rivista anarchica
anno 34 n. 302
ottobre 2004


olimpiadi

L’(altro) oppio dei popoli
di Carlo Oliva

 

I giochi olimpici tra consenso e mercimonio.

Nell’antichità i giochi, quelli olimpici compresi, avevano un significato religioso e non soltanto perché si svolgevano presso il santuario di un dio in occasione di una sua festa. Il vincitore, deponendo sull’altare la corona di olivo, di alloro, di pino o di finocchio selvatico che – a seconda dei casi – gli veniva attribuita, assumeva un ruolo di tramite tra la comunità umana e quella divina: diventava, cioè, in senso strettamente tecnico, un “eroe”. La gara – corsa, salto, lotta o altro che fosse – aveva la funzione di selezionare, tra i vari aspiranti, il più degno di compiere il sacrificio. Era un concetto molto diffuso nel mondo antico e non solo in quello mediterraneo: presso altre culture, lontane dalla nostra (per esempio, credo, nell’attuale Messico meridionale), sono testimoniati degli eventi agonali in cui la selezione era ancora più radicale, nel senso che a essere sacrificati, alla fine, erano i vincitori. Un grande onore, naturalmente, ma non tale – forse – da spingere gli atleti a dare il meglio di sé. I greci antichi erano più realistici e cercavano di mantenere l’intera faccenda nei limiti del simbolico.
Naturalmente, siccome nessuno è mai riuscito a tener separate le gerarchie religiose dalle altre, si prendevano varie precauzioni per impedire che a rappresentare la comunità presso il dio fosse il primo bifolco di passaggio, purché dotato di polpacci di acciaio e muscolatura gagliarda. Per Pindaro, così, era meglio che a vincere fosse un nobile, o, in mancanza, almeno un potente, come i tiranni di Sicilia, e se anche di potenti c’era penuria, almeno un ricco, ricco quanto bastava – come minimo – per affrontare le parcelle che il poeta esponeva per i suoi carmi. Non c’erano preclusioni formali, naturalmente, ma visto che solo i nobili, i ricchi e i potenti potevano permettersi le spese di allenamento e gli equipaggi equestri necessari per ben figurare nelle gare di maggior prestigio, per tutta l’età arcaica il sistema tirò avanti abbastanza bene.

Cospicui contributi monetari

Quando la cultura etico nobiliare dell’età arcaica andò in pezzi, perché gli ateniesi avevano inventato la democrazia, che non era proprio come la nostra, ma al potere degli aristocratici dava comunque un taglio, tutti cominciarono a dire che le olimpiadi non erano più quelle di una volta. A lamentarsi perché ormai erano diventate dominio dei più volgari professionisti, gentaglia che di una corona di rami di olivo e di un ramo di palma non sapeva che farsene, ma esigeva cospicui contributi monetari sottobanco e pur di vincere, ovviamente, era capace di qualsiasi infamia, corruzione dei giudici e subornazione degli avversari compresa. A rimpiangere un autentico spirito olimpico che, ahimè, si era perso per sempre. I giochi, di fatto, durarono per altri otto secoli, e questo significa che qualche altro motivo di interesse lo mantenevano, ma durarono a condizione che tutti furono disposti a fingere che fossero qualcosa d’altro di quello che erano diventati. Si erano laicizzati, diventando dei grandi spettacoli popolari, ma si fingeva che avessero ancora il significato originario, anche se la cosa non interessava più praticamente a nessuno. Pausania, la nostra fonte principale in materia, è abbastanza esplicito.
Lascio ai lettori il piacere di tracciare il facile parallelismo con i giochi moderni, come si sono evoluti in questo ultimo mezzo secolo e come ci sono stati presentati ad Atene lo scorso agosto. Sappiamo tutti, comunque, che nelle “olimpiadi moderne” l’etica aristocratica (e borghese) del dilettante, di colui che partecipa per diletto, perché se lo può permettere, e in questo diletto trova l’unica ricompensa, così come l’avevano definita i fondatori ottocenteschi, è miseramente crollata sotto il peso di tutta una serie di altri interessi. Tra i quali andranno considerati in primis quelli propagandistici degli stati, che, consapevoli di come la religione non sia l’unico oppio che ai popoli si possa proporre, hanno da tempo imposto la priorità delle squadre nazionali sui singoli atleti, e quelli legati alle esigenze di spettacolarità che i mezzi di comunicazione di massa enfatizzano così drammaticamente.
L’unica cosa che non si può proprio dire è che le olimpiadi moderne, come quelle antiche, siano state rovinate dalla democrazia. Come abbiamo potuto ampiamente notare anche questo agosto, di democratico, in esse, non c’è proprio niente. Salvo singoli episodi, tollerati, ma tenuti accuratamente sotto controllo, a vincere, nella moderna dimensione di squadra (o, se volete, di “delegazione”), sono inevitabilmente gli stati ricchi e potenti. Basta una rapida occhiata al medagliere di Atene: gli americani si confermano potenza dominante, la Russia paga la sconfitta nella guerra fredda e la secessione delle nazionalità in precedenza soggette, la Cina celebra il suo nuovo ruolo mondiale, l’Europa sconta la disunione politica, ma dimostra la forza della sua valuta unica producendo più vincitori di qualsiasi altro continente. E poi, i greci, nel loro piccolo, festeggiano l’ammissione nel club dell’euro, l’Italia, in perfetto stile berlusconiano, stringe meno di quanto avrebbe voluto, ma qualcosa, comunque, stringe e così elencando, a piacere.

Vaffanculo e segni della croce

Quanto agli atleti in gara, incarnano una stranissima contraddizione. Sono chiamati a dare spettacolo, naturalmente, come vuole la logica dell’evento mediatico e quella degli sponsor che lo sorreggono. Ma è una spettacolarità, a ben vedere, che ha poco a che vedere con le capacità sportive e atletiche che si esibiscono e che dovrebbero, in teoria, essere al centro dell’evento. Più che al campo lungo della gara, dal quale ben poche emozioni si possono ormai ricavare, i telespettatori – quelli che contano davvero – sono chiamati a concentrarsi sul primo piano dei loro volti, sulle loro smorfie di fatica e di vittoria, sui sospiri, i sorrisi, i vaffanculo e i segni della croce con cui, privatamente, gli atleti commentano le proprie prestazioni. Da evento pubblico, in cui al centro dell’interesse dovrebbero stare certe specifiche capacità e attitudini (i citius, altius, fortius della tradizione decoubertiniana), i giochi sono stati declassati – o promossi, vedete voi – a impudica esibizione di reazioni individuali, in stile di sitcom per i vincitori e di soap opera per gli sconfitti. E a nessuno sembra venire in mente che una cosa è esibire per denaro, la propria capacità di correre, sollevare pesi, saltare con l’asta o via andare e un’altra ostentare di fronte al pubblico globale le proprie personali reazioni psicologiche. Che esibire in quel modo la propria individualità, in fondo, rappresenta una forma particolarmente impegnativa di mercimonio della propria persona.
Ma probabilmente si tratta di una persona fittizia. In effetti, quello che negli atleti soprattutto colpisce, è proprio una totale mancanza di individualità. Sono – come avrete certamente notato – tutti uguali, tutti omogeneizzati dalle stesse tecniche di selezione, esercizio, trattamento chimico, indottrinamento ideologico e confezione finale. Con l’unica, ovvia, eccezione del colore della pelle, che peraltro è sempre più indipendente dalla nazionalità dichiarata (non sapevo, per dirne una, che ci fossero tanti neri in Portogallo), non hanno caratteristiche etniche o personali degne di nota. Li si distingue, e non sempre, dal modello della tuta. Mi è capitato di assistere, per caso, alla cerimonia di premiazione di una regata velica: c’erano sul podio due svedesi, due greche e due spagnole, sei ragazze provenienti, in teoria, da tre angoli lontani e ben diversi del continente, dall’Europa nordica, atlantica e mediterranea. Be’, sembravano tutte non sorelle, che non ci sarebbe stato nulla di male, ma cloni. Le greche e le spagnole, per dirne una, erano più bionde delle svedesi. Sarà stato un caso, eh, e anche Achille, a detta di Omero, era biondo, ma anche questo è un particolare su cui può valere la pena di riflettere.

Carlo Oliva