rivista anarchica
anno 34 n. 301
estate 2004


Livorno

«Copriamo le vergogne»
di Maria Matteo

 

Il mondo in cui vorremmo vivere non può tollerare che i bambini muoiano in nome della libertà.

Siamo tutti disertori! Alla sera, al termine della manifestazione, si bivaccava dinanzi alla porta di una “torteria”, che è il nome che a Livorno danno ai posti dove si fa la “torta”, quella che altrove si chiama farinata o cecina, un cibo a base di ceci e olio d’oliva. Si aspettava che si liberasse un posto per mangiare. La città era come impazzita: appena un’ora prima il Livorno, giocando fuori casa con il Piacenza, era entrato in serie A, ed i tifosi amaranto erano scatenati con bandiere, clacson, canti. L’euforia, si sa, è contagiosa, e alcuni di noi si sono uniti al casino agitando le bandiere rosse e nere con cui avevamo partecipato al corteo del pomeriggio. La gente rispondeva sventolando quelle della squadra, mostrando la maglietta con il Che, ridendo a pugno chiuso.
A Livorno anche il calcio fa parte di un’identità in cui l’appartenenza di classe, la scelta politica non sono disgiunte ma si mescolano in un melange inestricabile.
Certo vi si respira un clima che, in questi tempi di berlusconismo, è difficile trovare altrove. Un clima che aveva fatto da contorno nell’intero pomeriggio alla manifestazione antimilitarista che aveva attraversato il centro cittadino per concludersi con un lungo happening in piazza Magenta.
Ma facciamo un passo indietro.
Il corteo del 29 maggio, indetto dalla Federazione Anarchica Italiana, era un appuntamento annunciato da oltre due mesi e vi hanno aderito e partecipato gruppi, associazioni, sindacati, centri sociali e posti occupati di area anarchica e libertaria da tutt’Italia.
Si è trattato di una scommessa non facile, quella di costruire un appuntamento fuori dalle logiche istituzionali alle quali sin troppo spesso si abbevera il pacifismo nostrano.

Livorno, 29 maggio: manifestazione anarchica organizzata dalla FAI (Federazione Anarchica Italiana)

Grandi emersioni

In quest’ultimo anno abbiamo assistito al consolidarsi di un movimento di opposizione alla guerra potente e capriccioso come un fiume carsico, capace di grandi emersioni in occasione di importanti appuntamenti nazionali pompati dai media, ma pronto ad inabissarsi nella quotidianità della lotta, incapace di radicamento. Un tale movimento rischia, al di là della indubbia buona fede di chi risponde agli appelli per le grandi manifestazioni, di risultare sostanzialmente ineffettuale, incapace di gettare realmente sabbia negli ingranaggi infernali del militarismo. Un militarismo che sempre più si alimenta alla fonte avvelenata di vecchi e nuovi nazionalismi, di vecchi e nuovi fanatismi. La retorica tricolore di cui si ammanta la destra vede una sinistra, anche quella “pacifista”, sprecarsi in distinguo, affrettarsi a chiarire che la propria opposizione al conflitto non può certo confondersi con posizioni antimilitariste. D’altra parte, e con buona pace delle tante anime belle del pacifismo arcobaleno, questa sinistra ha sin troppe volte chiarito che ci sono guerre giuste – quelle che si fanno quando si è al governo – e guerre sbagliate – quelle che scoppiano quando si siede sui banchi dell’opposizione. Tra le macerie del Kossovo e tra quelle di Baghdad è difficile cogliere queste raffinate differenze, sapere che la granata che ci uccide, la bomba che ci sventra la casa, il tumore che ci rode le carni sono piombo, acciaio e uranio umanitari. Magari con tanto di mandato dell’ONU.
A due settimane dall’appuntamento elettorale di metà legislatura ci è voluto Bush a Roma in visita all’amico Silvio in affanno elettorale, perché parte della sinistra, tra mille distinguo, esitazioni e prese di distanza, scendesse in piazza.
Una sinistra divisa tra il pacifismo in salsa ONU e nostalgici dell’Unione Sovietica, pronti a sostenere qualunque nazionalismo, qualunque regime purché si opponga all’impero del male a stelle e strisce. Da un lato quelli convinti che basta cambiare elmetto per trasformare un’occupazione militare feroce in un’operazione di peacekeeping, cuori di melassa affannati a non passare da anti-americani. Dall’altro la combriccola degli anti-americanisti – al governo, all’opposizione o extraparlamentari – che raccolgono vecchi arnesi dello stalinismo e fascisti più o meno rispettabili. È evidente che l’internazionalismo che ha segnato il movimento dei lavoratori sin dalle proprie origini, tanto da esserne un carattere distintivo imprescindibile, si è ormai dileguato insieme al progetto di un’umanità emancipata dalla tirannide capitalista e statale. E allora non potendo – e non volendo – più richiamarsi all’internazionalismo proletario, la sinistra marca in modo inequivocabile il proprio declino dividendosi tra anti-americanisti che sventolano le bandiere irachene e “americani” di sinistra, che si arrabattano in distinguo inutili. O, per meglio dire, che inutili dovrebbero essere per chi crede che la pace non si possa scindere dalla giustizia sociale, non certo per una sinistra il cui programma più ardito si potrebbe riassumere nello slogan “un capitalismo dal volto meno inumano”.
A Livorno l’intento è stato quello di congiungere l’opposizione alla guerra alla consapevolezza che le guerre le fanno gli stati e che un pacifismo che non sappia porre all’ordine del giorno l’abolizione degli eserciti, risulta alla fin fine sterile, incapace di afferrare e ed estirpare le intricate radici della guerra permanente. Una guerra le cui vittime, qui da noi come in Iraq o Afghanistan, sono sempre gli sfruttati, i senza potere, le donne e gli uomini che muoiono sotto le bombe ma anche quelli che crepano nei cantieri della nostre città e quelli che scompaiono nei nostri mari, tentando di toccare le nostre coste.

Contro guerra e militarismo

A Livorno gli anarchici e le anarchiche hanno manifestato contro la guerra ed il militarismo in una città, sul cui territorio da oltre mezzo secolo i “liberatori” americani hanno impiantato un base di morte. Da Camp Darby partono ogni settimana i rifornimenti e le truppe diretti in Iraq. Ogni giorno nelle centinaia di postazioni militari, aeroporti, poligoni di tiro, caserme del Bel Paese si amplifica la logica di morte e sopraffazione. Contro questa logica siamo scesi in piazza, contro questa logica il nostro impegno è sempre stato costante sia nei tempi bui della guerra permanente, sia in quelli della pace armata. Assediare i signori della guerra ogni volta che si riuniscono o vengono, come Bush, in vista nel nostro Paese è giusto, per ragioni che afferiscono alla dimensione etica del nostro essere e voler essere uomini e donne liberi, alla nostra convinzione che il mondo in cui vorremmo vivere non può tollerare che i bambini muoiano in nome della libertà. Ma non basta. Un assedio, per essere efficace deve durare nel tempo, circondando il militarismo sul nostro territorio, le fabbriche dove si costruiscono ordigni micidiali, le basi dove si addestrano gli assassini, le caserme ed i porti che con il loro filo spinato incidono le città, le campagne, gli arenili.
Con questo spirito diverse migliaia di anarchici e libertari hanno attraversato il centro di Livorno in un corteo vivace e determinato, in cui era chiara la volontà di aprire un canale comunicativo con la città, spiegando sia a parole sia con piccole azioni simboliche il senso della nostra lotta, la necessità dell’antimilitarismo. E Livorno, come sempre, ha risposto magnificamente. Ad un certo punto da una finestra sono partiti applausi e petali di rose e, lungo la strada, la gente si fermava incuriosita e per nulla intimorita dall’apparato poliziesco che ci tallonava.
Alla partenza alcuni compagni hanno aperto due striscioni antifascisti di fronte alla blindatissima sede del comitato elettorale del nazionalalleato Altero Matteoli, mentre, poco più in là, di fronte al monumento al partigiano, un compagno ricordava dal camion gli scontri che all’inizio degli anni ’60 avevano visto la Livorno proletaria opporsi all’arroganza fascista.
I numerosi bancomat sul percorso della manifestazione sono stati simbolicamente sigillati con cartelli riportanti la scritta “Contro la guerra e chi la finanzia – No alle banche armate”. Ho visto gente fermarsi per leggere il cartello, altri avvicinarsi per porre qualche quesito in clima di attenta partecipazione.

«Fiati sprecati» in corteo

Lungo tutto il percorso ci sono state brevi soste per comizi volanti mentre la banda dei “Fiati sprecati” suonava attirando l’attenzione dei numerosi passanti. Di fronte al monumento “Ai quattro mori” è stato collocato uno striscione con la scritta “Spezzare le catene del razzismo” mentre qualcuno poneva dei cappucci neri sulle teste delle statue: si è voluto in tal modo mostrare come la guerra interna contro i migranti non è molto diversa da quella esterna che colpisce persone la cui unica colpa è l’essere nate nel posto sbagliato.

Noi non ci stiamo

Al termine della manifestazione gli interventi dal palco, tra cui quelli di Tiziano Antonelli della Federazione Anarchica Livornese e di Giordano Cotichelli, che parlava per la CdC della FAI, sono stati intervallati da performance teatrali – il gruppo del Perlanera occupato di Alessandria – e musica – A band, Joe Fallisi e Alessio Lega.
Sull’altro lato della piazza un gruppo di compagni ha portato anche a Livorno la campagna “Copriamo le vergogne del militarismo” ed ha avviluppato con un’enorme telo di plastica nera il monumento alla vittoria che campeggia di fronte all’imboccatura di via Magenta.
Fermare la guerra, spezzare le catene del fanatismo religioso, delle frontiere sempre chiuse per i derelitti della terra impone un impegno che, pur non ignorando i grandi appuntamenti, si radichi nei territori e si faccia promotore di iniziative di carattere comunicativo, capaci di creare relazioni, costruendo un’opposizione alle politiche guerrafondaie che sappia coniugare l’afflato etico all’azione diretta, non delegata a nessun parlamento. Quelli che hanno manifestato il 29 maggio sono gli stessi per cui agire contro il militarismo e la guerra è un impegno quotidiano. Un impegno che ci auguriamo possa crescere sino ad inceppare la macchina infernale che, in nostro nome, uccide, stupra, violenta, opprime, affama. Noi non ci stiamo: siamo tutti disertori!

Maria Matteo

Alessio Lega e Joe Fallisi in concerto