rivista anarchica
anno 34 n. 304
dicembre 2004 - gennaio 2005


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Strade ritrovate
Tra fiamma e Candela di Lorenzo Riccardi

In Strade perse, a non so che civico, un poeta avvelena il Ticino col suo amore.
Pavia, questa città di farmacisti, stagliandosi longombardissima dai suoi ponti, parrebbe voler soffocare ogni rivolta in un’invincibile provincia. Come potrebbe amarla un’anima d’estrema irrequietezza?

Con i tuoi ponti bassi
che uniscono le rive
e le tue torri rosse
di vicoli e di strade
città io non ti amo.
Per le tue strade il tempo
il tempo si è fermato
e per le strade il vento
il vento ha trasportato
fin qui il mio seme
e tutti i suoi segreti
città io non ti amo
Pavia io non ti amo.

Lì c’è appunto un cantautore molto capelluto (oh, invidia!) e molto stimato, che ha fatto incetta di premi e riconoscimenti: fra i primi ad essere emerso al Premio Recanati, essendo di conseguenza inserito nelle relative antologie, ai tempi in cui Recanati non dava ancora una lira ai vincitori, ma laureava artisti del calibro di Max Manfredi. Poi ospite del Club Tenco nel 1989.

Lorenzo Riccardi

Un disco prodotto dai mostri sacri Mauro Pagani e Giorgio Cordini ha segnato nel 1997 l’esordio del nostro sul mercato (sia detto con la dovuta ironia!). Nulla avvenne, nel senso che la vita artistica non risultò da allora più facile per il cantante; se può valere qualcosa però, avvenne che chi scrive s’innamorò di canzoni che dicevano:

Qui le sere sono vuote
ma le notti sono piene
di tentativi di tramonto
di ubriachi e di sirene.
In giro vedo molte cose
poche che valgano la pena
di regalartele in riva al fuoco
dicendo – cazzo, sai che scena
mi resta solo la confidenza
di questi viaggiatori senza meta
che mi raccontano che l’esperienza
è una bottiglia vuota.

E soprattutto dell’esordio del disco: radicale, spietata analisi del sentimento di sorda rivalsa che invade chi è vittima del sopruso di un’autorità, che senza alcuna necessità e solo per affermarsi in quanto potere, rompe le palle all’ignaro passante.

Un poliziotto che certamente
aveva il talento del parrucchiere
guardava i miei capelli lunghi
come il lupo guarda il pastore.
Posto di blocco
lungo la linea di confine
con la paletta bianca e rossa
l’auto blu con le lucine
posto di blocco
penalizza i tuoi pensieri
spegni il motore e l’autoradio
e lunedì dimmi dov’eri.

Lorenzo con un pugno di nuove canzoni è tornato, da circa un anno, presentando un disco all’apparenza (e anche di fatto) assai più spigoloso del precedente.
Essenziale negli arrangiamenti, secco nei suoni, violento nei testi, persino salutarmente sgradevole in certi casi, Tra fiamma e candela, se si può, è ancor meno pacificato del suo antesignano; sempre più disilluso, sempre meno arreso, lancia il suo guanto di sfida senza perder tempo in compiacenze. “Senza contar palle mediatiche”, ha detto appunto Max Manfredi, questo disco coniuga una rabbiosa disillusione, un sordo luciferino rancore esistenziale con la critica spietata della società in cui viviamo.
Magico è l’equilibrio che tiene insieme due posizioni apparentemente distanti se non proprio antitetiche. La canzone che apre il disco è, ad esempio, un canto di disperazione cosmica: non solo si dà come premessa di aver ingollato un diavolo che giaceva in chissà quale bottiglia (pescata dal fondo del Ticino?) che spinge una volta tanto, una volta di più, ad aprire gli antri oscuri del cuore, non solo s’irride al pensiero positivo delle sciocchezze new age, in auge anche su supporto cd dai tempi dei Cherubini/Jovanotti, ma alla fine non c’è che da ribadire che “nessuno uscirà da qui/nessuno uscirà vivo”, non saranno i programmi interattivi, le conquiste mediatiche, i nuovi credenti di questo positivismo scientifico e globale a sconfiggere la morte, il grande trombettone assirobabilonese, che nella sua nota sorda finirà per ingoiare ogni strepito umano.
Ma allora, verrebbe da domandarsi, a che pro Lorenzo Riccardi apre spietato le pagine del giornale quotidiano e vomita amore sulla spazzatura del mondo? Se già ab ovo non viene lasciata speranza all’umanità sciocca, perché incazzarsi per le storture dell’epoca berlusconiana?
Sarebbe, questa riflessione, sensata se tale canzone fosse messa a suggello del disco, ma invece si trova, come dicevamo, in apertura, come anch’io l’ho sentita più e più volte sempre in apertura dei concerti; come una avviso, come un’allerta. “La vita dell’uomo”, sembra perciò dire, “è un fragile, atomo d’esistenza”, che può essere riempito solo se alla follia orgogliosa dell’avere, destinato come ogni possesso a restare fuori dalla tomba che ci aspetta, si contrappone una dignità dell’essere.
Ecco dunque che il secondo pezzo, friabile, delicato e cantabilissimo parla di un pettirosso (ovviamente da combattimento, come quello di Faber e di Maggiani) lanciato a contrastare bombardieri e follia.

Pettirosso
Pettirosso batti le ali
Per scoprire se è vero che voli
Batti le ali, batti le ali
Che qui fuori siamo tutti speciali
Perfino quelli che non sembrano uguali
Anche l’aquila può cadere giù
Batti le ali che se non vola volerai tu

Vola vola batti le ali
Facci vedere se è vero che voli
Batti le ali, batti le ali prova e vedrai
Batti le ali, batti le ali e volerai
Vola vola che voli sul mare
Che è grande e lungo da traversare
Vola leggero, vola davvero se no cadi giù
Vola nel cielo sul mare nero più nero che blu

Anche se hai voglia di menare le mani
Contro i falchi e gli aeroplani
Che volteggiano per la libertà
Batti le ali finché la guerra non se ne andrà
Batti le ali finché la notte non passerà.

E una canzone resa preziosa dalla voce argentina di Betti Verri, che duetta con quella ferrochinosa di Lorenzo in un contrasto carico di significato. L’apparente semplicità dei versi richiama, anche per il tema ornitologico, un tardo libro di Umberto Saba.
Radicale, s’è fatto il pensiero in musica di Riccardi, perché essenziale, intenso perché fatto di ben poche parole, di concetti mai arzigogolati, di armonie dritte, di vocalità sobria; appena e nient’altro che le parole, già cariche, come sono in natura, di suono e ideale.

La crescita musicale più evidente è ravvisabile nell’allargarsi dal folk dylaniano, che ha sempre rappresentato il suo orizzonte di riferimento, alla musica popolare italiana (In mezzo al mar o la commovente Senza parole), in una miscela elettroacustica veramente lancinante; merito anche di Stefano Cattaneo, che, senza nulla togliere ai mostri sacri che avevano prodotto l’album precedente (appunto Pagani e Cordini, che tornano comunque in veste di ospiti), mi pare abbia accompagnato al più alto livello le canzoni, consegnandoci un album, solo apparentemente, più povero, in realtà senza fronzoli, più coraggioso, che non chiede scusa a nessuno di aver da dire anche cose sgradevoli.
La monomania (come la definisce scherzosamente lui stesso) di Lorenzo per Melville, presenta qui uno scarto interessante, non solo per la traccia in cui Fernanda Pivano legge con voce emozionata un passaggio finale del Moby Dick, ma più ancora per il brano L’angelo della palude; sulle prime, ascoltando il disco senza leggere i crediti, avevo trovato del tutto coerente col resto questa canzone evidentemente riferita ai bombardamenti a tappeto più o meno umanitari, cui le cronache ci abituano… Con mio grande stupore sono venuto a scoprire che si tratta in realtà di una poesia, appunto di Herman Melville, musicata dal nostro. Potenza del contesto! (o anche sfiga della storia!). La metafora dell’angelo sterminatore si mimetizza perfettamente col resto del disco, dando vita al brano forse più potente.
Per il resto Successo quotidiano (e da destra a sinistra/una sola risposta/privatizzo elezioni alla mano/liberizzo sondaggio alla mano), e soprattutto Dare i numeri tengono in bilico immaginario apocalittico e critica sociale nell’equilibrio di una voce poetica perfettamente matura.
Nel suo primo disco Riccardi pensava all’Africa come luogo di evasione dal carcere quotidiano della nostra vita mercantile, ora con una prospettiva di specchi invertita, ritroviamo uno dei più bei canti dell’emigrazione di questi anni.

Controvento
Ehi tu che passi sotto il cielo terso
Su questo mare di nessuno
E cerchi l’orizzonte perso
Tra le nuvole di fumo
Ascolta il vento occidentale
Sta spingendo via a levante
Per ogni notte carica di sogni
una barca carica di gente

E, gente vera, gente che c’ha fame
E il dolore scritto in faccia
Uomini, cose, donne, figli, vite
Sparite senza lasciare traccia
Noi qui provincia dell’impero
Noi ci inventiamo inutili incidenti
Troppo lontani per sentirci in colpa
Troppo vicini per essere innocenti

Vi di Vi di Vi di Vi di Vi da
Vi di vi di vi di vi di vi di vi da
La vita viene e va la vita va
Lungo il confine
Che non ha fine

E cambia il vento occidentale e promette convincente
Per ogni nave che non lascia il porto
Un futuro sorprendente
“Potrai vedere la merce esposta
nella tua sfera di cristallo”
così ogni giorno battono le strade
per pochi spiccioli vendono corallo

Come dimentichiamo in fretta
Le cose scomode da ricordare
Dietro la maschera della pietà
C’è un cadavere da occultare

Vi di Vi di Vi di Vi di Vi da
Vi di vi di vi di vi di vi di vi da
La vita viene e va la vita va
Lungo il confine
Che non ha fine

Insiste il vento occidentale
E sputa in fondo alla canzone
In questa notte avida di dubbi
Una fila immensa di persone
Da quei pochi che hanno tutto
A chi è stato derubato
Tutti pronti al sacrificio
Sull’altare del mercato.

Uno degli ultimi concerti che io e Lorenzo abbiamo fatto assieme era per i compagni dell’Agorà di Pisa, in memoria di Franco Serantini. Io, come si sa, non ho la patente, per cui m’affido spesso ai colleghi automuniti. Finito il concerto alla solita ora impensabile, Lorenzo s’è dichiarato disponibile ad accompagnarmi a Genova dove ci offriva asilo il sommo pianista Marco Spiccio, con cui dovevo suonare l’indomani. Sbarchiamo a Genova alle tre e mezza di notte, ora appena, appena interessante e creativa per Spiccio, e lì si resta a parlare, bere e suonare per un buon paio d’ore ulteriori, dopodiché io getto la spugna e m’infilo nel letto, giusto in tempo per sentire Riccardi rifiutare il riposo offerto e dire “Ho ancora bisogno di un po’ di strada sotto il culo, riparto per Pavia.”
Così è Lorenzo e così è la sua musica, inquieto e zingaro, notturno e instancabile. Sempre in viaggio verso Strade perse.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it