rivista anarchica
anno 34 n. 303
novembre 2004


 

Quattro
dialoghi

Nel 1903, la polizia dello Zar segnalava Bogdanov e Lenin come i due rivoluzionari “più pericolosi in assoluto” (1). Insieme, uno in Russia e l’altro dalla Svizzera, guidarono la neonata fazione dei bolscevichi durante la Rivoluzione del 1905 – una rivoluzione fallita, come è noto, ma importante per la formazione dei “soviet”.
Nel 1909, Lenin diede lo storico calcio al tavolo scrivendo e pubblicando in tutta fretta Materialismo ed empiriocriticismo; e, soprattutto, lasciando il compagno a meditare sull’ipotesi di “suicidarsi, dopo essere stato escluso dai piu’ importanti comitati di partito” (2).
Bogdanov, che fu “lo scrittore di gran lunga più produttivo e popolare della socialdemocrazia russa”, accanto a Plechanov (3), continuò a lavorare, deprecando la Rivoluzione d’Ottobre – prima e dopo i fatti –, e subendo anche un arresto nel 1923 (4), fino alla morte – che lo colpì, in modo non del tutto chiaro, quando aveva cinquantacinque anni, nel 1928.
Sotto il regime di Stalin, di pari passo con la canonizzazione, a massimo riferimento gnoseologico del marxismo, proprio della summenzionata opera che Lenin aveva concepito e scritto contro di lui, le sue opere furono “fatte sparire” dalla circolazione (5).
Ben poco dei suoi scritti è oggi accessibile a chi, perlomeno, non conosca il russo. Comunque, sul finire degli anni ’80, Ernst von Glasersfeld si reca ad un convegno per parlare del suo “costruttivismo radicale”, e, grazie a un collega russo venuto in possesso di un volumetto sfuggito alla censura, scopre che Bogdanov esprimeva, dice Glasersfeld, “con chiarezza ed eleganza eccezionali, alcune riflessioni che sono di fondamentale importanza nel costruttivismo” – anticipando una serie di argomentazioni con cui i filosofi della scienza “si sono spesso scontrati”, dagli anni ’50 in poi (6).
Il volume in tal modo fortunosamente recuperato e appena tradotto in italiano, per la prima volta, a cura di Felice Accade (7), è intitolato Quattro dialoghi su scienza e filosofia. Fu pubblicato nel fatidico anno della rottura con Lenin, il 1909.
Ma più che rispondere direttamente a Lenin (8), direi che forse questi dialoghi trasfigurano la loro vicenda umana, oramai disperatamente in crisi, raccontando di due personaggi: un “marxista funzionario del Partito” il primo, chiamato A, e “un vecchio propagandista” il secondo, chiamato B.
Il primo personaggio, una parodia che rovescia il Lenin che improvvisamente si chiude nella biblioteca pubblica di Londra (come già Marx) per ridurre il suo divario di erudizione rispetto a Bogdanov e attaccarlo sul piano filosofico, si presenta così:

A: Mi scusi se l’importuno. Anche se non ci conosciamo affatto, mi permetto di chiedere aiuto e consiglio a un competente par suo. Mi piacerebbe studiare filosofia. Come devo cominciare?

B, il personaggio a cui è affidato il sapere di Bogdanov, acconsente al dialogo, che entra subito nel vivo dei tormenti filosofici di A, che, in realtà, aveva già iniziato a studiare:

A: ammettiamo pure che esista un essere esterno, che esista la conoscenza, che il soggetto e l’oggetto ne siano la condizione... Ma perché tutto questo? E se la conoscenza è necessaria, qual è il suo posto? E una volta letto tutto quanto c’è da leggere, se si cerca un riscontro, che rapporto c’è...

B: Credo di aver capito. Siamo partiti con il piede sbagliato. Per lei la filosofia è una questione di vita, non di cose da leggere. Non potevo saperlo.

B sottopone ad A domande su domande, come da tradizione platonica – ma esse, a differenza di quelle del presunto Socrate, sono finalizzate a confezionare la proposta di un “monismo scientifico”; un punto di vista che, gradualmente, sarebbe destinato a sostituire, paradossalmente, proprio quella “filosofia” che A voleva studiare – e, soprattutto, “vivere”.
A, marxista e funzionario del Partito, rispondendo alle domande, deve collocare la filosofia nella “sovrastruttura” – come “coronamento dell’ideologia”; mentre le “forze produttive” della società si troverebbero nella sua “base”.
B passa a chiedergli, allora, se egli sa qualcosa della “capacità di lavoro dell’uomo”: per arrivare, passando per “tutta la struttura organizzata dell’uomo”, alla “teoria della lingua” e “al problema della sua nascita e della sua evoluzione”, su cui, ovviamente, inchioda il suo interlocutore:

B: Come lei sa, la parola è lo strumento della comunicazione (...). E, in quanto marxista, lei sa bene che se un lavoratore non padroneggia i suoi utensili saranno questi a padroneggiare lui.

Il primo dialogo si chiude con una battuta, da parte di A, che messo di fronte alla propria ignoranza non si offende affatto, mentre, al contrario – apprezza il suggerimento:

A: e adesso mi metterò a studiare l’alfabeto... delle forze produttive.

Ernst von Glasersfeld trova una notevole “congruenza” fra le tesi di Bogdanov e il suo “costruttivismo radicale”. Soprattutto allorquando Bogdanov, “con riferimento all’esperienza” che Glasersfeld considera “il concetto fondamentale del suo pensiero”, afferma che non si devono considerarne gli “elementi” come “indipendenti dall’essere umano”. Per entrambi, in breve, “non ci sono elementi a priori, visto che è l’uomo stesso a determinarli e definirli, isolandoli nel flusso dell’esperienza” (9).
Gli “elementi dell’esperienza” (parole di Ernst Mach) sono sempre ulteriormente analizzabili, provenendo dal “lavoro” (categoria fondamentale in Karl Marx), sia individuale – di soggetti pensanti –, e sia collettivo – di appartenenti a movimenti culturali e politici, famiglie, comunità linguistiche, classi sociali e così via.
Il concetto di “cultura proletaria”, proposto da Bogdanov partendo dal Marx che faceva di ogni pratica (socializzata) un criterio di “verità” e dal Mach che scomponeva tutta l’esperienza in “elementi” e loro “combinazioni”, era alla base della rivoluzione costruttivista-bolscevica che non ci fu – stroncata dal dogmatismo di Lenin.
Per il “costruttivismo radicale” di Glasersfeld come per Bogdanov, in conclusione, è cruciale la lotta degli atteggiamenti sensati – solitamente propri della vita quotidiana – contro i misticismi-autoritarismi – tutelati dagli pseudo-problemi della filosofia.

Francesco Ranci

Note:

  1. Massimo Stanzione, Selezione, organizzazione e metodo scientifico in A.A. Bogdanov; in Quattro dialoghi su scienza e filosofia di A.A. Bogdanov, Odradek, Roma, 2004, p. 63.
  2. Massimo Stanzione, cit., p. 63.
  3. Silvano Tagliagambe, Bogdanov tra costruttivismo e scienza dell’organizzazione; in Quattro dialoghi, cit., p. 95.
  4. Daniela Steila, Scienza e rivoluzione. La recezione dell’empiriocriticismo nella cultura russa (1877-1910), Le Lettere, Firenze, 1996.
  5. Ernst Von Glasersfeld, Prefazione a Quattro dialoghi, cit., p. 7.
  6. Ernst Von Glasersfeld, Prefazione a Quattro dialoghi, cit., pp. 7 e 10.
  7. A.A. Bogdanov, Quattro dialoghi su scienza e filosofia – con scritti di Ernst von Glasersfeld, Massimo Stanzione e Silvano Tagliagambe, Odradek, Roma, 2004. Con presentazione del curatore, Felice Accame.
  8. A. Bogdanov (et al.), Fede e scienza, Einaudi, Torino, 1982.
  9. cfr. Ernst Von Glasersfeld, Prefazione a Quattro dialoghi, cit., p. 7.

 

Acrobati

Acrobati di vita quotidiana senza applausi
fra eroiche guerre mai dichiarate
eppure sofferte in recinti prigioni
camuffate di pietose attenzioni.

Tortuosi percorsi ginnici
liberi consigli mentali
propensi a correggere sbagli
e centrare possibili, vicini, bersagli.

Cacofoniche immagini estetiche
prodotte da suoni scomposti
fra spine con rose coltivate
in pentagrammi di note stonate.

Nascondersi vorrebbe Cyrano
all’amore il pronunciato naso
componendo amabili versi
ma passa parola a terzi.

Nasconderci ci hanno provato
poi, comodo e appropriato, non più
guardarci lontano…diversamente
abili…che nome strano

Ma le parole feriscono con un sorriso
più di uno storpio detto da cattivo
se la differenza è tra un noi e quelli là

quale consiglio , allora, mi dà?
Lasciarci giocare la vita.
Siamo acrobati…tutto un hoplà!

16 settembre 2004

Jules Élysard

 

Guerra, terrorismo
e Stato di polizia

Nulla è pieno quanto l’assenza
tagliata da una luce caliginosa
sull’opaca, densa, superficie a specchio
la paura vi scivola lenta e minacciosa
rigandola con triste esperienza.

Neppure il silenzio fa la sua parte
quando nessuno vi presta più orecchio,
quando il rumore cala spietato, ingombrante
su occhi smarriti che guardano il tetto
… dove andare?…cosa fare?

E tocca, tocca ricordarle…strazianti
immagini indicibili di volti senza sorriso,
in fogli quotidiani distrattamente orribili
alla ricerca di un perché, di un motivo
per quegli urli, quei dolori, quei pianti.

Nomi, date, luoghi, sofferta geografia
di una pietà ormai morta, di sentimenti
da tempo sepolti, giacché liberi orizzonti
mentali non erano rinchiusi altrimenti
tra guerra, terrorismo, e stato di polizia.

11 settembre 2004

Jules Élysard

 

Prima edizione,
Prima Internazionale

Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione, scritta da Giampietro “Nico” Berti, al libro di James Guillaume L’Internazionale. Documenti e ricordi (1864-1878). Edito dal Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo.

“La prima edizione dell’Internazionale fu pubblicata a Parigi, in quattro volumi, tra il 1905 e il 1910.
Una seconda edizione ha visto la luce, sempre a Parigi, nel 1985. Quella che viene qui presentata è la prima versione in lingua italiana, la quale, pertanto, sconta un secolo di ritardo rispetto all’uscita originaria dell’opera. Tuttavia il lavoro di Guillaume risulta ancora oggi fondamentale, non certo sotto il profilo strettamente storiografico, dato che la bibliografia sul tema annovera ormai un numero elevato di ricerche importanti, ma perché costituisce una fonte “classica”, e per certi versi insuperabile. Guillaume, infatti, ha fuso insieme la documentazione archivistica e la documentazione bibliografica (libri, opuscoli, memoriali di vario genere), intrecciando i resoconti giornalistici e gli articoli tratti dai periodici dell’epoca, brani di opere e di testi ufficiali, lettere di vari personaggi e molti ricordi personali e altrui.
Specialmente l’intreccio delle memorie rende l’opera interessante perché l’insieme dei particolari e degli aneddoti più curiosi e i più diversi ha una grande capacità evocativa, offrendo una panoramica assai “ravvicinata” degli uomini e degli eventi del periodo. Il risultato di questo intreccio oggettivo-soggettivo, steso volutamente con metodo il più possibile filologico e descrittivo, è stato la delineazione di un quadro pressoché completo di ciò che è avvenuto dal 1864 al 1878 (anche se buona parte della ricostruzione storica riguarda la Svizzera).
Se scorriamo l’indice di quest’opera possiamo agevolmente constatare come siano cronologicamente riportati tutti i principali avvenimenti dell’associazione. Sono descritte le vicende dei congressi internazionali svoltisi a Ginevra, Losanna, Bruxelles e Basilea, la Conferenza di Londra del 1871 e il congresso dell’Aja dell’anno successivo. Non sono tralasciati avvenimenti “laterali” quali i congressi della Lega della pace e della libertà, e fatti locali riguardanti soprattutto l’ambito elvetico, peraltro importante, essendo di per sé un ripetuto luogo di incontro fra i maggiori esponenti internazionalisti…
Molte pagine sono dedicate alla guerra franco-prussiana e alla Comune di Parigi perché costituiscono un momento decisivo per la storia delle organizzazioni operaie e socialiste. Dopo il congresso dell’Aja, che di fatto pone fine alla Prima Internazionale, la ricostruzione di Guillaume si focalizza soprattutto sulla nascita e sugli sviluppi del movimento anarchico, specialmente per quanto riguarda l’Italia e la Spagna, due Paesi nei quali l'anarchismo si esprime con vari tentativi insurrezionali seguiti da inevitabili repressioni governative.
Complessivamente gli anni che vanno dal 1872 al 1878 trattano della genesi anarchica riguardante l'aspetto ideologico e l'aspetto organizzativo; una genesi che imprime quei caratteri fondamentali che determineranno gran parte della storia futura del movimento.
Naturalmente con l’Internazionale Guillaume non ha avuto la pretesa di presentare un'opera “obiettiva”, immune da ogni forma di soggettività. Il solo fatto di darle come sottotitolo Documenti e ricordi testimonia questa consapevolezza. Ci troviamo infatti di fronte ad un'interpretazione che risente della personale angolazione dell'autore, la quale è data soprattutto dalla forte accentuazione anti-politica volta a sottostimare il vero senso dello scontro tra marxismo e anarchismo, così come esso è emerso dal 1864 al 1872. Sia ben chiaro: lo scontro è ampiamente documentato (per certi versi anche troppo), ma lo è entro un'ottica di tipo “etico”, vale a dire che la contrapposizione viene delineata rilevando i comportamenti scorretti da parte di Marx e dei marxisti contro gli anarchici.
Al di là della evidente unilateralità di tale impostazione – che comunque documenta fatti veri e sempre taciuti da quasi tutta la storiografia marxista – va osservato che Guillaume finisce per sottovalutare il ruolo leaderistico e tutto “partitico” svolto da Bakunin e dallo stesso Marx. Un ruolo, per l'appunto, che è stato eminentemente politico e sul quale si sono giocate le sorti della Prima Internazionale. La vera posta in gioco, infatti, era la determinazione politica da imprimere all'organizzazione operaia, da parte di due concezioni, quella marxista e quella anarchica, che non avevano alcuna possibilità di mediazione.
La presente introduzione ruota attorno alla centralità di questa contrapposizione, che peraltro costituisce l'interesse maggiore dell'opera. Delineeremo quindi alcuni aspetti fondamentali, analizzando soprattutto tre punti: 1) l’opposta interpretazione delle fonti ideologiche originarie dell'associazione che dovevano legittimarne l'esistenza, 2) l’opposta interpretazione della guerra franco-prussiana e della Comune di Parigi; 3) l’opposta interpretazione del ruolo che avrebbe dovuto assumere l’Internazionale nella lotta del movimento operaio e socialista contro il capitalismo e contro lo Stato”.

Giampietro “Nico” Berti

Dal catalogo delle edizioni del CSL Camillo Di Sciullo

Collana Biblioteca del “Pensiero”
1) Francesca Piccioli, Virgilia D’Andrea, storia di un’anarchica, pp. 192, € 10,00
2) Luigi Corvaglia, Psicopatologia della libertà, pp. 208, € 10,00
3) Ugo Fedeli - Giorgio Sacchetti (a cura di), Congressi e convegni della Federazione Anarchica Italiana (1944-1995), pp. 560, € 18,00
4) Edoardo Puglielli, Abruzzo Rosso e Nero, pp. 272, € 12,00
5) Leone Tolstoj, Per l’uccisione di re Umberto, pp. 80, € 8,00
6) James Guillaume, L’Internazionale documenti e ricordi (1864-1878), 4 tomi per complessive pp. 2160, € 80,00
7) Fabio Palombo, Camillo Di Sciullo, anarchico e tipografo di Chieti, pp. 96, € 10,00
8) Luigi Balsamina, Antonio D’Alba, storia di un mancato regicida, pp. 128, € 10,00

Collana Quaderni dei CSL Camillo Di Sciullo
1) G.P. Maximoff, Gli anarcosindocalisti nella rivoluzione russa
2) Kreszentia Mühsam, Il calvario di Erich Mühsam
3) Luigi Compolonghi, Amilcare Cipriani.
4) Domenico De Simone, Banca del movimento
5) Pierre Ansart, Proudhon, il socialismo come autogestione

Per richieste
CSL Camillo Di Sciullo C. P. 86, 66 100 Chieti
email: fab.pal@libero.it

 

Chiavi che
aprono il cuore

Riflessioni a margine di “Le chiavi di casa”, il nuovo film di Gianni Amelio.

Eccoci dunque al cinema, sedute nel freddo della sala condizionata, e sì che l’autunno incombe, ma tant’è, l’aria condizionata oramai sembra più indispensabile dell’aria stessa, attente e curiose dopo l’abboffata di recensioni al buio, le ricche commozioni veneziane, i naufragati pronostici degli inviati speciali.
Eccoci, io e mia figlia Maria Elena, insieme ad altri quattro gatti, all’ultima proiezione in un sabato che, al solito, consuma i propri fasti in pub sempre più zeppi e rumorosi, nell’inarrestabile movida che persino la nostra liberale sindachessa di Alleanza Nazionale incoraggia e promuove.
Ho appena consegnato le chiavi di casa ad un distratto spettatore che le aveva abbandonate sul divano rosso della saletta d’attesa e mi auguro per ricompensa un bel chiasmo con le metaforiche chiavi di Amelio, sperando di non dovermi sorbire l’ennesimo strabiliante idiot savant del cinema che lava le coscienze e fa sentire tutti più buoni.
Altrochè! Queste chiavi, cari spettatori, son grimaldelli che le scassinano le coscienze, che tengono a disagio sul bordo della comoda poltrona di prima visione, che additano ed accusano ogni indifferente e lagnosa normalità.
Queste chiavi aprono il cuore, sì, ma non consentono di chiudere il cervello né di uscire dal cinema piagnucolosi e rasserenati.
Intanto gli attori. Bravissimi, ancor più bravi perché sono per la maggior parte del film solo in due, padre e figlio, e tengono costantemente tempo, espressività e recitazione a livelli altissimi. Il misuratissimo, spaventato, stranito Kim Rossi Stuart (il padre), è bellissimo, e se ne impippa, Andrea Rossi (il figlio) è stupefacentemente naturale, ed io dico che se un ragazzino affetto da tetraplegia spastica, e che con il cinema non ha mai avuto a che fare, riesce ad apparire “vero” su di un set cinematografico, può voler dire solo che è un bravo attore. Quanto a Charlotte Rampling, meriterebbe l’oscar quale miglior attrice non protagonista per avere, con la propria grandezza artistica, donato dignità e visibilità a tutte le madri sconfitte dalla crudeltà del caso, ed anche la corona di miss mondo quale più bella ultracinquantenne che giammai fece iniettare nel suo splendido volto una sola goccia di silicone!
E veniamo al film.
È uno splendido film triste e calmo, come occorre che sia quando il tema trattato è quello di una diversità difficile, dolorosa, faticosissima. Ragazzi, qua non siamo dalle parti di Rain Man e neanche da quelle di Shine. Qui non ci sono grandi talenti che riscattino l’handicap, qua nessuno suona il pianoforte, nessuno fa straordinari calcoli matematici, nessuno scopa o va a ballare. La sola abilità del piccolo disabile è quella di pestare furiosamente sul game boy!
C’è un bambino di 15 anni, Paolo, che cammina col trespolo, e ci fa una fatica boia, c’è un padre, Gianni, che è scappato per un tempo inaudito e forse torna solo perché è riuscito a fare un altro figlio “normale”, ad avere una vita normale (Gianni è innamorato e felicemente sposato ed ha un bambino di otto mesi), ma non saprà mai, il regista giustamente non glielo fa sapere, se potrà recuperare il tempo smarrito e rimediare alla passata vigliaccheria. A quest’uomo capita all’improvviso di dover affrontare le proprie responsabilità, esattamente come capita nella vita, e lo fa con un coraggio continuamente interrotto dall’ansia e dall’incertezza, e con una dolcezza che fa male al cuore.
Ci sono due esseri umani, ignoti l’uno all’altro, che partono per un viaggio della speranza in una città straniera, che si scoprono ed imparano ad amarsi (meravigliosamente pregne di fisicità le scene in cui padre e figlio si abbracciano, mangiano, fanno il bagno insieme): l’uno, il bambino disabile, il debole, lo sfortunato, con una forza che è la forza di chi prende la vita per quello che offre e la percorre come una lunga strada sconosciuta e affascinante (commovente l’impavida fuga di Paolo nella città aliena, straordinario quel suo stare in piedi e assorto tra le scosse dell’autobus); l’altro, l’adulto sano, l’uomo bello e gentile, il padre che ha tradito ma sa tornare, e rimanere, con la fragilità di ogni uomo che si dibatte fra la necessità e la paura di amare.
Gianni Amelio è stato da sempre interessato alle realtà difficili calate in un preciso contesto storico-sociale, e forse per tale suo impegno può essere considerato in un certo senso l’ultimo dei neorealisti (esemplare la scelta di far recitare la parte del disabile ad un autentico disabile, a tal proposito lo stesso Amelio ha dichiarato di non aver pensato un solo momento di usare un vero attore “anche se sapevo di andare incontro ad un possibile fallimento tecnico”), non meno però che allo scandaglio del rapporto tra adulti e bambini, tra genitori e figli (Il ladro di bambini, Colpire al cuore), ed ogni volta ha saputo coniugare egregiamente il dramma dell’esistenza quotidiana con quello dell’incomunicabilità umana, ma questa volta tocca a mio parere il suo punto più alto.
Si è detto che questo film è la storia del difficile rapporto tra padre e figlio, tanto più difficile perché il figlio è un diverso e non c’è nessuna donna a mediare o a lenire (se si esclude la breve apparizione della madre di un’altra disabile, impersonata dalla Rampling, di per sé nient’affatto consolatoria), ma io ritengo che sia altro e più.
Io penso che il tema centrale di questo film, il suo fondamentale motivo ispiratore, sia proprio l’handicap e che Amelio sia riuscito a far diventare la storia di Paolo, un diverso come tanti che ci passano accanto, senza che noi “normali” gli dedichiamo più che un fugace pensiero solidale, la storia di tutti noi, e l’ha fatto attraverso il personaggio-simbolo di Gianni, il padre indifferente per 15 anni, così come indifferenti siamo noi rispetto al dolore ed alle difficoltà degli altri. Gianni rappresenta proprio noi, gli spettatori che alla fine del film se ne vanno nella vita vera, e, restando dietro lo schermo, sembra avvertirci: attenti, è questa la vita vera!

Maria Teresa Crespini
(con la preziosa consulenza di Maria Elena Lega)