rivista anarchica
anno 35 n. 307
aprile 2005


antifascismo

Una resistenza lunga vent’anni
di Ugo Fedeli

 

Al confino, in clandestinità, in esilio, gli anarchici non hanno mai mollato.


Tra le carte di Ugo Fedeli che la moglie Clelia ha lasciato all’Archivio Pinelli di Milano c’è anche un consistente dattiloscritto che descrive l’azione anarchica durante il ventennio fascista.
Questo dattiloscritto non ci risulta esser stato pubblicato in forma di libro, come suggerirebbe la divisione in capitoli, anche se non è escluso che una parte di queste ricerche Fedeli le abbia pubblicate su vari periodici sotto forma di articoli.
Qui di seguito pubblichiamo alcuni brani tratti da vari capitoli che ci danno uno spaccato delle attività anarchiche del periodo: in primo luogo la vita al confino, che coinvolge centinaia di militanti; poi l’emigrazione forzata, che ne coinvolge invece migliaia.

 

Ugo Fedeli

Le mense degli anarchici

(...). È nel 1928, dopo la fuga dall’isola di Lipari di Carlo Rosselli, Emiliano Lussu e F. F. Nitti, che sciolte per i confinati politici le colonie poste in alcune isole poco sorvegliabili, soprattutto quella di Lipari, vennero attivate e potenziate quelle della isole di Ponza e di Ventotene. I primi centocinquanta confinati che sbarcarono a Ponza dal piroscafo Garibaldi, provenienti da Lipari, portavano, con i loro indumenti, anche le strutture della loro organizzazione interna e, parlando sempre ed in modo particolare degli anarchici, vi portavano le loro mense, la loro biblioteca abbastanza importante e la loro cooperativa. «A Ponza» scrive Massimo Salvadori nel suo libro Resistenza ed Azione, «gli anarchici numericamente erano il secondo gruppo tra i confinati. Non avevano niente del tipo classico dei lanciatori di bombe. Quasi tutti operai, erano sempre disposti ad aiutare chiunque ne avesse bisogno, erano animati da un profondo rispetto per coloro che non la pensavano come loro, eccettuati i comunisti ortodossi ai quali non perdonavano di aver distrutto nel 1918 il tentativo che tutti gli anarchici speravano allora venisse compiuto di trasformare l’intera nazione russa in una libera federazione di libere comunità di contadini ed operai.
Venivano da tutte le parti d’Italia: dalla Sicilia come da Milano, da Roma come da Livorno. Alcuni si dicevano individualisti; la maggior parte leggeva Kropotkin e si diceva collettivista». (...).
Quelli che erano stati precedentemente al confino avevano messo su una piccola biblioteca di alcune centinaia di volumi. I confinati ricevevano dal governo cinque lire al giorno; alcuni mangiavano per conto loro; altri si erano organizzati in mense, a seconda delle loro tendenze politiche.
Si facevano due pasti al giorno, ognuno di un piatto solo, ma era sufficiente. Nel casermone vi era un locale adibito a spaccio cooperativo, in un altro un gruppo di anarchici aveva messo su un caffè i cui proventi andavano alla biblioteca.
Nel 1934, quando i primi confinati vi avevano già scontata la loro pena e alcuni vennero rilasciati, il confino si andò popolando anche di molti giovani, qualcuno cresciuto sotto il fascismo, altri deportati dall’estero; molti di questi non erano ancora trentenni e non facevano parte della prima variopinta opposizione. Innanzi tutto i popolari erano spariti: la chiesa benediva largamente i gagliardetti fascisti e i cannoni; non vi era che qualche rarissimo liberale e repubblicano – ma questo soprattutto perché facevano parte del movimento Giustizia e Libertà – e qualche raro socialista. In generale erano giovani comunisti e giovani anarchici e questi apportavano, oltre che il loro ardore, anche nuove caratteristiche, soprattutto nessun strascico delle vecchie polemiche interne che avevano devastato ogni partito e tendenza.
Gli anarchici, anche se molti mangiavano isolati o in piccole mense, erano riuniti in due grandi mense. Una era chiamata del «convento nero», composta in maggioranza da vecchi militanti, soprattutto romani, che provenivano da altre isole ed avevano quasi tutti al loro attivo il raddoppio della condanna perché, finiti i primi cinque anni, non essendosi ravveduti ne avevano ricevuto altri cinque. Vi era poi la mensa degli «acquatici», definita così perché in mensa non si distribuiva vino e la maggioranza non ne beveva. Questa era composta da qualche militante livornese, anche se il nucleo centrale era formato da giovani anarchici deportati dall’Argentina e dall’Uruguay, quali Grossuti, Barca, De Marco, Barbetti, Bidoli (che era stato invece deportato dalla Spagna), e da un altro gruppo di giovani molto capaci e sinceri. Anche se non vi erano molti intellettuali fra di loro, il tono delle discussioni e il loro comportamento, in generale, era sempre elevato. A questa mensa aveva aderito anche Paolo Schicchi quando dal carcere venne inviato al confino.(...).

Alfonso Failla

Qualche agitazione tra i confinati

(...). Benché i cameroni fossero guardati internamente ed esternamente, giorno e notte, da pattuglie di polizia e dalla milizia fascista, venne impartito l’ordine di tenere le porte dei cameroni aperte e le luci accese, proibendo ad uno di un camerone di frequentarne un altro. Con questo si voleva soprattutto levare la possibilità di studiare. Era con gioia veramente sadica che quegli analfabeti volevano strappare ai confinati anche quell’ultimo rifugio che era lo studio, nel quale ognuno cercava di affinare le proprie conoscenze, ma anche di dimenticare la dura vita di disciplina e di soprusi. Se si ricevevano libri da parte di privati, venivano sequestrati. Se se ne volevano comprare, bisognava spiegare alla direzione o all’ufficio censura il perché; ed a volte un libro veniva autorizzato o rifiutato a seconda che il richiedente fosse un operaio o un contadino o un intellettuale.
Per gli studi non si potevano tenere note. Per poter scrivere era indispensabile avere un quaderno le cui pagine erano contate, numerate e controllate una ad una dalla polizia, pagine che per nessuna ragione potevano essere strappate.
La direzione faceva di tutto per far piombare nell’istupidimento o nella violenza il confinato, per disgregare gli aggruppamenti che nonostante tutte le restrizioni si era riusciti a creare, lottando per conservarli. Con queste sue misure la direzione pensava di poter arrivare con maggiore facilità a realizzare il tentativo di spezzare la resistenza di ognuno e di spingere i meno resistenti a cedere, ad abbandonare ogni velleità d’indipendenza di pensiero e di vita.
Chiunque intendesse difendere il proprio diritto alla vita ed alla dignità d’uomo, era costretto ad una continua, anche se sorda, lotta contro la direzione. La lotta era certamente impari e le varie agitazioni che si ebbero al confino e che assunsero un fermo carattere di resistenza, non riuscirono che a dimostrare come fosse difficile far valere un diritto o impedire un sopruso. In favore dei confinati, oltre alla propria dignità e volontà, non vi era nulla. La stessa legalità fascista non valeva nei loro confronti: il confinato era un nemico che andava spezzato, abbattuto, e tutto era valido e buono per arrivare a questo risultato. «Voi non siete qui per fare della villeggiatura né per vivere tranquilli» ebbe a dire il direttore Di Meo a qualche confinato che si era recato da lui per protestare contro un sopruso più grande dei soliti, «siete qui per punizione e ci devono essere delle punizioni». E concludeva ogni sua concione, da piccolo dittatore: «Del resto qui comando io e faccio quel che voglio». Da una mentalità del genere si possono facilmente dedurre i metodi che ne scaturivano.
Anche i confinati però erano duri. Vi era dignità e fermezza, e contro la fermezza dei confinati, ministero e direzione batterono dei colpi feroci che costarono lunghi mesi di carcere, così a Ponza nel 1933 e nel 1935, così a Tremiti, quando ad esempio si tentò di imporre il saluto romano obbligatorio e i confinati, in gran parte anarchici, preferirono andare in prigione per un anno piuttosto che cedere. Fra i partecipanti a questa agitazione ricordiamo, fra i numerosi nomi, quelli di Alfonso Failla e Santiago Barca.
I fatti di Tremiti avvennero in seguito ad un tentativo da parte delle autorità di spezzare l’omogeneità e la resistenza dei confinati. Essa pensò di separare una parte di confinati di Ponza mandandoli all’isola di Tremiti, dove si era trasformato quell’arido scoglio in una nuova colonia di confinati politici, e vi avviò un centinaio di confinati, fra i più giovani che si trovavano a Ponza. Appena giunto questo contingente, il direttore della colonia di Tremiti emise un’ordinanza che imponeva ai confinati di salutare romanamente i «superiori» quando li si incontrava, di salutare romanamente quando si entrava in direzione, quando si rispondeva all’appello e in tutte le occasioni che comportavano un rapporto fra confinato e autorità. L’ordinanza creò subito uno stato di agitazione e la risposta dei confinati fu la sola possibile: il rifiuto. Avvennero nuovi arresti e nuove condanne e quasi tutto il gruppo partito da Ponza andò a finire nelle carceri di Lucera. Gli arrestati all’isola di Tremiti per il rifiuto di salutare romanamente – fra i protestanti numerosissimi erano gli anarchici già recidivi al rifiuto – furono più di cento. Affrontarono la punizione e fecero un anno di carcere tenendo sempre duro, e il saluto fascista non venne più richiesto.
La triste processione di confinati protestatari che da Tremiti sbarcavano a Manfredonia per raggiungere in carrozzella, in littorina o a piedi, le carceri di Foggia, Lucera e San Severo colpiva la popolazione e destava se non altro curiosità richiamando l’attenzione pubblica sui confinati. Furono le autorità a cedere. Il governò comunicò che sarebbero rimasti all’isola di Tremiti quanti avessero accettato di alzare il braccio. Gli altri, dopo aver scontata per la seconda volta la loro condanna in carcere, sarebbero stati trasferiti a Ponza. […]
Un’altra agitazione molto caratteristica che i confinati dovettero sostenere all’isola di Ponza nel 1932 è quella che culminò nello sciopero della corrispondenza. I confinati dovevano consegnare tutte le lettere senza chiuderle e quelle in arrivo erano loro consegnate del pari aperte. Gli addetti alla censura erano semplici poliziotti che nei casi speciali e dubbi sottoponevano il caso o la corrispondenza al vicedirettore della colonia; ma erano tipi piuttosto ignoranti e grossolani i quali si facevano un merito a raccontare in paese tutti gli interessi dei confinati e le loro cose più intime.
In proposito avvennero casi di evidente intromissione in fatti personali che, in altri momenti, avrebbero portato a seri provvedimenti contro i responsabili. Anche i pacchi in arrivo erano esaminati con cura e molti sequestrati.

Lo sciopero della corrispondenza

Ricordo un piccolo episodio personale che riguarda mio figlio, il quale allora aveva forse quattro anni. Un’amica di famiglia, la governante della famiglia Bauer, arrestata più volte anche lei per attività antifasciste, aveva inviato a mio figlio un pacchetto contenente due giocattoli e un dolce. Il pacco venne aperto, come di norma, in mia presenza, ma il contenuto venne subito sequestrato perché l’indirizzo dello speditore non era quello della mia famiglia. «Ecco» disse l’agente della censura, «questi saranno un bel regalo per i nostri balilla». Mio figlio, per ragioni che tutti capiranno, non poté mai avere un giocattolo.
Oltre a tutte queste difficoltà la direzione, per ordine del ministero, emise una disposizione che proibiva ai confinati di scrivere se non agli strettissimi parenti. Si cercò di ottenere un addolcimento di quelle norme restrittive, ma non si approdò a nulla.
Si pensò allora di protestare in maniera radicale: non scrivere più a nessuno. Così ebbe inizio lo sciopero della corrispondenza. Decidere di non scrivere più significava non rispondere, per nessuna ragione, né alle lettere né ai telegrammi che le famiglie allarmate dal lungo ed inaspettato silenzio inviavano. Non ottenendo nessuna risposta né a lettere né a telegrammi, molte famiglie incominciarono a chiedere notizie, oltre che alla direzione della colonia anche al ministero degli interni: era quello che si voleva. La direzione cercò di fare pressione e chiamava all’ufficio censura gli interessati per incitarli a rispondere almeno alle lettere urgenti e ai telegrammi.
Tutti si rifiutarono, cosicché in breve tempo da parte dei familiari si elevò un vero coro di proteste da ogni parte d’Italia. Per assicurarsi che nessuno scrivesse, venne stabilito da parte di tutti i confinati, turni di guardia per vigilare la cassetta della posta che si trovava all’ingresso dei cameroni. Veniva fatto un turno di guardia di un’ora a testa per non destare sospetti, appostati in un angolo o nell’altro, da dove si poteva tenere d’occhio chi si appressava alla cassetta. Nessuno scriveva, ad eccezione fatta dei “manciuriani”, nonostante che la direzione, venuta a conoscenza che si faceva la guardia alla cassetta della posta, avesse fatto installare una cassetta supplementare in un angolo dei suoi uffici, fuori dalla possibilità di sorveglianza dei confinati. Questa volta (ma poi venne ristretta ai soli strettissimi parenti) il ministero dovette cedere. Dopo un mese di sciopero il direttore comunicò che il ministero, aderendo alle nostre richieste, aveva stabilito che si potesse corrispondere con chi si voleva a condizione però di presentare una lista delle persone con le quali si volevano mantenere relazioni epistolari. Così, aggirando l’ostacolo, il ministero dette ordine alla polizia di fare un’inchiesta sulle persone che avevano relazioni con i confinati, di chiamarle in questura e dimostrare loro che, a scanso di possibili disturbi, era meglio che cessassero ogni relazione con i confinati. Ed ogni volta che uno di questi corrispondenti, pur di avere un momento di pace, sottoscriveva la dichiarazione impostagli dalla questura, il confinato veniva chiamato all’ufficio censura dove gli si comunicava con grande soddisfazione che questo o quel parente od amico si rifiutava di continuare a corrispondere, quindi di non scrivere più a quell’indirizzo.

Ponza 1934 e 1935

Una delle ultime agitazioni, certamente una delle più importanti ed estese sostenute dai confinati politici relegati all’isola di Ponza, è quella avvenuta nel 1934, che ebbe una ripresa, forse più dura, nel 1935.
Essa era diretta contro un’ennesima ordinanza della direzione e del ministero che fra l’altro proibiva ai confinati di avere camerette in paese, imponendo a chi le aveva di lasciarle nel termine di dieci giorni; proibiva inoltre ai confinati di entrare nelle abitazioni dei privati e dei confinati che avevano casa e assegnava alla direzione la gestione delle mense. Era indubbiamente un colpo grosso, forse quello che in una sola volta tentava di stroncare ogni possibilità ai confinati non solo di studiare, ma anche di pulirsi e soprattutto conservare una certa sensazione di possedere ancora una vita propria. Soprattutto, questa ordinanza obbligava i confinati a passare le loro giornate a bighellonare nelle strade, quasi senza parlarsi perché non potevano riunirsi in gruppi superiori a tre. L’agitazione si svolse come al solito e sull’inizio nessuno pensava al peggio che stava per venire. «Il giorno in cui doveva andare in vigore l’ordinanza ci riunimmo in un camerone» scrive Mario Magri nel suo libro di ricordi, «per decidere il da farsi. Tolti i soliti “manciuriani”, tutti i confinati erano d’accordo che non si poteva accettare supinamente una tale nuova vessazione; decidemmo quindi di inviare una commissione dal direttore e di non uscire dal camerone per essere pronti a tutte le eventualità.
Il comando della milizia fece bloccare il bagno penale e le camerette; pattuglie armate si misero a perlustrare i corridoi per cercare di intimidirci e di provocarci. Noi restammo tutti ai nostri posti senza rispondere alle loro minacce ed ai loro insulti avendo ben compreso che cercavano di suscitare in ogni modo un incidente per poter infierire su di noi». Dai confinati fu nominata una commissione che andasse a trattare colla direzione. Nei locali direzionali si erano riuniti anche tutti gli ufficiali della milizia, i marescialli delle guardie di PS e dei carabinieri; i locali erano completamente bloccati da un folto gruppo di agenti e di militi fascisti.
Dalle discussioni risultò subito che le cose avrebbero potuto trovare una soluzione accettabile. Ma le discussioni andarono per le lunghe, forse più di due ore, e i confinati, ammassati nei cameroni, iniziarono ad innervosirsi e cominciò a circolare la voce che la protesta, per riuscire, doveva prendere forme più decise e che il meglio era di consegnare le carte di permanenza e farsi arrestare. Così avvenne in parte.
L’atto fu compiuto solo da un centinaio di confinati, gli altri, la maggioranza voleva riservare quest’arma, l’ultima, nel caso che la direzione non cedesse. Al ritorno, la commissione andata a parlamentare con la direzione affermava di aver ottenuto dal direttore l’impegno che avrebbe ritirato l’ordinanza a condizione che l’agitazione cessasse immediatamente. Vi fu un momento di perplessità, poi molti degli stessi che avevano consegnato la carta di permanenza si accorsero di aver almeno precipitato le cose, se non proprio di avere fatto un passo falso. Una nuova commissione venne mandata in direzione per vedere di accomodare le cose. Dopo animato discorrere, il direttore disse che i dimostranti potevano presentarsi in ufficio, riprendere i libretti e che tutto sarebbe finito. La cosa non piacque a tutti e molti fra quelli che avevano consegnato il libretto affermarono che non l’avrebbero ritirato ma «che doveva essere la direzione a rimandarglielo». Fu nominata una nuova commissione questa volta composta solo da due confinati fra quelli che avevano consegnato il libretto e mandata dal direttore. Mentre però si svolgevano ancora tutte queste trattative, arrivava un telegramma dal ministero, avvisato dal comando della milizia, che ordinava l’arresto di tutti quelli che avevano preso parte alla protesta consegnando la carta di permanenza e dei componenti delle varie commissioni.
L’agitazione aveva ottenuto però i suoi effetti perché la direzione non applicò l’ordinanza anche se il direttore, ritenuto incapace dalla milizia, venne subito dopo trasferito. Passò qualche mese di relativa calma quando, nel febbraio del 1935, la direzione confinaria di Ponza tornò a mettere in vigore l’ordinanza ritirata nel 1934. Prima di applicarla, forse per rendersi conto dell’umore e della resistenza dei confinati, fissò un termine di dieci giorni. Nuove proteste, ma questa volta irremovibilità da parte della direzione, allora tenuta dal commissario di PS Coviello. Tutti i confinati erano convinti che bisognasse fare qualcosa, ma non tutti erano d’accordo sulle modalità della protesta. Quelli che avevano consegnato i libretti nel 1934, pensando che allora il ritiro dell’ordinanza fosse dovuto alla loro azione, proponevano nuovamente lo stesso metodo. La direzione era ferma nell’applicare l’ordinanza che affermava gli era imposta dal ministero, e i confinati nel non volerla accettare.
Così, dopo lunghe discussioni fra i confinati, si addivenne, al fine che la protesta riuscisse imponente e vi aderisse il maggior numero di confinati, che bisognava consegnare la carta di permanenza. Infatti, il giorno in cui l’ordine doveva andare in vigore, i confinati, presentandosi all’appello, consegnarono i loro libretti. Fu una protesta quasi plebiscitaria. Non vi parteciparono i “manciuriani” e i politici che erano stati dispensati dai loro compagni perché incaricati di tenere in vita le iniziative che più a loro premevano come le mense, le biblioteche e gli spacci. Trecento circa furono i politici di Ponza che presero parte all’agitazione e tutti furono arrestati e inviati al carcere napoletano di Poggioreale. […]
Ora, se le varie grandi agitazioni che si svolsero al confino non servirono che a dimostrare quanto fosse duro lottare contro la direzione, d’altra parte risultò chiaro e preciso che la galera non era un mezzo sufficiente a spezzare o anche solo a piegare la resistenza dei politici, né a spegnere il loro ardore di lotta. Anzi, ogni violenza ed ogni nuovo arresto suscitavano sempre più vivo e profondo il legame di solidarietà che univa tutti ed un’acuta sensibilità portava tutti questi uomini obbligati a vivere su uno scoglio, nonostante le differenze di ideali e di metodi di lotta e di azione, gli uni a difendere gli altri perché così facendo ognuno sapeva di difendere anche se stesso e la propria dignità, il principio di libertà e di giustizia che li animava. (...).

Un gruppo di confinati a Ponza

Il prete e il passaporto

Se nei primi anni l’emigrazione politica italiana poteva trovare in Francia una parvenza di libertà che permise anche agli anarchici di continuare la lotta contro il fascismo, in seguito, per la continue pressioni esercitate dal governo fascista, anche in Francia si incominciò ad arrestare e ad espellere su larga scala. Chi era costretto a lasciare la Francia cercava asilo nel Belgio, nel Lussemburgo e, quando proprio non ne poteva più, in qualche Paese d’oltreoceano. I rifugiati politici espulsi, soprattutto se erano anarchici, erano continuamente sballottati da una frontiera all’altra.
Dalla Francia al Belgio, al Lussemburgo, all’Olanda e viceversa, sempre senza documenti e nella impossibilità di trovare lavoro ed una qualsiasi sistemazione.
I consolati erano stati trasformati in luoghi di polizia e in covi di spie e di agenti provocatori, dai quali era bene poter restare lontani. Quando qualcuno spintovi dalla disperazione vi si rivolgeva per avere le carte necessarie ad ottenere lavoro, non solo non era ricevuto, ma era quasi sempre denunciato alle autorità del luogo che si facevano premura di arrestarlo ed espellerlo.
In tali condizioni, anche dopo il caso di Modugno, si comprende come si andassero ripetendo gli attentati contro i consolati e gli agenti consolari. Ai primi del novembre 1928, un militante anarchico, Angelo Bartolomei, domandava al prete Cavaradossi, che fungeva da viceconsole a Joeuf, il rinnovo del passaporto. Sapendolo antifascista, questo prete rispose che non poteva concedergli nessun rinnovo perché risultava condannato in Italia a diciassette mesi di carcere e a 4.500 lire di multa per alcuni articoli scritti contro il governo. Ma aggiungeva che gli avrebbe potuto premettere il rinnovo solo a condizione che si mettesse in relazione epistolare con alcuni antifascisti della regione, in Francia o in Belgio, incitandoli a commettere atti di terrorismo o di espropriazione. Gli individui compromessi avrebbero risposto al Bartolomei e le lettere avrebbero dovuto essere consegnate al prete viceconsole che, a sua volta, le avrebbe trasmesse al console di Nancy. Il Cavaradossi aggiungeva che, se il Bartolomei avesse accettato tali condizioni, avrebbe potuto avere il passaporto e la libertà di rientrare in Italia. Era un vero e proprio incitamento alla provocazione ed un uomo che si sentiva ancora tale non poteva che ribellarvisi. Alle insistenti proposte del Cavaradossi, il Bartolomei rispondeva con un colpo di pistola e veniva arrestato mentre cercava di trovare riparo in Belgio. Ai giudici spiegava poi in dettaglio come si erano svolte le cose: «Volendo approfondire lo scopo che si proponeva il prete, finsi di accettare le condizioni. Qualche giorno più tardi, cioè l’8 novembre, rividi di nuovo quel prete nella via e mi incitò a consegnargli i documenti richiestimi. Qualche giorno dopo queste insistenze, l’idea di sopprimerlo si fece strada in me, preferendo divenire assassino piuttosto che traditore. Uscii e fui da un libraio. Mi procurai della carta da lettere e feci un pacchetto che legai con della cordicella rossa. Andai in un bosco dove avevo nascosto delle armi, mi munii di due revolver automatici. Così armato ritornai nell’ufficio del prete. Egli mi raccontò subito che Gamberini, un altro anarchico, era stato espulso dalla Francia e che altri sessanta italiani di Joeuf e di Homécourt erano proposti per l’espulsione, precisando che io figuravo in quella lista.
Il prete insistette perché io abbandonassi le mie opinioni e entrassi nei ranghi fascisti. Quindi mi domandò i documenti promessi. Gli rimisi la carta che mi ero procurata e nel medesimo tempo levai il mio revolver e sparai tre colpi». Riuscito a fuggire dalla Francia, verrà però arrestato al varcare la frontiera del Belgio. Sottoposto a procedimento di estradizione, sarà salvato dalla vasta agitazione che tanto in Francia che in Belgio avrà luogo.
Quella dello spionaggio e della provocazione è sempre stata una delle malattie caratteristiche del fascismo, così come del fascismo erano caratteristici quei consolati. Un altro caso esemplare è quello dell’operaio anarchico Gino D’Ascanio. Espulso dalla Francia perché anarchico, si rifugiò in Belgio da dove venne subito espulso. Fu in Olanda e nel Lussemburgo, dove subì la stessa sorte. Senza documenti, le espulsioni avvenivano a catena. Ridotto alla disperazione, nel maggio del 1930, dopo aver richiesto i documenti al console italiano del Lussemburgo ed averne avuto un ennesimo rifiuto, sparava contro un impiegato particolarmente provocatore di quel consolato.
A Saint Raphael, il 23 agosto 1929, avveniva un attentato di protesta contro il console di quella località, il marchese Di Muro, che se la cavò con qualche scalfittura.
Nel settembre del 1929, l’operaio Enrico Manzuoli (Morano) veniva aggredito a Saarbrucken durante una manifestazione di caschi d’acciaio. Vedendosi sopraffatto dal numero, sparava alcuni colpi di rivoltella: uccideva un aggressore e ne feriva tre. Processato alle Assisi di Saarbrucken il 3 luglio 1930, si dichiarava anarchico e dolente solo di non aver potuto colpire i più alti responsabili del fascismo. Si buscò una condanna a sei anni. L’elenco dei colpi e dei contraccolpi di questo interminabile stillicidio potrebbe continuare per pagine e pagine. (…).

Ugo Fedeli

Tratto dal n. 5 (luglio 1995) del “Bollettino” del Centro Studi Libertari.