rivista anarchica
anno 34 n. 302
ottobre 2004


movimento

Alla ricerca di nuove propositività
di Andrea Papi

 

Creare una rete di situazioni, sperimentazioni sociali e aggregazioni rigorosamente autogestite.

 

Ci sono sostanzialmente due modi di vivere la tensione anarchica. Uno si incentra e concentra sulla lotta contro l’esistente, a ragion veduta identificato nel trionfo di un potere asservito e funzionalizzato al dominio, l’altro è proteso alla ricerca ed alla costruzione di modi altri, alternativi a quelli vigenti, di vivere e organizzarsi a livello sociale. L’uno privilegia strategicamente lo scontro, coi poteri costituiti, con lo stato, con le forze di polizia, con ogni struttura di sfruttamento e repressione, ritenendo che sia l’elemento primario e fondante, l’altro la sperimentazione, il bisogno della proposizione e della costruzione, l’allargamento delle coscienze. Entrambi partono da un identico rifiuto, radicale e inconciliabile, del presente stato di cose, mentre divergono sul che cosa fare e come tentare di pervenire alla preconizzata e desiderata situazione sociale anarchica.
In verità sono perfettamente consapevole che questa è una semplificazione, una riduzione ad uno schema duale. Nella realtà del sentire dei singoli individui c’è una molteplicità estremamente ricca e frastagliata del sentirsi anarchici. So anche che nel tentare di schematizzarla si rischia non solo di sminuirne il valore, ma addirittura di tradirne la portata. Eppure sono del tutto convinto che la riduzione consapevole al mio schema duale non mistifichi affatto la realtà. Anzi aiuta a comprendere il senso delle cose in profondità, in quanto non si pone come lettura oggettiva di ciò che pretendo che sia, bensì come un riferimento atto alla riflessione. Arbitrariamente ho fatto due accorpamenti, identificando due filoni per me fondamentali in grado di accogliere ognuno modi diversi di vivere una comune tensione, ma in cui risaltano due differenti impostazioni di fondo.
Non ho sottolineato questa differenza di tensione per puro piacere accademico, ma perché sono fermamente persuaso, me lo suggerisce il patrimonio di conoscenze acquisito dall’esperienza, che non sia affatto indifferente viverla o in un modo o nell’altro. Sono cioè convinto che comporti delle conseguenze rilevanti e rilevantemente differenziate, se non addirittura contrapposte, proiettarsi e concentrarsi verso la distruzione del potere nemico oppure invece verso il suo superamento rivoluzionario. Perché alla fin fine proprio di questo si tratta. Ed a tutti gli effetti è una questione di senso. Se cioè abbia senso impostare tutta la lotta (mezzi, azioni, pensieri, scopo, ecc.) nel tentativo costante di sconfiggere il potere dominante, anche e soprattutto militarmente, oppure, all’inverso, proiettarsi in una costante ricerca di soluzioni e sperimentazioni che contengano in sé i presupposti della nuova futura società fondata su basi libertarie e anarchiche, in grado di soppiantare l’assetto politico, militare ed economico esistente, fondato all’opposto su principi autoritari e gerarchici.
Cerchiamo di capire ed analizzare quali sono le differenze sostanziali.

Tensione contrappositiva

La tensione contrappositiva, l’essere cioè innanzitutto contro, sopra ogni altra cosa identifica il nemico da abbattere ed annichilire e ritiene che questo sia lo scopo principale e fondamentale verso cui tendere tutti gli sforzi operativi e di propaganda. Il problema fondamentale che pone è come far la guerra al sistema nel tentativo permanente (vano, aggiungo io!) di abbatterlo definitivamente. La strategia di riferimento che pone in campo, classica e consolidata storicamente, pur con una varietà di sfaccettature abbastanza ampia che va dal politico all’esistenziale all’estetico, è quella di lotte di tipo insurrezionale, sia vissute come rivolta individuale sia concepite come ribellione di massa. Ciò che conta è ribellarsi, quasi per principio, ed insorgere, in tutti i modi ritenuti più efficaci, contro ogni imposizione e contro ogni istituzione autoritaria, nella convinzione che sia l’unica maniera possibile per pervenire all’agognata liberazione dal sistema di cose presente. Dietro c’è la motivazione forte che soltanto con l’insurrezione si possa scalzare il potere costituito, in quanto questo non permetterà mai che prenda piede in modo indolore un assetto sociale che lo metta in crisi profonda. Per quel che mi riguarda trovo che tale assunzione, posta sempre con le caratteristiche dell’assolutezza, sia solo un assioma nient’affatto dimostrato, più corrispondente ad un atto di fede che ad una meditata e consapevole presa di posizione.
Sono molteplici i motivi per cui la strategia insurrezionalista, intesa nel senso di finalizzare ogni scelta operativa ed ogni atto di rivolta ad essa, sia carente e rischi di diventare incoerente, ma in questo scritto mi soffermerò solo su due di essi, ritenendoli più importanti di tutti gli altri perché ne evidenziano in particolare la qualità.
Dal punto di vista di una proposizione politica anarchica, teoricamente ha senso parlare d’insurrezione a patto che si rifugga da ogni logica e pratica elitaria o avanguardistica, in quanto sia l’una che l’altra sono fondate sul presupposto antianarchico di dirigere chi si ribella. Al massimo si può parlare di minoranza agente, con la consapevolezza però che chi agisce debba svolgere solo una funzione di stimolo, che abbia l’unico scopo di spingere le masse (per usare un brutto termine di uso comune di leniniana memoria) alla rivolta collettiva, per poi autogestire insieme ad esse la situazione che ne scaturisce. Ma perché ciò avvenga, l’esperienza ce lo insegna, bisogna che in qualche modo le stesse masse siano predisposte, in modo tale che l’azione della minoranza agente non debba esser altro che la scintilla che scocca su una situazione che non aspettava altro. Cosa estremamente rara, soprattutto se ci riferiamo ad insurrezioni capaci di abbattere il potere vigente.
Parliamo dell’oggi, di questa fase storica, di quello che stiamo vivendo nei luoghi dove lo stiamo vivendo. Non credo si debbano spendere molte parole per affermare che la situazione in cui siamo immersi e ci sovrasta non vive una fase preinsurrezionale, che cioè le masse coinvolte non stanno manifestando in alcun modo la predisposizione ad insorgere, soprattutto se si auspica, come nel caso di cui stiamo parlando, una ribellione generalizzata tendente a sovvertire alle radici l’ordine esistente. Non ci sono segnali di nessun tipo che lo facciano supporre. Ci sono si, dislocati qua e là, momenti di ribellione, ma che hanno più l’aria di crescente insoddisfazione, dietro la quale non si agita certo la voglia di sovversione radicale, bensì la richiesta di ricevere ciò che si pensa ci spetti, in altre parole di essere governati meglio. E ciò accade soprattutto perché la cultura d’opposizione dominante e diffusa è stata imbastardita da decenni di controllo culturale di una sinistra che non agiva, e continua più che mai a non agire, per mettere in piedi una società nuova e diversa, ma per impadronirsi dell’esistente e gestirlo con un welfare più consono ai bisogni sociali collettivi. Non è diffusa una cultura alternativa che al contrario cerchi di soppiantare il presente ed istituire il nuovo.

Ribellione elitaria

Ne consegue che se qualcuno ha l’ardire, del tutto illusorio, di agire, animato da tutte le buone intenzioni, per diventare una minoranza agente e si mette a far botti di qua e di là ed isolate piccole azioni di disturbo e di sabotaggio che, data l’attuale situazione, difficilmente possono trovare il terreno adatto per esser considerate patrimonio di lotta collettivo, si trova del tutto isolato, non capito, rifiutato, dileggiato e con gran facilità considerato nemico. Non può che fare una ribellione elitaria che, dato che rifiuta per principio la logica avanguardistica tipica del leninismo perché non vuole dirigere ma stimolare, lo costringe nolente nel mondo dei banditi, non tanto per la polizia che è scontato, ma per le stesse masse che, incoraggiate, si vorrebbe che insorgessero, mentre c’è il rischio che gli si rivoltino contro. Una tale logica non fa altro che relegare chi la persegue in un limbo elitario, escluso dal dibattito collettivo e dalla comprensione di chi vorrebbe stimolare e, sopra ogni altra cosa, esposto alla repressione del potere che, ironia della sorte, trova anche il consenso di coloro che dovrebbero sollevarsi. Insomma, un perfetto tempismo politico.
Sento già le sirene contrarie sottolineare gridando da tutte le parti che non si può mai saper prima quando scoppierà un’insurrezione, perché non è programmabile. Che può scoppiare quando meno te l’aspetti per cui devi esser preparato ad affrontarla e ad impostarla in qualsiasi momento. Che niente niente che prenda piede può sboccare in una qualsiasi situazione nuova e prenderti la mano, per cui non ha senso aspettare che sorga inermi e attendisti, mentre bisogna prepararsi ed esercitarsi per quel momento, quando arriverà. Perché, continuo a sentir le sirene, questa volta determinatamente deterministe, quel momento prima o poi arriverà ed allora lo gestirà chi sarà pronto, quindi bisogna esser pronti. E bla! bla! bla!… Ciò che per me non ha senso invece è aspettare, vivere od agire in funzione di essa, quasi a considerarla religiosamente la panacea taumaturgica di tutti i mali.
E qui veniamo al secondo motivo riguardante le carenze e le incoerenze insurrezionaliste.
L’insurrezione di per sé non conduce ad una situazione sociale riconoscibile in qualche modo nei principi anarchici. Non è in sé una garanzia di realizzazione libertaria. Quando ci riesce, e rare volte si è verificato, anche se a dir il vero quelle rare volte sono sempre state altamente significative, è in grado di abbattere il regime politico dominante. Ma, non a caso, storicamente non è mai successo che l’insurrezione in quanto tale sia stata portatrice di libertà, tanto meno di anarchia. Semmai, sempre storicamente parlando, le insurrezioni vittoriose hanno offerto l’occasione a nuove gerarchie politiche di prendere il potere e, con grande facilità, d’instaurare regimi repressivi, se non addirittura sanguinari e militaristi. E ciò si spiega, perché il popolo non insorge come una furia spinto da un progetto o da un’idea, ma dalla disperazione e giustamente travolge chi considera causa della propria disperazione, avendo al momento questo chiaro bisogno sopra ogni altro. Sarà poi chi, furbescamente, ha le idee chiare ad approfittare della situazione e ad indirizzare gli avvenimenti come più gli aggrada.
L’insurrezione in quanto tale è del tutto inaffidabile quale mezzo di autentica liberazione e lo è ancor meno per la realizzazione anarchica.

Tensione propositiva

Differentemente da quella contrappositiva, la tensione volta a sperimentare costruzioni sociali alternative è proiettata piuttosto sulla ricerca degli aspetti propositivi. È più preoccupata del come superare e sostituire l’esistente che del come abbatterlo. Si propone come proposta innovativa e non come negazione. Dice prima di ogni altra cosa che cosa vuole e lo ritiene più importante di che cosa non vuole, di conseguenza è più preoccupata del che cosa d’altro si va a mettere in piedi che di quello che deve essere abbattuto, senza, e questo è fondante, rinnegare, anzi affermandolo, che il presente stato di cose deve essere rivoluzionato alle radici. Anch’essa alla fin fine è contro, ma lo è finalisticamente invece di esserlo innanzitutto, lo è cioè di conseguenza al fatto che ciò che propone e ricerca non riesce e non può essere compatibile con l’esistente, di cui nega comunque la validità.
L’anarchia si definisce come immaginario utopico, cioè non vigente ma da realizzarsi, perché il presente che si subisce è perennemente fonte di ingiustizie, sfruttamento, oppressione, imposizioni. A differenza di ogni altra visione politica e sociale si pone dichiaratamente ed inequivocabilmente nel versante antiautoritario, fondando il suo essere sulla realizzazione di tutta la libertà possibile in ogni campo inerente alla vita sociale, in particolare dal punto di vista economico, politico e della giustizia. Si distingue perché propone la valorizzazione ed il rispetto pieni di ogni individuo, forme organizzative orizzontali ed antigerarchiche, decisioni collettive attraverso strumenti basati sulla parità e la reciprocità in assenza di ogni comando dall’alto, l’autogestione come fondamento di relazione e decisionalità in seno alla convivenza sociale.
Certamente nasce come rifiuto del presente stato di cose, quindi si pone contro l’esistente. Ma in questo non è sola. Quando prese forma come pensiero e poi come movimento organizzato era in buona compagnia: i vari socialismi, il comunismo, il repubblicanesimo, per citare i più noti. Come i suoi compagni di strada abbracciò pure la rivoluzione insurrezionale come mezzo per raggiungere l’emancipazione. In tutto ciò non risalta però la sua originalità, la sua specifica innovazione. Ciò che veramente la distingue e, a differenza dei suoi originari compagni di strada, l’ha fatta rimanere l’unica autenticamente ed irriducibilmente rivoluzionaria, è la proposizione autogestionaria quale fondamento politico della gestione collettiva della società. In questa irriducibile assunzione sta la sua vera forza e la sua vera possibilità.
Ecco allora che sopraggiunta la consapevolezza, data in buona parte dalla disillusione, che la preminenza strategica insurrezionalista difficilmente, molto molto difficilmente, possa risultare funzionale ad una concreta emancipazione, con sempre maggior forza prende piede spontaneamente la tensione sperimentale autogestionaria, quale strada maestra per tentarne la realizzazione. Al livello delle coscienze, penso che stia avvenendo, dovrebbe avvenire, deve avvenire, un passaggio fondamentale ed allo stesso tempo fondante: dall’attacco allo stato ed ai poteri costituiti si sta passando, si dovrebbe passare, si deve passare alla costruzione sperimentale rivoluzionaria, non più per l’abbattimento, bensì per il superamento sempre dello stato e dei poteri costituiti.
Bisognerebbe attivare con costanza e con frequenza dei processi di autentica autogestione, che sia vera ed inconfondibile nei suoi presupposti. E sottolineo processi al plurale, non tanto per evidenziarne una ipotetica quantità, quanto per cogliere l’importanza della molteplicità differenziata. Sarebbe infatti limitante e ingabbiante partire dalla supposizione di cercare un unico modello di riferimento, considerato principe, per applicarlo tout-court a tutte le situazioni. Il riferimento non può né deve essere un modello né una procedura tipo, considerati campione o prototipo, da riprodurre pari pari, bensì i principi e i presupposti fondanti che danno senso all’autogestione: assenza di gerarchie, decisionalità orizzontale, parità e reciprocità dei rapporti. La coerenza rispetto a questi presupposti in un certo senso è il metro di misura, la cartina di tornasole che permette di comprendere la vera autenticità ed il valore dell’esperimento. Non uniformità quindi ad un modello considerato magari perfetto, ma molteplicità e pluralità di esperienze che si trovano accomunate dagli stessi intenti e dagli stessi principi fondativi.
Le modalità e la tipologia realizzative vengono definite e improntate concordemente di volta in volta sul campo da coloro che sono coinvolti e sono determinate dal contesto territoriale, dalla situazione specifica e dalla concomitanza delle caratteristiche culturali individuali. Ciò che però conta veramente alla fin fine è la comunanza di intenti, che lega e affratella, e la chiarezza condivisa di quello che si deve andare ad attuare. Centri sociali, comuni, scuole libertarie, comitati municipali, collettivi di lotta contro obiettivi specifici, federazioni sindacali libertarie, gruppi di azione e cultura alternativi, luoghi di aggregazione anticonformisti ed antisistema, cooperative di produzioni di qualità federate per un mercato non liberista, banche di mutuo soccorso, e quant’altro venga pensato ed attuato creativamente rispondente ai presupposti di riferimento. Una rete di situazioni, sperimentazioni sociali e aggregazioni, molteplici e plurali rigorosamente autogestite, possibilmente federate per esercitare e sperimentare l’alternativa libertaria in grado di lottare per prendere piede ed espandersi. Una specie di società nella società insomma, che propugni il chiaro intento di pervenire al superamento rivoluzionario del sistema di cose presente.

Riferimenti da cui prendere spunto

A un primo sguardo può sembrare che mi riferisca a situazioni già esistenti. È vero solo in parte, in minima parte. Molte delle tipologie alternative esistenti, infatti, in realtà non hanno caratteristiche e funzionamenti che le possano far riconoscere in una logica e in una coerente tensione autogestionaria, ma, impostate e strutturate in origine da militanti impestati da mentalità ed ideologie autoritarie, al loro interno, magari inconsapevolmente, riproducono metodi e procedure gerarchiche ed autoritarie. Per cui, al di là della forma e delle motivazioni dichiarate, non possono rientrare nella molteplicità progettuale di costruzione e di lotta per una società libertaria come sto auspicando. Tanto per capirci, ho presenti quali riferimenti da cui prendere spunto situazioni tuttora vigenti come Libera di Marzaglia vicino a Modena, la comune Urupia nel Salento, la FMB di Spezzano Albanese in Calabria, o la cooperativa IRIS nel cremonese. Situazioni libertarie in atto che nel tempo si sono consolidate ed hanno acquistato spessore. Bisognerebbe impegnarsi per moltiplicarle ed arricchirle, aumentando l’influenza e l’irradiazione libertaria e rivoluzionaria nella società circostante che continua e continuerà ad opprimere.
Un’ultima breve considerazione che ritengo estremamente importante. È probabile, purtroppo quasi sicuro, che, se veramente prendesse piede una società nella società come auspica il mio immaginario, il sistema di potere vigente non se ne starebbe con le mani in mano e ci costringerebbe ad una specie di scontro finale. In verità mi piacerebbe molto di più che si verificasse una situazione sociale diffusa come quella che nel 1989 affossò in modo incruento l’impero bolscevico dell’est che si estinse per implosione. Nel caso del non desiderabile scontro finale non ci sottrarremmo ed insorgeremmo. Ma sarebbe tutta un’altra cosa rispetto al vacuo e residuale insurrezionalismo dell’attacco allo stato. Voglio dire che non ritengo saggio né realistico essere per principio contro la risposta insurrezionale, in quanto questa fa parte del patrimonio di rivolta per l’emancipazione. Ciò cui sono sempre più contrario è invece il vivere, pensare ed agire esclusivamente in funzione della logica insurrezionale, trascurando e tralasciando, di fatto, l’elemento progettuale e sperimentale di costruzione della nuova società che si vuole proporre, quasi considerando, con grande e pericolosa superficialità, che tutto è rimandato al dopo, ammesso che ci sia un dopo, e che si risolverà tutto d’incanto da solo, in modo spontaneamente taumaturgico, come se in fondo il problema risiedesse soprattutto nell’eliminazione del sistema di potere vigente.

Andrea Papi

Alla Fiera dell’Autogestione

Spinto dalla curiosità, sono stato presente alla Fiera dell’Autogestione che si è svolta nello spazio autogestito di Libera, nel modenese, dal 17 al 20 giugno 2004. Siccome ne sono rimasto colpito con grande positività, ho pensato di scrivere quattro righe per la rivista. Non farò in alcun modo un resoconto, anche perché non ho partecipato metodicamente a tutto, ma mi limiterò ad esternare le mie impressioni di primo acchito, a stimolare qualche piccola riflessione.
In tutto qualche centinaio di persone presenti con pacatezza e voglia di ascoltarsi reciprocamente. Più che di fiera vera e propria si è trattato di incontro/confronto, in cui i protagonisti sono stati coloro che hanno scelto esistenzialmente di vivere situazioni collettive di autogestione, con la loro testimonianza andando oltre la fase molto più diffusa del semplice propagandarla e proporla. Tutto si è svolto con grande sentimento di libertà, in un clima gradevole, accattivante e stimolante, capace di trasmettere la sensazione che avesse senso esserci.
Gli incontri programmati hanno sempre trovato un pubblico attento e partecipante, ma sono stati molti anche gli incontri nati lì per lì, non programmati, seguiti con partecipazione ed intenso interesse, in cui c’è stato scambio di informazioni di vario tipo, dai semi biologici, all’orto sinergico, o sulle varie modalità di fare il pane o il formaggio, o come fare andare il diesel con olio di semi ed altro ancora. Spirito di ricerca, curiosità, voglia di ascoltare, attenzione. Quello che insomma a tutti gli effetti si può definire un clima costruttivo.
Ciò che mi ha colpito in particolare è che la qualità del dibattere è stata generalmente buona, perché il tutto si è mosso spontaneamente al di là dello scontato e completamente al di fuori di ogni trionfalismo. C’era voglia di vera ricerca sperimentale e di analisi sincera e concreta di comprensione della realtà. Lo spirito critico, in grado di evidenziare difetti e carenze, non si è fatto desiderare, ma ciò che ha caratterizzato l’insieme è stata la costante consapevolezza, comune e diffusa, di voler realizzare comunque sempre qualcosa che fosse coerente con le realizzazioni di libertà sociale e con i principi autentici dell’autogestione.
È mancata una cosa fondamentale, indispensabile se si vuol proseguire su questo cammino: gettare le basi per forme permanenti di coordinamento, confronto, scambio e, soprattutto, promozione. Se non si riesce a metterle in piedi, ogni momento, per quanto bello e costruttivo possa occasionalmente essere, è destinato a rimanere frammentario ed a cadere nel dimenticatoio, regalando al potere che si vuol eliminare il godimento dell’esaurimento di ciò che potrebbe metterlo in discussione.

Andrea Papi