rivista anarchica
anno 34 n. 302
ottobre 2004


editoria

Londra 1839
di Christian G. De Vito

 

Un’inchiesta sociale di Flora Tristan.

Le Edizioni Spartaco mandano in libreria un’antologia di scritti della femminista e socialista Flora Tristan (1803-1844): Scusate lo stile scucito. Lettere, scritti e diari (1835-1844), con introduzione, cura e traduzione di Lina Zecchi, docente di storia della cultura francese all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Christian G. De Vito, dottorando presso la Scuola Normale di Pisa, impegnato in ricerche sulla storia del sistema penitenziario italiano ed europeo, presenta alcuni brani dell’antologia che ha potuto leggere in anteprima.

 

Nel manicomio e nei bordelli
Mia nonna era un bel tipo di donna. Si chiamava Flora Tristan. Proudhon diceva che era geniale. Dato che non ci capisco niente, mi fido di Proudhon. Inventò un sacco di storie socialiste, fra cui l’Unione Operaia. Gli operai riconoscenti le fecero un monumento nel cimitero di Bordeaux.
Paul Gauguin, Avant et après [1903] [trad. it. in Id., Noa-Noa e altri scritti (1891-1903), a cura di Duilio Morosini, Bompiani, Milano 1941]

Per alcune settimane, nel 1839, Flora Tristan si aggira per Londra, si avventura nei vicoli dei quartieri più poveri e dentro le fabbriche, nel manicomio di Bedlam e nei bordelli. Dappertutto osserva con attenzione, riflette, annota.
A differenza del ventiquattrenne Engels che pochi anni dopo, nel 1844, scriverà La situazione della classe operaia in Inghilterra, Flora non media le sensazioni che prova con informazioni di tipo statistico o con letture pregresse. Semplicemente, prova a entrare “nella stretta e buia stradina di Bainbridge” e viene colta dalla “sensazione di paura” e quasi respinta dall’“odore mefitico”; ma poi prosegue, sospinta dalle sue idee, fino a vedere e descrivere ciò che la società ufficiale ignora, o magari nasconde.


Entra anche nelle carceri, Flora, quando finalmente riesce a ottenere il permesso per farlo, dopo le consuete “innumerevoli pratiche e reiterate richieste”. Entra anche in quel Newgate che era stato un fiore all’occhiello della fase di riforme degli ultimi decenni del Settecento. Verso la fine del XVIII secolo, lo scrittore francese Louis-Sébastien Mercier, comparandolo alle terribili prigioni francesi, lo aveva addirittura descritto come “un capolavoro nel suo genere” (L.-S. Mercier, Parallèle de Paris et de Londres, Didier, Paris 1982, p. 160), per l’equilibrio raggiunto tra sicurezza, differenziazione dei detenuti e umanità del trattamento.
Flora, come Marx ne Il Manifesto, non è in genere insensibile al fascino del progresso, non manca di sottolineare le novità portate dal capitalismo industriale, anche quando esse si coniugano con lo sfruttamento più duro. In alcuni brani delle sue Passeggiate a Londra descrive la “potenza delle macchine”, la loro “forza iperbolica”, commentando sull’ “immenso miglioramento che sarebbe potuto derivare un giorno da quelle scoperte della scienza”. Ma Newgate resta solo un “grande edificio quadrato” corrispondente a come “la fantasia si rappresenta la prigione delle epoche barbare”; un luogo in cui i prigionieri vivono in condizioni drammatiche e dove regna l’inaudita promiscuità di “vizio e sventura”, “fame” e “furto”. Dietro le carceri, insomma, non si cela alcuna potenzialità, non c’è nulla di positivo da consegnare al futuro.
Flora osserva con distacco i movimenti superficiali della politica, che è – scrive nell’introduzione – “solo un potere fittizio”. Compresa la politica riformatrice. Resta dunque lontana anche da quella che Foucault ha definito la “critica monotona della prigione” (M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976), rimane estranea a quella continua denuncia, nata assieme al carcere, della sempre incompiuta riforma del carcere. La sua è una critica più profonda, mira alla base dell’edificio, ossia all’ordine sociale, e il suo obiettivo è spingere i lavoratori a prendere coscienza della loro condizione affinché trasformino alla radice la società tutta intera.
Rispetto alle prigioni, quindi, il dato centrale non è nella loro presunta riformabilità come istituzioni, ma nel ruolo da esse svolto nella criminalizzazione dei bisogni delle classi lavoratrici, legata all’essenza di un sistema sociale ed economico che, non potendo rispondere a essi, li reprime. Tornano alla mente le parole che Emma Goldman avrebbe scritto diversi decenni dopo nella sua autobiografia: “le tre settimane trascorse nel carcere giudiziario mi avevano dimostrato che l’idea rivoluzionaria, secondo la quale il carcere è un prodotto della povertà, era una verità inconfutabile e oggettiva” (E. Goldman, Vivendo la mia vita, la salamandra, Milano 1980, I, p. 129).
Anche per Flora il carcere rimanda direttamente alla questione sociale. Eccola dunque riconoscere nel quartiere degli Irlandesi “il tipo di visi, il genere di espressioni che avevo osservato nelle prigioni”; eccola tracciare il percorso che porta le bambine verso la prostituzione, i vecchi alla mendicità e i bambini ad “avventurarsi sulla città come uccelli da preda”, “sicuri di sfuggire all’inseguimento della polizia”.
Non c’è qui alcuna frattura tra “classi lavoratrici” e “classi pericolose”, tra forza lavoro sfruttata legalmente e forza lavoro criminale: una distinzione che si farà strada solo nella seconda metà dell’Ottocento a livello della retorica politica.
“Il furto è la logica conseguenza della miseria attivata al limite estremo” – esclama Flora. Anzi, il “reato” stesso è segno di reazione e ribellione contro una situazione intollerabile. Per Flora la “resistenza all’oppressione” è un “diritto naturale dell’uomo” e l’insurrezione, “quando il popolo venga oppresso”, è un “sacro dovere”. Una ribellione giusta non perché sia giusto il reato in sé, ma perché in esso si esprime la rabbia e il rifiuto spontaneo per un intero universo di sfruttamento. Non è infatti preferibile una ribellione anche scomposta e individuale rispetto allo stato di alienazione di quell’operaio addetto alle fornaci in una delle fabbriche visitate da Flora, “immobile, con gli occhi fissi a terra, senza neanche la forza di tergersi il sudore che gli scorreva addosso da ogni lato”?

Christian G. De Vito

Prigioni*
di Flora Tristan

Avevo sentito versioni contraddittorie sulle prigioni inglesi: l’interesse che provo per la questione sociale era ulteriormente accresciuto dal desiderio di chiarirmi i dubbi sulle condizioni a cui essa era giunta in Inghilterra; tuttavia, poiché a Londra lo straniero – se non ha il vantaggio di essere duca, marchese o barone, e di alloggiare in uno dei primi alberghi della città – incontra estreme difficoltà a visitare anche le cose più banali, fu solo dopo innumerevoli pratiche e reiterate richieste che ottenni un permesso per Newgate, Coldbath Fields e Penitantiary. Indipendentemente da quelle tre prigioni, ne esistono altre otto, in cui però la vanità nazionale non lascia penetrare nessun’occhio straniero, a motivo, a quanto mi hanno assicurato, della loro apparenza miseranda, della pessima distribuzione degli spazi interni e, per finire, a causa degli abusi di ogni tipo e della confusione che regnano in quelle cloache della civiltà.
Newgate presenta un aspetto dei più rozzi. Ah sì, è proprio così che la fantasia si rappresenta la prigione delle epoche barbare! Si tratta di un grande edificio quadrato che chiude un angolo della piazza; è fatto di pietre di dimensioni enormi, di un nero grigiastro, lavorate in modo da far l’effetto di una pelle di tigre; esse conferiscono all’edificio un colore più cupo rispetto a qualsiasi altro monumento di Londra, e producono un’impressione terribile. Qualche finestra munita di grosse sbarre di ferro si distingue a malapena, perché si perde nello spessore del muro. La porta d’ingresso può essere citata come un capolavoro di arte carceraria; la quantità di migliaia di pezzi di ferro inserita nella sua costruzione ha un che di prodigioso; vorrei poterne dare l’idea al lettore, per farlo partecipe dello stupore sbalordito in cui la vista della porta è arrivata a gettarmi! Se la sola vista basta a sprofondare l’animo del visitatore nello spavento, cosa deve mai provare l’infelice portato dai suoi crimini in quella prigione, una volta che l’ammasso di ferro si sia richiuso dietro di lui e si ritrovi nell’anticamera di quel carcere pauroso!
[…]
Stavo chiusa a Newgate da più di un’ora, e lo spasmo da cui ero stata colta fin dall’ingresso nell’arsenale degli strumenti di tortura era andato aumentando a mano a mano che penetravo in quell’antro spaventoso, dove vizio e sventura vivono confusi, dove la fame è assimilata al furto, e la fierezza d’animo, nobile voce di una coscienza pura, all’assassinio; lo spasmo da cui ero oppressa era arrivato a un tale grado di intensità che riuscivo a malapena a respirare. Eppure, mi restava ancora da visitare la cappella, il cortile in cui viene eseguita l’ultima toilette dei condannati, e infine la portafinestra attraverso la quale essi lasciano la prigione per il patibolo, che mette fine a quelle esistenze tristi e lugubri, a quelle vite fatte di ansie, vizi e crimini, di miserie e sventure. In quanto all’infamia del supplizio, gli esseri avviliti vi sono insensibili e gli animi grandi la dominano.
La cappella è suddivisa in modo accettabile: circa a metà altezza, c’è una galleria destinata solo alle donne; gli uomini stanno nella parte inferiore. Lungo tutto il giro della galleria sono sistemate delle tende, cosicché i due sessi non possano vedersi.
Il pew del condannato si trova in basso, addossato al muro, all’incirca a metà della cappella. Ah, che cerimonia oltremodo inumana per la chiesa anglicana, che assurda imitazione del cattolicesimo! A quale scopo torturare così un disgraziato, fargli rimuginare la morte per la durata di un giorno e una notte? Che utilità morale ne deriva alla società?
Alle tre di pomeriggio, alla vigilia del giorno fissato per l’esecuzione, il condannato viene portato nella cappella dove deve subire la scena del pew. Il pew ha una forma rotonda e assomiglia a un pulpito di dimensioni ridotte; contiene un banco e un inginocchiatoio; per la cerimonia viene ricoperto da un drappo nero, e il paziente vi entra a sua volta avviluppato da un sudario nero; è seduto sul banco e davanti a lui, sull’inginocchiatoio, sta un libro aperto; la cappella è avvolta nell’oscurità, rischiarata soltanto da una lampada sepolcrale; tutti i prigionieri sono presenti e devono seguire a voce bassa l’elemosiniere che recita le preghiere dei defunti.
Il condannato sta nel pew come in una tomba la cui pietra sepolcrale resti semiaperta; in mezzo a quegli addobbi neri, spunta fuori solo la testa. Oh, è uno spettacolo orribile quella testa, che dà l’impressione di essere già separata dal corpo! Che spavento esprimono il pallore, i lineamenti contratti, gli occhi smarriti, i capelli dritti e il tremito convulso che agita gli addobbi funebri! Sono terribili a vedersi! È l’agonia di una creatura umana sepolta viva; sono i rantoli che escono dalla tomba. Quella lugubre solennità infernale impressiona a tal punto chi assiste, che molti prigionieri, incapaci di sopportare la scena, svengono e la cappella risuona di grida terrorizzate. Succede molto di rado che il condannato resista alla prova fino alla fine: spesso si è costretti a sorreggerlo e a portarlo via dal pew in uno stato di completo deliquio. Quando torna alla vita gli viene annunciato, come fosse un ultimo favore, che per quella notte avrà a disposizione una lampada per poter leggere la Bibbia. Che assurdità, che crudele derisione! Come se, in un simile momento, lo sventurato potesse leggere o capire il significato di quel che legge. Non sono forse rarissimi gli esseri superiori, che vedono senza turbarsi la fine dei propri giorni, in qualsiasi modo essa giunga? Come sperare quindi che il condannato conservi sufficiente libertà di spirito per meditare sugli elevati pensieri della Bibbia, quando ogni quarto d’ora l’orologio di Saint-Paul gli fa misurare il tempo e contare i minuti che gli restano da vivere, mentre il suo cervello alterato gli fa balenare tutti i preparativi dell’esecuzione! Se, all’alba, l’infelice, soccombendo alla stanchezza e alla sofferenza, è abbastanza fortunato da chiudere gli occhi, alle cinque viene risvegliato dal frastuono degli zoccoli dei cavalli e dalle ruote della pesante e fatale macchina che viene portata fuori dal cortile vicino per il suo supplizio! Oh, che risveglio tremendo! Da quel momento, non un solo rumore che non gli annunci l’avvicinarsi del momento supremo. Alle sei, vengono a prenderlo per portarlo nel cortile detto degli ultimi istanti: là si svolge la sua toilette.
Viene spogliato di tutti gli indumenti, poi rivestito con pantaloni e una lunga blusa di tela grigia, infine gli rasano i capelli. Durante tutta l’operazione, ha vicino un ministro della chiesa che lo esorta alla rassegnazione e gli parla delle gioie di un’altra vita. Una volta terminata la toilette, lo portano dallo sherif, che lega personalmente le braccia del condannato. Finiti tutti i preparativi, lo sherif, il suo aiutante, l’elemosiniere e il condannato si mettono in cammino e la lugubre processione arriva sulla piattaforma dell’enorme macchina che domina al centro: là il boia e gli aiutanti afferrano il condannato, lo mettono sulla botola, gli passano la corda attorno al collo, gli abbassano un cappuccio fino al mento e gli mettono un fazzoletto in mano. Al segnale del condannato, che lascia cadere il fazzoletto, gli si spalanca sotto i piedi la botola e allora, secondo l’espressione inglese, viene lanciato nell’eternità.

Flora Tristan

Parrocchia di Saint-Gilles
(quartiere degli Irlandesi)*

di Flora Tristan

La parte iniziale della bella e lunga Oxford Street – percorsa da una folla di carrozze, via di larghi marciapiedi e di ricchi negozi – è tagliata quasi perpendicolarmente da Tottenham Court Road: all’ingresso di quest’ultima via, proprio di fronte a Oxford Street, troviamo una stradina quasi sempre ostruita da un’enorme carretta carica di carbon fossile: essa lascia appena lo spazio sufficiente a far passare una sola persona, che stia incollata al muro. Quella stradina, chiamata Bainbridge, è l’accesso al quartiere degli Irlandesi.
Nessun visitatore penetra nella stretta e buia stradina di Bainbridge senza provare una sensazione di paura. Non ha fatto dieci passi e già resta soffocato da un odore mefitico. La stradina, interamente occupata dal grande magazzino del carbone, risulta impraticabile. A destra, entrammo in un’altra viuzza non lastricata, fangosa e piena di pozzanghere dove ristagna l’acqua nauseabonda di sapone, risciacquatura di piatti e rifiuti anche più fetidi… Allora fui costretta a superare la mia ripugnanza e a riunire tutto il mio coraggio per osare continuare a camminare attraverso quella cloaca e tutto quel fango! A Saint-Gilles, si resta asfissiati dalle esalazioni: manca l’aria per respirare, la luce per orientarsi. La misera popolazione lava personalmente i suoi stracci e li fa asciugare su pertiche, messe di traverso nelle viuzze, di modo che l’aria e i raggi del sole sono completamente intercettati. Il fango vi esala miasmi sotto i piedi, mentre i cenci della miseria vi sgocciolano sporcizia sulla testa. I sogni di una fantasia delirante non giungono a uguagliare l’orrore di quella spaventosa realtà. Arrivata alla fine della via, che non era molto lunga, sentii la mia decisione vacillare, perché ho forze fisiche ben inferiori al coraggio; mi si rovesciava lo stomaco e avevo un forte mal di testa. Esitai se continuare a inoltrarmi nel quartiere degli Irlandesi, quando di colpo mi ricordai che mi trovavo in mezzo a esseri umani, in mezzo ai miei fratelli, fratelli che sopportavano da secoli, e in silenzio, l’agonia di cui era preda la mia debolezza da neanche dieci minuti! Superai il disagio; mi vennero in aiuto le idee che mi ispiravano e mi sentii un’energia pari al compito che mi ero imposta, ossia di esaminare una a una tutte quelle miserie. Allora mi dilatò il cuore un’indefinibile compassione, ma, al tempo stesso, mi sentivo in preda a un oscuro terrore.
[…]
Immaginatevi uomini, donne, bambini a piedi nudi, che sguazzano nel fango infetto di quella cloaca; alcuni appoggiati al muro, in mancanza di sedie su cui stare, altri accovacciati a terra; bimbi sdraiati in mezzo al fango, come maiali. No, se non la si è vista, è impossibile figurarsi una così spaventosa povertà! Un avvilimento tanto profondo! Una degradazione più totale dell’essere umano! Laggiù, vidi bimbi completamente nudi, ragazze e donne che allattavano a piedi nudi, con addosso solo una camicia tanto lacera da lasciar vedere sotto il corpo, quasi completamente nudo… vecchi rannicchiati su un po’ di paglia diventata strame, uomini giovani coperti di cenci. L’esterno e l’interno delle vecchie catapecchie sono in armonia con gli stracci della popolazione che le abita. Niente chiude la maggior parte delle porte e delle finestre di quelle abitazioni: molto raramente sono pavimentate. Dentro, ci sono vecchi tavoli di quercia fatti in modo rudimentale, uno sgabello, una panca di legno, qualche scodella di stagno, una sorta di canile dove giacciono ammucchiati padre, madre, ragazze e amici: ecco le comodità del quartiere irlandese! È uno spettacolo spaventoso. Eppure questo è niente, paragonato all’espressione dei volti! Sono tutti di una magrezza spaventosa; deperiti, sofferenti, e pieni di malattie sulla faccia, sul collo e sulle mani; con una pelle tanto sporca, coi capelli tanto sudici e scarmigliati, che sembrano crespi come i negri; gli occhi incavati esprimono un brutale torpore, ma, se vi mettete a fissare coraggiosamente negli occhi quegli infelici, allora assumono un’aria meschina da accattoni. Riconobbi il tipo di visi, il genere di espressioni che avevo osservato nelle prigioni. Ah, per loro, entrare a Coldbath dev’essere una festa; almeno, in quella prigione, hanno lenzuola bianche, vestiti decorosi, letti puliti e aria pura. Come vive quella popolazione? Di furto e prostituzione. A partire dall’età di otto o nove anni, i ragazzi vanno a rubare. A undici o dodici anni, le ragazze sono vendute a case di tolleranza. Tutti, uomini e donne, fanno del furto una professione. I vecchi si danno alla mendicità. Se avessi visto il quartiere prima di visitare Newgate, non mi sarei meravigliata nel venire a sapere che la prigione riceve da cinquanta a sessanta bambini al mese e altrettante giovani prostitute. Il furto è la logica conseguenza della miseria arrivata al limite estremo.

Flora Tristan


* Flora Tristan, Passeggiate a Londra ovvero L’aristocrazia e i proletari inglesi [1840], ora in Flora Tristan, Scusate lo stile scucito. Lettere, scritti e diari (1835-1844), Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2004 (pp. 205, € 10,00).

 

 

Collana “Il risveglio”

Laura De Marco, Il soldato che disse no alla guerra. Storia dell’anarchico Augusto Masetti (1888-1966), prefazione di Fiorenza Tarozzi

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Jane Addams, Donne, immigrati, governo della città. Scritti sull’etica sociale, a cura e con introduzione di Bruna Bianchi

Mark Twain, Paradisi. Istruzioni per l’uso, a cura e con introduzione di Maria Turchetto

Flora Tristan, Scusate lo stile scucito. Lettere, scritti e diari (1835-1844), introduzione, cura e traduzione di Lina Zecchi


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