rivista anarchica
anno 34 n. 302
ottobre 2004


politica

Quando la coperta è stretta
di Antonio Cardella

 

La sinistra di Blair, Schröder, ecc. non rappresenta un’alternativa alla destra.

 

Saranno gli esiti tardivi del calore agostano, ma in questo autunno ancora mite, davanti al computer che mi consente di scrivere queste note, ho come la sensazione che siano piombati sulle mie spalle tutti i limiti di un commentatore che non voglia limitarsi a interpretare un fatto o una notizia ma pretenda (e il termine è certamente appropriato) di spingersi su un poggio più alto per intercettare un panorama un poco più vasto.
Il fatto è che più passa il tempo più è difficile decifrare il senso delle cose che accadono attorno a noi. Sembra che si vada progressivamente impoverendo quel bagaglio di civiltà politico-giuridica e di onestà intellettuale (nel senso che a sostegno di qualsiasi tesi debbano rispettarsi almeno le norme dell’analisi logica, con un soggetto e un predicato alla base di qualsiasi ulteriore argomentazione), quei codici di razionalità che, nel bene e nel male, l’occidente ha accumulato in secoli di conflitti tutt’altro che indolori.
Ma vi è un aspetto del tutto inedito, rispetto ad analoghi periodi oscuri che certamente sono stati ricorrenti nel nostro passato prossimo e remoto, ed è la difficoltà obiettiva di individuare alternative all’esistente che non siano conseguenti a eventi incontrollabili e certamente non auspicabili, come quelli ipotizzati dalle varie correnti catastrofiste. Voglio dire che, guardando le cose come stanno senza alcuna concessione consolatoria, all’interno del pensiero e della pratica occidentali – che sono quelli che nella fase attuale contano – non si riesce a trovare un’esperienza culturale o politica che si ponga come antagonista al corso degli eventi, un corso caratterizzato dal prevalere della logica capitalistica anche in aree geopolitiche ove tale logica sembrava dovesse essere quanto meno arginata. Parlo ovviamente di quell’area euro-asiatica le cui tradizioni culturali e le realtà sociali sembravano (e sono) incompatibili con le logiche del mercato e dell’accumulazione, anche quando, contraddizione in termini, a perseguirle siano le strutture stesse dello stato. Il riferimento è soprattutto alla Cina, la cui evoluzione sembra acquisire il peggio del sistema capitalistico, forse nella convinzione illusoria che, raggiunti determinati obiettivi in termini di potenza economica e militare, poi il resto dei problemi, quelli sociali in prima linea, si potranno via via risolvere. È l’illusione coltivata nella Russia del 1924 con l’esperimento (fallito) della Nuova Politica Economica. Così Pechino si sta sviluppando alla stregua di molte capitali del sud-est asiatico, cattedrali di vetro e acciaio che si elevano ad altezze vertiginose, con affitti che variano dai quarantamila agli ottantamila yuan (dai 4 agli 8 mila euro al mese), mentre il livello medio dei salari è di 2.500 yuan (250 euro), con la prospettiva sociale disastrosa di provocare la crescita di un ceto medio d’assalto, di cui una parte minima assurgerà al benessere e avrà accesso alle stanze dei bottoni nella media e alta burocrazia di stato, mentre la parte rimanente condurrà vita stentata, in preda a frustrazioni annichilenti, come già avviene nei templi del capitalismo maturo. Per non parlare del proletariato e del sottoproletariato urbano e rurale, le cui sorti potremmo prefigurare guardando dentro le mura di casa nostra.

La gestione dell’esistente

Ebbene, sfiorando appena questo scenario, ci si accorge che, per quanto si scruti l’orizzonte, non si riesce a cogliere alcun segno, non dico di alternativa radicale, ma neppure del sano, anche se insufficiente, antagonismo che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso. Lo scontro tra le forze politiche, in occidente, si incentra sulla possibilità/necessità di gestire l’esistente, con una propensione a raccogliere il consenso della parte moderata e conservatrice delle varie realtà nazionali per ottenerne i mandati di rappresentanza.
Io mi meraviglio sempre della meraviglia degli osservatori politici quando rilevano che la differenza tra Bush e Kerry è solo una differenza di stili: poi – si sorprendono – sono simili in tutto. Certo, Kerry è persona bene educata e meno rozza del suo antagonista, così cerca di far riflettere i suoi connazionali sull’obiettiva esistenza del resto del mondo, fatto che Bush ha sempre trascurato, con la connivenza – non dimentichiamocelo mai – di almeno la metà dell’opinione pubblica americana. Questa consapevolezza di non essere soli nel pianeta non muta di molto il nucleo della politica di dominio di una futura, eventuale, amministrazione democratica. Anche per Kerry la guerra in Iraq va continuata, ma con un maggiore coinvolgimento delle istituzioni internazionali, che è poi quello stesso che adesso chiede Bush, alla ricerca di qualcuno che lo aiuti ad uscire dal tunnel iracheno nel quale ci ha cacciati tutti. Anche per Kerry i soldi per la sicurezza vanno trovati e opportunamente spesi, ma si guarda bene dallo specificare che cosa intende per sicurezza: non dimentichiamo che la politica aggressiva dei neocon repubblicani è stata ed è tuttavia giustificata dalla presunta necessità di difendere il benessere e la sicurezza del popolo a stelle e strisce. Così si è giustificata la guerra all’Iraq, così si è sostenuta la necessità della guerra preventiva. Kerry ha anche affermato che la sua eventuale amministrazione avrebbe attuato una politica sociale meno discriminatoria, tale da salvaguardare i più deboli: sono dichiarazioni certamente nobili, ma andrebbero indicate anche le procedure per attuarle. Ma qui viene la parte dolente e difficilmente districabile. L’America viaggia con un debito pubblico che ha raggiunto e superato i 500 miliardi di dollari ed un disavanzo della bilancia dei pagamenti che, per il 2004, si valuta intorno a 45 miliardi di dollari. La crescita del Pil è del 2,8%, la più bassa dal primo trimestre del 2003 (1,9%), con una disoccupazione che i dati ufficiali danno al 6% (dati edulcorati da un sistema di rilevazione quanto mai originale, per non dire altro). In una situazione del genere, i soldi per un’equa politica sociale potrebbero venire soltanto dalla riduzione delle spese militari (che per il 2004 sono previste in 380 miliardi di dollari = 760 mila miliardi delle vecchie nostre lire), da una politica restrittiva del credito e della spesa pubblica e da un inasprimento del sistema fiscale, soprattutto nei riguardi delle imprese e delle rendite finanziarie. In poche parole una politica ad alto rischio di recessione che non credo Kerry voglia correre.
Come si vede, a prescindere dalle più o meno buone intenzioni, se si va al fondo della questione, Kerry non costituisce una reale alternativa all’attuale amministrazione repubblicana, a meno che non ribalti la strategia complessiva e della politica estera e della politica interna americane, il che è impensabile oltre che assai difficile da progettare per chi, come lui, non mette in discussione il sistema. Perché, anche questo non bisogna dimenticare, anche Kerry, come Bush, riceverà il mandato per governare, ammesso che ci riesca, dai poteri forti che hanno sponsorizzato la sua candidatura.

Vivacchiare vessando

Mutatis mutandis le cose non vanno molto diversamente in Europa. In mancanza di un vero progetto alternativo, in una fase di bassa crescita se non proprio di recessione, ciascuna nazione si arrangia come può. Rastrella le risorse per vivacchiare vessando le categorie più deboli ma più numerose, in barba a qualunque politica sociale, che anzi viene progressivamente smantellata, nell’illusoria speranza di far quadrare i conti. Conti che non possono tornare perché i deficit che i governi si trovano a dover gestire dipendono in larga misura dal collasso dei sistemi produttivi, dall’incapacità di avviare politiche che incrementino gli investimenti pubblici e privati e li indirizzino verso impieghi virtuosi sottraendoli alla speculazione. Che è un bel pretendere in un’area economicamente vetusta, che perde il confronto con le altre economie, che non investe in innovazione e che offre un dibattito politico più simile ad una farsa che ad una tragedia Qualcuno, se può, deve spiegarmi quali alternative alla destra siano costituite dalla sinistra di Blair o di Schröder. Per non parlare di quella italiana letteralmente terrorizzata di dover ricevere e gestire l’eredità pesante del governo Berlusconi.
L’illusione, in America come in Europa, è che in un’economia globalizzata sia possibile governare il contingente astraendosi dal contesto. Ormai le esigenze delle aree più progredite e in via di espansione sono assai simili e le risorse per soddisfarle limitate, per di più precarizzate dai conflitti regionali a loro volta alimentati da dissennate velleità di dominio, che non portano da nessuna parte se non a prospettive disastrose
Allora non è da Kerry o da una fantomatica sinistra europea che può venire la quadratura del cerchio e neppure, purtroppo, dalle realtà emergenti in Asia, che stanno facendo le carte false per imitarci in ciò che di peggio siamo riusciti a combinare.
Si può sperare che una qualche soluzione possa essere offerta da quello che viene definito il terzo mondo, dall’Africa e dall’America Latina, soprattutto, dove, in zone ancora limitate, si producono esperienze di associazionismo comunitario che poco hanno a che vedere con i modelli che sono consueti nei sistemi consolidati. Certo, si tratta di esperienze che hanno bisogno di tempo per affinarsi e consolidarsi, minacciati costantemente dai loro governi fantocci sostenuti dal neocapitalismo occidentale e dai ricatti del FMI, del WTO e simili.

Contro i modelli capitalista e statalista

Per quanto possa far sorridere, considerate le difficoltà in cui ci dibattiamo, noi anarchici potremmo dar loro una mano, Perché siamo l’unica forza politica occidentale che ha sempre combattuto contro i modelli politico-organizzativi ed economico-sociali proposti sia dal capitalismo che dalle varie forme di statalismo. Possiamo farlo non certamente tentando di esportare le nostre esperienze, che sono sempre ed ovviamente legate al contesto in cui ci muoviamo, ma favorendo in ogni modo il dibattito laddove, per ragioni diverse, convergono forze antiglobalizzazione, all’interno delle quali soprattutto i paesi dell’America Latina e africani tentano di affermare una loro specificità ed una volontà di lotta contro i vari neocolonialismi. Ci serve, a questo scopo, affinare le conoscenze di realtà associative che sono in atto in Chiapas, in Ecuador, in Perù, in Bolivia, ma anche in Congo, nella Costa d’Avorio e così via.

Antonio Cardella