rivista anarchica
anno 34 n. 301
estate 2004


anarchici

 

Sogno d’amore

È una bella conferma questa di Angelo Toninelli. Dopo il suo Luigi Regoli anarchico, che inaugurò questa rubrica, è uscito ora il suo nuovo romanzo Un sogno d’amore (Edizioni ETS, 2003) ambientato nella Firenze operaia ed artigiana dei primi anni settanta dell’Ottocento, quando, sulla spinta della Comune di Parigi, delle sue grandi glorie e dei suoi immani drammi, cominciano a diffondersi anche in Italia le idee di emancipazione sociale della Prima Internazionale. E il sogno d’amore che dà il titolo all’opera è, sì, quello che si concretizza nell’unione fra il giovane falegname Andrea Savioli e Giulia, ma anche quello che diventa il sentire comune di una intera generazione, la prima generazione dell’Italia unita, che, sulla spinta della nuova identità nazionale, ne trascende e ne supera i contenuti facendosi internazionalista, rivoluzionaria, anarchica.
Toninelli ha scritto, indubbiamente, un romanzo storico nel senso più pieno della parola, un romanzo, cioè, nel quale si intrecciano indissolubilmente gli avvenimenti pubblici e privati di quegli anni lontani. E, di conseguenza, anche la piccola folla di personaggi che ne anima le pagine risulta una felice mescolanza di figure di fantasia e figure in carne e ossa. Di qua Giulia e Andrea, il pittore Riccardo Pampana e Margherita, il carrettiere Franco e la fidanzata Francesca, i popolani, i contadini, i cavatori e gli artigiani che avvicinano, e si avvicinano, alle nuove idee di libertà e di uguaglianza; di là i protagonisti storici del tumultuoso e avvincente periodo di fermenti e speranze che prende l’avvio nel 1871. Ed ecco, allora, i “padri della patria” Garibaldi e Mazzini, con i loro epigoni locali, Castellazzo, Socci, Stefanoni e Martinati; e poi i nostri “padri”, Cafiero soprattutto, mite e generoso, e Malatesta e Costa e Bakunin, e i loro primi seguaci toscani, Francesco Natta, Gaetano Grassi, i coniugi Pezzi, Lovari. E via via tutti gli altri. E accanto a loro, a fare da contraltare nello schema narrativo come nella realtà di quegli anni, questori e funzionari, giudici e avvocati, ministri e regnanti, l’altra Italia, quella ufficiale, intenta a rafforzare le deboli strutture del nuovo Stato e a cercare di controllare, naturalmente per reprimere, tutto ciò che si discostava dalla retorica della Nuova Nazione.
La vicenda, nel suo sviluppo narrativo, nel suo intreccio fra vicende private e pubbliche, è quanto mai lineare. Andrea Savioli, falegname figlio di falegnami con bottega nel quartiere di Borgo Allegri, divenuto amico ed allievo del meccanico Francesco Natta, instancabile organizzatore del movimento, si avvicina alle idee dell’Internazionale, giunte in Italia, soprattutto nelle Romagne e in Toscana, sull’esempio dei comunardi parigini. Partecipa quindi attivamente alla costituzione della prima sezione internazionalista fiorentina e ai momenti più significativi di quel faticoso ma inarrestabile progredire dell’idea anarchica, che per affermarsi dovette contrastare non solo la scontata reazione dell’autorità, ma pure le lusinghe strumentali e gli attacchi interessati dell’associazionismo democratico borghese, guidato dagli accorti seguaci di Mazzini e da quelli, più confusi, di Garibaldi. Divenuto presto abile propagandista ed agitatore, Andrea divide la sua vita fra l’amore e le attenzioni per Giulia, forte e affezionata compagna di vita e di idee, e l’impegno politico e sociale, fatto di continue trasferte nel contado e nei vicini paesi per portarvi le nuove idee di libertà. Sono occasioni di incontri, di discussioni e di nuove conoscenze, momenti resi felici dal progressivo svilupparsi dell’organizzazione, momenti resi difficili dalla necessità di conciliare il proprio lavoro, provato dalla crisi seguita al trasferimento della capitale a Roma, con l’impegno dovuto alla propaganda.

Propaganda, congressi e scioperi
E lungo questo percorso sulla strada dell’emancipazione e della ribellione, veniamo a incrociare, come dicevamo, i momenti salienti della nascita dell’anarchismo in Italia, dagli approcci propagandistici di Cafiero e Costa con gli ambienti artigiani e proletari delle città ai congressi internazionalisti, più o meno clandestini, di Rimini, Mirandola e Pisa, dalla esperienza della Baronata, con la sua estroversa e a tratti pittoresca compagine di frequentatori, ai primi scioperi operai, dalle provocatorie mene questurinesche dei vari Terzaghi ai tentativi insurrezionalisti del 1874, sfociati nei grandi processi del 1875. È un succedersi di fatti e avvenimenti quali possiamo ritrovare nei testi sul primo socialismo italiano (e qui, infatti, riporto alcuni brani de Le origini del socialismo a Firenze di Elio Conti, al quale si è sicuramente ispirato Toninelli), talmente fitto e particolareggiato, da sopraffare addirittura, soprattutto nei capitoli finali, la storia personale di Giulia e Andrea. Ma anche se, per certi aspetti, le vicende dei protagonisti passano in secondo piano per cedere il passo ai “fatti” della storia, rimane pur sempre la vividezza del ritratto appassionato di un ambiente e di figure rese grandi dalla “grandiosità” degli avvenimenti di cui furono partecipi. Ecco quindi, nei capitoli finali, la fuga di Andrea per sottrarsi alle retate, il riparare sui monti della Garfagnana dove trova le proprie radici nell’accoglienza di una famiglia di lontani cugini, i contatti con un altro mondo di proletari e lavoratori, i cavatori delle Apuane, che autonomamente stanno dando corpo, anch’essi, al loro sogno d’amore. Sono, queste della latitanza, pagine intense e a tratti commoventi, per come riescono a restituirci la comune e profonda semplicità del sentire di quei giovani generosi e pronti al sacrificio.
Il racconto si conclude con il grande processo di Firenze del giugno 1875, quando decine di internazionalisti toscani, tra cui Andrea, sono accusati di aver ordito una cospirazione con il fine della rivoluzione sociale. È il secondo processo in Italia all’Internazionale e alle sue idee, quello che avrebbe dovuto tagliare le ali al movimento sulla base di accuse infamanti, e che invece vede completamente capovolti gli intenti della pubblica accusa. Come ebbe a scrivere Masini, “il processo divenne un clamoroso fatto di propaganda socialista con l’autodifesa di Francesco Natta (che qui riporto quasi integralmente nella coeva ricostruzione fatta dall’avv. Bottero). Dopo aver posto ai giurati inquietanti quesiti non sulla propria innocenza o colpevolezza ma sulle condizioni degli operai italiani disoccupati, sfruttati, privi di assistenza, di mezzi di vita e dei più elementari diritti” il meccanico Natta (a cui dedico questo ritratto) “costringeva” la Corte ad assolvere non solo i singoli imputati ingiustamente accusati, ma pure la stessa Internazionale. A dimostrazione che, in quegli anni, o la borghesia non aveva compreso il pericolo che poteva derivare dalla diffusione delle idee libertarie e socialiste, o le strutture del nuovo stato non erano ancora adeguate alle mutate esigenze di controllo e repressione.

Sono molti i pregi di questo lavoro: una innamorata ricostruzione della Firenze dei borghi e delle piccole vie che oggi non c’è più, un affresco storico derivante da robuste letture, tanto attento e particolareggiato da rischiare, addirittura, di diventare invadente, una felice capacità di ricostruire non solo i fatti ma anche la mentalità e il sentire di quel piccolo mondo di popolani e artigiani che esprimevano, nella loro semplicità, la grandezza di una “cultura” altra e ostica alle banalizzazioni. Ma forse il suo pregio maggiore sta proprio nell’avere colto questo aspetto così peculiare delle comunità proletarie del passato, ossia la loro capacità di creare una rete di relazioni nella quale ogni individuo era anche la parte di un tutto, per cui l’impegno sociale non era soltanto un “dovere” sentito dalla parte più sensibile e generosa del proletariato, ma un patrimonio comune del borgo o del quartiere. Era su queste premesse che si innestavano le idee di libertà e le conseguenti forme organizzative contro l’oppressione e lo sfruttamento, era da queste premesse che nasceva, insopprimibile e meraviglioso, il loro sogno d’amore.

Massimo Ortalli

 

La camicia rossa
di Elio Conti

Nel contado fiorentino la propaganda era stata iniziata fin dal 1872 ad opera del Fascio Operaio. L’anno seguente la “Sezione di propaganda internazionale fra i contadini” diffondeva diversi manifesti diretti ai “Fratelli della Campagna”. Ma nell’indifferenza e nell’insensibilità politica dei mezzadri le idee socialiste incontrarono un ostacolo insuperabile. Maggiore fortuna incontrarono invece fra i braccianti e gli artigiani dei piccoli centri che, come abbiamo visto, costituivano una categoria miserabile ed irrequieta. Sezioni dell’Internazionale si costituirono ben presto a Ponte a Rifredi, a Ponte a Ema, a Sesto Fiorentino, a Rignano, a Prato, a Fiesole. Il paese in cui la propaganda internazionalista assunse proporzioni maggiori fu quello di Pontassieve, la cui Sezione partecipò anche al Congresso regionale di Pisa del dicembre 1874.
Nei piccoli centri, dove non esistevano gruppi compatti di operai e dove le idee politiche, inserendosi nelle lotte e nelle passioni locali, subivano necessariamente una deformazione, l’Internazionalismo assumeva una fisionomia particolare, paesana, per i pochi affiliati, generalmente reclutati fra gli elementi più irrequieti, le idee anarchiche costituivano uno stimolo alle più strambe ed ingenue manifestazioni, come alle più audaci ribalderie. I signorotti locali e le autorità avevano interesse naturalmente a generalizzare questi episodi. Il delegato di Pontassieve, tratteggiando, in un rapporto al questore, le figure dei più noti internazionalisti del paese, si sforzava di dipingerli come la peggiore e più pericolosa canaglia. Un tintore veniva descritto come individuo “dedito al vino e al gioco” già condannato per “ingiurie e lesioni” e con “poca voglia di occuparsi della sua professione”; un calzolaio, anch’esso condannato per lesioni, era “dedito alle risse ed ai clamori notturni”, un suo collega, che sapeva “appena leggere e scrivere”, mostrava “pochissima voglia di lavorare essendo molto dedito al gioco”; “al vizio del vino” pare fosse dedito invece un cappellaio che “fa il sapiente mentre non ha alcuna istruzione”; anche ad un contadino piaceva “fare l’uomo sapiente ma – si affrettava ad aggiungere il delegato – è di un’ignoranza la più crassa”, e “legge i giornali solo per chiacchierare”; un muratore era stato condannato per frode, mentre un suo compagno pare avesse la debolezza di indossare “per pompa nei giorni festivi la camicia rossa”.

 

Il piano
di Elio Conti

Nel frattempo si diffondevano in città voci allarmistiche sull’arrivo di una banda romagnola nel Mugello: truppe furono inviate dalle autorità a Borgo S. Lorenzo, Scarperia, Marradi e numerose perlustrazioni vennero eseguite sui monti dell’Appennino, ma delle “bande armate di tutto punto” nessuna traccia.
Il giorno 12 il Natta spedì dall’Emilia la parola d’ordine per l’inizio dell’insurrezione. Immediatamente il Grassi ed il Lovari, componenti il Comitato rivoluzionario, riunirono alcuni degli affiliati fuori la Porta a Prato, decidendo di iniziare la sommossa alle ore 21 dello stesso giorno.
Il piano degli internazionalisti sembra fosse il seguente: al segnale dato da un incendio provocato in un punto della città, mentre il grosso degli internazionalisti si sarebbe riversato nelle vie dei quartieri popolari per chiamare a raccolta gli operai ed organizzarli, una banda armata avrebbe preso la via di S. Casciano per impadronirsi dei fucili della guardia nazionale depositati in quel comune; quindi, ingrossata da nuovi elementi, si sarebbe data alla campagna per richiamare le truppe di presidio in Firenze e distrarre l’attenzione delle autorità. Allo stesso modo una banda armata si sarebbe formata in Pontassieve per dirigersi a Firenze, interrompendo lungo la via le comunicazioni telegrafiche e ferroviarie. In città gli insorti, organizzati per squadre in ogni quartiere, avrebbero dato l’assalto alle carceri per liberare tutti i detenuti, poi avrebbero attaccato, col getto di materie incendiarie e al grido di “fuoco!”, il Palazzo Vecchio, la prefettura, la questura, il gazometro e le botteghe degli orefici sul Ponte Vecchio.

Brani tratti da: Elio Conti, Le origini del socialismo a Firenze, Rinascita, 1950.

Uguaglianza assurda
di Alessandro Bottero

(Stralcio della requisitoria del Pubblico Ministero, N.d.R.).
Ora l’Internazionale prendendo il progresso a regresso sopprime ogni libertà e proprietà individuale per sostituirvi l’immane dispotismo collettivo ed in nome d’un’uguaglianza assurda ed impossibile vuol parificare il ricco al povero, l’abile all’inetto, il forte al debole; il previdente al negligente, il probo al vizioso disconoscendo che la maggiore o minore attività nel lavoro è sorgente d’ineguaglianza, e che tale ineguaglianza materiale è pegno di uguaglianza morale, conseguenza del principio che ogni uomo deve essere retribuito a seconda dell’opera sua e di quanto ha meritato.
Nell’ordine civile e giuridico si vuole l’emancipazione assoluta della donna, l’abolizione del matrimonio la trasformazione della famiglia e la distruzione in una parola di tutte quelle istituzioni che sanzionate dalla legge, rappresentano perciò il privilegio, e son quindi chiamate borghesi come Borghesia l’insieme delle classi che di quelle partecipano.
Avete udito la lettura dei documenti che si riferiscono alla costituzione delle Sezioni di donne nell’Internazionale italiana,– ivi sono scritte le nuove teorie sull’emancipazione della donna.
Il Costa ed i pubblicisti della Lega così le riassumono: “povera, abbietta, avvilita, condannata ad un lavoro insopportabile, esposta, ai capricci brutali dell’uomo, la donna deve scuotere il giogo secolare che la opprime per sollevarsi a libertà, deve insorgere a domandare i suoi diritti, schierarsi con i proletari onde combattere il privilegio e l’autorità, deve alzare la fronte ed affermarsi, gridarsi non più la soggetta ma la uguale dell'uomo, essa destinata a formare la famiglia avvenire antitesi completa dell’attuale la quale non è ché schiavitù e tirannia”.
La famiglia nuova infatti deve poggiarsi sulle basi della libertà e dell’amore, quindi eliminazione del vincolo indissolubile e legittimità del divorzio. Il libero amore senza legali formalità è l’espressione semplice di una legge immutabile di natura; quando l’uomo e la donna non si amano il matrimonio è sciolto di fatto e nelle unioni e nelle divisioni non possono né debbono entrare, per i dettami di natura, calcoli egoisti, contratti notarili, benedizioni di preti, articoli di codice civile e simili forme.
Il matrimonio attuale è la tomba dell’amore, è la fonte dell'autorità maritale e paterna; il matrimonio avvenire sarà quello dell’amore libero solo interprete dei veri bisogni naturali non profanabile da alcun esercizio di autorità.
Queste teorie, o Signori, basta esporle per giudicarle ed io volentieri passo oltre.

Vittima del Capitalismo
di Alessandro Bottero

(Stralci dell’autodifesa di Francesco Natta, N.d.R.).
Voi o signori Giurati vi trovate di fronte un onesto operaio accusato di cospirazione, contro lo Stato, per il solo fatto di appartenere all’Internazionale.
Qualunque possa essere il Programma di detta Società, io non prenderò a svolgerlo perché superiore assai alle mie forze.
Solo mi limiterò a parlarvi di quella parte materiale del programma che più da vicino mi riguarda come operaio, e per il quale ho preso una parte attiva.
Le ingiustizie e le sofferenze di cui l’operaio è continuamente vittima del Capitalista e del monopolio, senza trovar altro che vane promesse, o non curanza ai suoi giusti reclami, giustificano pienamente l’esistenza di quest’Associazione la quale ha per scopo immediato la organizzazione del Lavoro.
(…).
Dunque o signori Giurati dietro a questi eloquenti fatti, in Italia si deve conchiudere, che l’operaio legalmente non puol che piangere le sue miserie in seno alla famiglia, soffocando però quei gemiti, affinché non venghino sentiti in pubblico, correndo il pericolo di essere cambiati come voci sediziose, e come tali condannati.
Conchiudo adunqe col dire che l’Internazionale in Italia, si presenta sotto un aspetto assai diverso a considerarsi da quello del Pubblico Ministero.
(…).
Ora, o signori Giurati, se considerando questi fatti e come liberi cittadini, e di una classe agiata della società, di fronte a una moltitudine affamata di operai privi di lavoro, con dei vecchi impotenti e dei pargoli macilenti fra le braccia delle loro madri squallide e smunte dalla miseria, che sorgono spinti non dai raggiri di un partito, ma da una causa assai più potente, cioè la miseria; sorgono dico, a tumultuare contro chi potendo non prende rimedio, e che invece di provvedervi, immaginano una cospirazione impossibile; se credete che questi infelici ma onesti operai, che chiedono pane e lavoro, siano degni di casa di forza, allora non mi rimane altro che subire con calma la mia sorte, convinto che non ho nulla a rimproverarmi.
Ma se invece, nella vostra coscienza ha potuto penetrare quel grido straziante, che con le mie deboli forze ho cercato richiamarvi alla mente, oh allora non dubito di trovare in voi un atto di giustizia, e per me sarà un giorno di gioia abbracciando i miei figli, poter dire: Non tutti i borghesi sono insensibili!

Brani tratti da: Alessandro Bottero, Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo, Capaccini, 1875.

 

«Gliela facciamo in barba»
di Angelo Toninelli

Le gallerie dell’Appennino e le ripide scarpate su cui correvano le rotaie gli facevano trattenere il fiato. Rimase per tutto il viaggio inchiodato al finestrino, poco curandosi dei sorrisi degli altri viaggiatori. “È la prima volta”, si scusò, girandosi, per tornare subito con gli occhi al vetro, oltre il quale scivolavano via boschi, burroni, torrenti incassati tra le rocce e il buio improvviso delle gallerie, che lo faceva sobbalzare, con il fischio della vaporiera che assordava. Bologna gli apparve in basso, dopo una lenta curva, con i palazzi, le chiese, le case tutte di rossi mattoni e un velo di nebbia sopra i tetti.
Gli fu facile trovare Giovanni, che lo condusse fuori della stazione attraverso la folla che sostava nella sala. “Vieni dietro, ma a una certa distanza,”, gli disse sottovoce.
Si incamminarono svelti verso un caffè sotto il portico, al di la della piazza.
“Aspettami qui”.
Giovanni entrò nel caffè e poco dopo uscì insieme a due uomini.
“Vi mando subito chi vi accompagna”, e si allontanò diretto alla stazione.
“E te di dove vieni?”, chiese ad Andrea uno dei due, un meridionale alla parlata.
“Da Firenze”.
“Io dalla Puglia”, e gli diede la mano, “e l’amico da Palermo”.
Si avvicinò un ragazzo, che fece un cenno con la testa perché lo seguissero.
Proseguirono per un tratto sotto il portico, poi attraversarono la strada ed entrarono in un vicolo.
“È pieno di sbirri intorno”, disse il ragazzo con aria allegra, “ma noi gliela facciamo in barba”.
Passarono da una stradetta all’altra, poi in un orto, in una casa, uscendo da una porticina che una donna aprì dopo aver guardato fuori. Nessuno disse una parola.
Giunti in uno spiazzo sterrato, il ragazzo fece cenno di fermarsi, attraversò di corsa e sparì dietro un cancello, per riapparire dopo poco.
“Venite”.
Oltre il cancello, da un capannone di mattoni con le alte finestre protette da grate di ferro arrivava la voce di uno che parlava, sommersa tratti da un brusio. I due uomini presentarono dei fogli a qualcun dietro la porta; Andrea tirò fuori la lettera di Francesco e la consegnò a uno che la lesse, lo squadrò con aria severa e si fece da parte per farlo entrare.
Dentro il capannone, molti uomini se ne stavano seduti su panche allineate di fronte a un tavolino, intorno al quale Andrea riconobbe Cafiero e Costa; altri erano in piedi, appoggiati alle pareti. Un uomo, il presidente del congresso Zanardelli, come seppe poi, in piedi dietro il tavolo, gesticolava e parlava ad alta voce, ma Andrea non riusciva ad afferrare che qualche parola. Cercò di farsi largo e avanzare, quando sentì una mano posarsi sulla spalla.
Era Gaetano.

 

Stroncare la propaganda
di Angelo Toninelli

Ad Andrea non era mai capitato di fare un’esposizione filata degli argomenti, come si era preparato, ma era meglio così: anche in quel modo, con continue interruzioni, riusciva a dire le cose essenziali, che bisognava ribadire di continuo. Punto primo, senza il quale era inutile qualsiasi altro ragionamento, l’uguaglianza e la libertà di tutti gli uomini, e quest’ultima intesa come rispetto della libertà degli altri; poi, di conseguenza, il diritto e dovere per tutti di lavorare, di non sfruttare e non essere struttati, quindi la fine di ogni privilegio; infine il rifiuto di affidare ad altri la propria vita.
“Dici bene”, era questa l’obiezione che i più facevano: “Ma per venire al sodo, cosa proporresti di fare?”
La risposta era sempre la stessa:
“Se siamo d’accordo su quanto s’è detto, il da farsi dobbiamo deciderlo insieme, perché poi tutti ci si deve impegnare a che le cose marcino come s’è deciso”.
Ci teneva a mettere in chiaro le carte. La differenza tra l’anarchia dell’Internazionale e la politica dei borghesi, si chiamassero di destra e di sinistra, monarchici o repubblicani, consisteva in questo, che i politici pretendevano di imporre a tutti cosa fare per il bene generale – che solo loro conoscevano – e chiedevano al popolo di affidarsi a loro; l’anarchia invece significava l’impegno di tutti ad associarsi insieme nel lavoro, collaborando a soddisfare i bisogni di tutti. Era complicato? Certo. Si trattava di trasformare la società con regole semplici e giuste: nessuno poteva oziosamente campare sulle spalle degli altri e l’istruzione avrebbe consentito di sviluppare, nel lavoro, le inclinazioni e le capacità di ognuno. Lui, Andrea, avrebbe continuato a fare il falegname, mestiere che gli piaceva fare, e loro, lavoratori della terra, avrebbero prodotto i beni che sapevano produrre, ottenendo in cambio dagli altri il necessario per vivere. Se la storia degli uomini aveva partorito una società come quella in cui vivevano, che perpetuava la disuguaglianza e l’ingiustizia, gli anarchici non dovevano indietreggiare di fronte alla difficoltà di costruire un modo di vivere completamente diverso. Anzi, dovevano andar fieri del loro programma, l’umanità avrebbe incominciato un nuovo cammino: bisognava estirpare nell’uomo l’egoismo e la violenza e coltivare la fratellanza, la solidarietà.
“Noi lavoratori però si deve capire prima di tutto che nessuno ha interesse a liberarci dalle catene che ci tengono schiavi. L’emancipazione, lo dice lo statuto dell’Internazionale, non può essere che opera nostra”.
Ed ecco sempre l’altra domanda:
“E chi comanda oggi, se n’andrà zitto e buono?”
“Noi si cerca di diffondere le nostre idee, pacificamente, discutendo come si fa oggi. Quando i lavoratori, che sono la maggioranza del paese, vorranno realizzare il nostro programma, vedremo cosa faranno i padroni e ci si comporterà di conseguenza. Il governo e la polizia non perdono occasione per tapparci la bocca. L’hanno fatto a Firenze, chiudendo il Fascio, e a Bologna, dove volevano impedire il nostro congresso. Se tanto mi dà tanto, non se ne andranno con le buone. Allora, o ci si rassegna a rimanere sempre dei sottomessi o bisognerà lottare. A Parigi, due anni fa, il popolo s’è ribellato e ha dato del filo da torcere ai governanti borghesi. C’è stata una carneficina, molti rivoluzionari sono stati condannati all’ergastolo, ai lavori forzati, fucilati; molti sono scappati, ma le idee della Comune continuano a vivere e sono le nostre”.
I carabinieri erano stati avvisati di queste riunioni e avevano informato le autorità cittadine che le idee sovversive erano portate nei paesi dai contadini più intelligenti e malcontenti che, andati al mercato, la sera tornavano a casa, si intrattenevano in discussioni nei ritrovi e la domenica invitavano gente dalla città. In questura erano anche giunte le lamentele dei proprietari che desideravano qualche atto energico da parte dell’autorità per stroncare la propaganda degli internazionalisti, dato che le ordinarie perlustrazioni dei carabinieri servivano a poco. Le loro pattuglie giravano per i casolari o arrivavano all’improvviso nelle osterie: anche se un silenzio ostile le accoglieva, il brigadiere, guardandosi intorno, rivolgeva la domanda:
“Allora, si gioca o si discute di politica?”
“Si fa questo e quello tanto per passare il tempo”.


“Già è vagabondo di suo”
di Angelo Toninelli

Avevano avuto fortuna, la giornata era tiepida, le siepi odorose dei biancospini costeggiavano la strada, i campi coltivati parevano morbidi tappeti verdi e sospese nella luce brillavano argentee le foglie degli ulivi. Franco, seduto a cassetta, spronava con schiocchi di frusta il Biondo che, appena la strada prendeva a salire, rallentava svogliato. Andrea, con Gabriella in braccio, sceso dal barroccio, camminava a fianco del cavallo; la piccola si sporgeva per toccarlo.
“Povero cavallino, è vecchio, non ce la fa più. Fagli una carezza”, diceva Andrea.
Anche Francesca e Giulia, impietosite, protestavano per le frustate che Franco minacciava sui fianchi della bestia; gli chiedevano di fermarsi, preferivano scendere.
“Guai a te se lo tocchi”, gridava Giulia.
“Brave, dategli spago, così il furbo ne approfitta. Già è vagabondo di suo”, replicava Franco, agitando in alto la frusta.
La casa non doveva essere lontana, si sentivano le voci venire dall’alto. Giulia e Francesca avevano accettato volentieri quella gita fuori città, poi il dubbio che di donne ci fossero solo loro due aveva smorzato il primo entusiasmo. Si erano rinfrancate solo quando, ormai in vista della casa, avevano incontrato un gruppo di donne anche loro dirette alla festa.
In un angolo dell’aia, sopra un tavolo i bicchieri erano pieni di vino rosso: gli uomini si avvicinavano, bevevano e a turno qualcuno si curava di riempire di nuovo i bicchieri vuoti, dopo averli sciacquati in un secchio d’acqua. Chi voleva fare uno spuntino entrava in cucina. In un foglio appoggiato su una sedia era scritta la somma spesa per vino, pane, prosciutto e formaggi: l’offerta era libera, ma la spesa bisognava coprirla e le lire in più andavano alla sottoscrizione per Cipriani, quindi tutti erano invitati alla generosità.
Andrea conosceva molti dei presenti; via via arrivavano anche altri compagni, una stretta di mano, poi andavano a sedersi sui muretti intorno e nei campi. Le donne se ne stavano tra loro in disparte e Gabriella passava in braccio dall’una all’altra vezzeggiata e allegra.
Gaetano aveva portato la bandiera rossa e nera della Federazione e Poggi l’aveva appesa in alto a una finestra. Non c’era pericolo che i carabinieri si facessero vedere.
A un gruppo che lo circondava Francesco raccontava dei suoi viaggi a Ravenna, a Imola, a Bologna e in varie parti della Toscana: gli era stato affidato l’incarico di organizzare i compagni più fidati e decisi, pronti ad agire se le cose fossero andate in un certo modo; i risultati fino allora raggiunti davano bene a sperare, ovunque aveva trovato entusiasmo. Aveva incontrato anche Cafiero e Bakunin in Svizzera, alla Baronata. L’impressione che gli aveva fatto il russo? Era un uomo pieno di energia nonostante l’età e gli acciacchi; conosceva le vicende e gli uomini tutti dell’Associazione, era informato della situazione di ogni paese, delle lotte politiche e delle prospettive che si aprivano in ogni parte del mondo; discutere con lui era un’esperienza che tutti i compagni dovevano augurarsi di fare. Costa teneva i contatti con i responsabili dell’Internazionale a Bruxelles e si era recato là più volte per metterli al corrente dell’organizzazione che si stava preparando in Italia, dei mezzi predisposti. Francesco non poteva dire di più. A un gruppo ristretto di compagni aveva poi detto che quelli di Bruxelles si erano raccomandati di agire con prudenza, di muoversi solo a condizione di essere certi che la situazione fosse favorevole per un colpo di mano. Bisognava evitare che in Italia, come era accaduto in Spagna, si andasse incontro a un fallimento, che avrebbe gettato il discredito su tutta l’Associazione. Le notizie che arrivavano da Malatesta, dal sud, erano confortanti: laggiù molti garibaldini, anche tra i più influenti, si dichiaravano disposti ad agire insieme agli internazionalisti.
Gaetano chiese il silenzio e l’attenzione di tutti; col braccio faceva cenno ai più lontani di avvicinarsi, doveva comunicare una cosa importante.
“Finalmente anche Firenze ha la sua sezione femminile. In San Frediano alcune lavoranti della manifattura dei tabacchi hanno deciso di costituire una sezione dell’Internazionale e nel giro di pochi giorni sono arrivate a più di quindici. Tra noi c’è Luisa Pezzi”, Gaetano la indicò seduta insieme alle altre donne e la invitò a farsi avanti: “È arrivata a Firenze da poco ma si è subito rimboccata le maniche col bel risultato che ho detto. Propongo un brindisi a lei e alle compagne”.
Ci fu un applauso e Luisa, preso dal tavolo un bicchiere di vino, lo tenne in alto e poi lo bevve tutto d’un fiato. Era rossa in volto, forse per l’emozione.
“Bisognerebbe cantare la marsigliese”, gridò Gaetano.
“La marsigliese? Cos’è?”, domandò il vicino ad Andrea.
“L’inno dei rivoluzionari di Parigi”, rispose Andrea.
Al suo sguardo interrogativo aggiunse: “Una canzone”.
“Non si conosce”, dicevano da più parti.
Uno accennò il motivo, ma non andò oltre l’“Allons enfants de la patrie”.
“Siamo tutti stonati, è meglio starsene cheti”.
La festa continuò tutto il pomeriggio. Qualcuno se ne andava via salutando con una voce, qualche nuovo arrivato stringeva la mano a Poggi, rimaneva a guardarsi intorno e poi si muoveva in giro rinfrancato. Sparpagliati nei campi intorno casa, lungo le prode, sotto gli ulivi, ma attenti a non calpestare i seminati, si formavano e si scioglievano i gruppi, parlavano della stagione, del lavoro, della famiglia, di come andava la vita lì intorno, nel paese, in città. Giulia e Francesca, incuriosite, si erano avvicinate a Luisa: avevano mille domande da farle. Gabriella, seduta sopra una coperta che la moglie di Poggi aveva portato perché l’umido non le facesse male, giocava con le margherite, i tromboni, le violette che Andrea aveva raccolto per lei.

Brani tratti da: Angelo Toninelli, Un sogno d’amore, ETS, 2003.