu Ghraib sotto Saddam rappresentavano la norma, sotto Bush sono un’anomalia correggibile.
Sia che il piccolo George debba a novembre cedere il passo a Kerry, sia che riesca a rimanere in sella al suo destriero da cow boy, la democrazia, l’occidente, la civiltà saranno salvi. Anzi. Risulteranno rafforzati dal superamento di questa prova. Sino alla prossima eccezione, ovviamente. Che, perdonate l’ovvia malignità, potrebbe essere resa pubblica in occasione di qualche altra tornata elettorale. Come diceva un uomo di potere di buona razza come il Divo Giulio: "a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina". Ma, allora altra acqua sarà passata sotto i ponti, ed il sangue lava il sangue. Basta prendere esempio dal buon vecchio Karol, specialista nel chiedere perdono per le malefatte – guerre, roghi, torture, persecuzioni – di ieri per poter meglio accingersi a quelle odierne. Ma qui parliamo di un campione di equilibrismo, di uomo cresciuto nell’alveo di un’istituzione millenaria, capace di cavarsela sotto tutti i cieli e in tutte le stagioni.
Arendt, riferendosi alla spaventosa "normalità" degli aguzzini nazisti coniò la celebre espressione la "banalità del male", chiarendo in tal modo che trattando da "mostri", da "eccezioni terribili", i torturatori, gli assassini, i genocidi non si faceva altro che esorcizzare la più terrificante delle verità: il male non è lontano, estraneo, non è l’orrore casuale, l’improvviso irrompere della follia che spezza l’ordine sociale: il male ha il volto del funzionario che ama i fiori ed i bambini, il volto di una ragazza di vent’anni che voleva vedere il mondo.

La negazione dell’altro

Il male lo incontriamo ogni volta che qualcuno indossa una divisa, sia quella dei Marine o la cintura dei kamikaze dello sceicco saudita più famoso del mondo. Il male lo incontriamo ogni volta che l’obbedienza e la gerarchia ci impongono la loro norma. Il male lo incontriamo ogni volta che la compassione cede il passo alla negazione dell’altro. Il male non è l’eccezione che rompe l’ordine sociale, ma, nelle società gerarchiche, è il cardine di quest’ordine, il perno intorno al quale si avvinghia per esistere.
È questa una verità banale, meno banali sono i meccanismi che la occultano, frantumandola in una miriade di narrazioni sulle quale affondano le radici le catene che ci avvinghiano, qui nell’Occidente democratico, come "là", dove regnano il fondamentalismo e la tirannide.
La narrazione fondamentalista pur apparendo più lineare, perché ispirata ad una "verità" trascendente, tuttavia si nutre dei mille risentimenti che alimentano il suo crescere come erba reattiva, che costruisce identità forti nella negazione dell’altro. E, soprattutto, dell’altra. La guerra all’Occidente non si gioca tanto sul terreno dei modelli economici o sul piano delle relazioni sociali, ma nella negazione della libertà femminile, quella libertà il cui emergere rompe un ordine gerarchico che solo nelle relazioni tra i sessi trova possibilità di esistere. L’iconoclastia talebana contro televisori, computer e istruzione scolastica appare residuale e destinata alla sconfitta di fronte ai telefoni satellitari della nomenklatura in turbante, mentre la ferocia contro le donne mantiene una sanguinaria materialità.
L’Occidente appare invece in bilico tra le tentazioni neofondamentaliste della destra più becera ed irosa ed il permanere del mito delle libertà democratiche.
Su "La Stampa" del 9 maggio Barbara Spinelli, pur denunciando la "banalità del male" che abbiamo di fronte, si abbarbica alla narrazione fondante dell’Occidente, quella che vuole la democrazia capace di far fronte all’orrore perché capace di nominarlo, perché vi è una stampa che lo sa denunciare. È un’affermazione che si svuota nel momento stesso della sua enunciazione, quando la stessa Spinelli elenca una lunga teoria di mostruosità che non hanno quasi trovato eco politica e mediatica: dai massacri di Mazar-i-Sharif, ai non luoghi della detenzione democratica come Bagram e Guantanamo, sino agli inascoltati rapporti di Human Rights Watch sulle "normali" violazioni dei diritti umani nelle zone di guerra. Chi avesse il coraggio di guardare in faccia la realtà vedrebbe che le foto di Abu Ghraib, tolte dagli album personali dei torturatori e pubblicate sui giornali, non sono altro che campagna elettorale. Pura e semplice.

Il volto feroce del potere

Forse non è male tornare a quelle foto, a quell’album dell’orrore. Quelle foto, se osservate con attenzione, ci mostrano meglio di tante altre il volto feroce del potere. Sono foto familiari, foto scattate per essere mostrate agli amici, per documentare una vacanza un po’ speciale. Sono le foto di secondini per i quali l’abuso è la norma, come testimonia Mumia abu Jamal, che nel volto di uno dei torturatori ha riconosciuto uno dei tanti "normali" carcerieri del braccio della morte dove vive da molti anni. È il volto di una ragazza di vent’anni che sorride soddisfatta nell’obiettivo, una ragazza il cui padre porta sull’auto la scritta "padre orgoglioso di un soldato americano". È probabile che il secondino e la soldata pagheranno per quelle foto. D’altra parte le imprudenze si pagano, specie se sopra di noi c’è qualcuno dannatamente importante cui bruciano il culo e la poltrona. Forse cadranno anche altre teste ed in tal modo si porrà fine allo "scandalo". Uno scandalo che finisce con il coprire, seppellendola, una realtà ben più terrificante. Fuori dalle mura di Abu Ghraib soldati americani, inglesi, italiani sparano sulle ambulanze piene di feriti, mentre cecchini prendono alla testa due fratellini di 5 o 6 anni. È accaduto a Falluja. Sta accadendo probabilmente anche adesso mentre scrivo e accadrà ancora mentre voi leggerete che case vengano rase al suolo da bombe a frammentazione, che i feriti muoiano di setticemia, che una donna partorisca da sola al buio perché ai medici è impedito raggiungerla. È accaduto, sta accadendo, accadrà. È la guerra. La guerra senza aggettivi. Senza i belletti di cui la ammantano i professionisti della penna, gli argonauti della comunicazione di massa, i cicisbei delle corti dell’Occidente libero e democratico.
Di fronte a questo non si grida allo scandalo, non si invocano le convenzioni violate, ma, al più, si parla di inevitabili conseguenze, di effetti collaterali. Guardateli bene: i cecchini di Falluja, i bombardieri che spianano le case e chi ci abita, la polizia militare che fa irruzione nell’intimità delle abitazioni seminando il terrore indossano le stesse divise, hanno gli stessi sguardi dei "mostri" ritratti nelle foto di Abu Ghraib.
Se l’Occidente ha ancora una coscienza questa non va ricercata nelle pieghe e nelle contraddizioni della democrazia reale, ma tra i tanti che sanno che il male non è l’eccezione ma la regola. Per frantumare questa regola feroce, la regola di ogni stato, di ogni fondamentalismo, di ogni esercito, occorre guardare negli occhi i veri mostri che annientano l’uomo, che distruggono la dignità, che sottopongono a tortura i corpi e umiliano le menti. Occorre vedere che lo sguardo di Lynddie England è lo sguardo di ogni uomo e di ogni donna che indossi una divisa, che accetti l’obbedienza, che si pieghi alla gerarchia. Uno sguardo normale, terribilmente normale in questo mondo mostruoso in cui siamo forzati a vivere.

Maria Matteo